“Benny Gantz si è arreso a Netanyahu senza combattere, per usare una terminologia militare cara all’ex capo di stato maggiore. C’è chi ha detto e scritto che Gantz abbia tradito il suo elettorato. Ma accettando di governare assieme a Netanyahu, ha fatto qualcosa di peggio: ha inferto una ferita mortale alla speranza di cambiamento”. A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa a Reset, è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare e vice sindaca di Tel Aviv, paladina dei diritti delle donne, figlia di uno dei miti d’Israele: l’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan.
Dopo snervanti trattative, Israele sta per avere un nuovo governo: il governo Netanyahu-Gantz. C’è chi lo ha definito il “governo dell’annessione”, chi un “matrimonio” politico contronatura. Qual è il suo giudizio?
Il più severo possibile. Gantz è entrato in politica col dichiarato proposito di mettere fine all’era Netanyahu. Lo ha fatto anzitutto in nome di uno dei pilastri di uno stato di diritto: nessuno, neanche un rimo ministro può considerarsi al di sopra della legge, come pretende Netanyahu. Gantz ha ceduto su questo e non può giustificare quella che è una mera operazione di potere in nome della ‘guerra’ al Coronavirus. In passato, Israele ha combattuto tante guerre che ne hanno messo in pericolo la sua stessa esistenza, ma mai quelle guerre sono servite per operazioni politiche di potere. Nei momenti più duri della sua esistenza, Israele ha saputo mostrarsi unito, al di là delle divisioni politiche tra chi era al governo e chi all’opposizione. Il sale della democrazia è proprio il confronto tra diverse visioni, tra diverse alternative di governo. Gantz ha cancellato tutto questo e nel farlo si è consegnato a Netanyahu, provocando anche la rottura nella coalizione che aveva dato vita a Blu e Bianco.
Ma per Kahol Lavan (Blu e Bianco), Gantz ha conquistato importanti dicasteri, quali la Difesa, per lui, gli Esteri e la Giustizia. E poi, sempre in base all’accordo da perfezionare, tra 18 mesi sarà lui a ricoprire la carica di premier…
Diciotto mesi sono un’eternità per la politica israeliana, basti pensare che in meno di un anno abbiamo avuto tre elezioni anticipate. In Israele nessuno, se non Gantz, scommetterebbe uno shekel sul rispetto della staffetta da parte di Netanyahu. Piuttosto che cedere quella poltrona, farà in modo di andare a nuove elezioni. E ci andrà dopo aver diviso l’opposizione. Gantz ha ceduto a un primo ministro che fomenta odio e divisione, che con le sue parole intrise di odio arma ideologicamente e politicamente la mano alla destra più estrema. Netanyahu continua a comportarsi come un politico, pronto a tutto pur di restare al centro della scena. Un comportamento indegno del leader di un partito, il Likud, che io ho sempre avversato ma a cui riconosco di essere stato, assieme al partito laburista, per decenni un perno fondamentale del nostro sistema democratico. Begin e Sharon si rivolterebbero nella romba se potessero ascoltare le performance di Netanyahu.
Performance vincenti.
Ma che Israele pagherà a caro prezzo. Lo pagheranno le minoranze, non solo gli arabi israeliani, lo pagherà il processo di pace con i palestinesi, lo pagheranno le fasce socialmente più deboli della società. D’altro canto, Netanyahu ha costruito il suo consenso sulla divisione del paese, radicalizzando a destra il Likud, cavalcando paura e insicurezza, indicando di volta in volta i nemici da combattere, esterni e interni. E ora si appresta a essere primo ministro per altri 18 mesi. Un incubo.
A proposito di ex oppositori. Nel governo in formazione entrerà anche il laburista Amir Peretz…
Qui non siamo neanche al tradimento. Siamo all’assassinio politico del partito che ha fondato lo Stato d’Israele, il partito che fu di Ben Gurion, Herzog, Golda Meir, Rabin, Peres… Il partito di mio padre. E tutto questo per uno strapuntino in un governo che di laburista non avrà niente. Non è solo mancanza di leadership credibili, autorevoli. E’ che la sinistra ha smesso da tempo di essere empatica, incapace di entrare in sintonia con quella parte d’Israele più povera, e insieme più dinamica. Le politiche della destra hanno provocato gravissime faglie sociali, impoverendo una parte significativa del paese e, al tempo stesso, non investendo sull’Israele delle start up, sulla ricerca, l’innovazione. E’ un problema di radicamento ma credo soprattutto di visione, di capacità di immaginare un Israele altro da quello plasmato dalle destre. Una visione che avevano i padri fondatori d’Israele, che ha innervato il pionierismo sionista. Non è nostalgia del passato, anche se per età potrei indulgere a questo sentimento. Per fortuna anche alla veneranda età di 80 anni continuo ad avere rapporti con tante ragazze e ragazzi splendidi, impegnati nel sociale, che non hanno rappresentanza politica. Non sono pochi, sa. Ma per portarli dalla propria parte, la sinistra dovrà lavorare sodo e con tempi non brevi.
In questo scenario non certo rassicurante, c’è ancora uno spazio per rilanciare il dialogo israelo-palestinese?
Il cuore mi porterebbe a rispondere positivamente, ma la ragione no. Se questo spazio deve essere trovato da coloro che si apprestano a governare Israele, allora dico no, questo spazio non esiste più. Non esiste perché si è scelto di indebolire e delegittimare un leader moderato, disposto al compromesso, qual è Abu Mazen, anche se questo ha finito per rafforzare gli estremisti di Hamas. Non esiste, perché nella visione di cui questa destra è portatrice la sicurezza è sempre congiunta con disegni di grandezza che non contemplano il riconoscimento di uno Stato palestinese. Non esiste, non può esistere una pace vera, durevole, che possa conciliarsi con la massiccia colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Non è conciliabile per il semplice, inconfutabile, dato di realtà che la politica di annessione di fatto di terre palestinesi, la trasformazione, anche sul piano dello status, di colonie in città israeliane, minano dalle fondamenta un accordo fondato sul principio di “due popoli, due Stati”.
Ma gli insediamenti, le direbbe un esponente del Likud, sono cresciuti, e tanto, anche quando a guidare Israele erano primi ministri laburisti.
Su questo la sinistra dovrebbe riflettere e fare una salutare autocritica. Ma c’è una differenza sostanziale: nell’orizzonte della destra nazionalista, gli insediamenti hanno una legittimazione ideologica e non rispondono a ragioni di sicurezza. Per la destra più estrema, che oggi ha un ruolo decisivo all’interno del governo, i coloni, anche nelle componenti più radicali, sono degli eroi, i pionieri di Eretz Israel. In questa ottica, gli insediamenti in Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania, ndr) sono la concretizzazione del disegno della Grande Israele che è stato a fondamento del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, da sempre il pensatore di riferimento della destra israeliana. Dove dovrebbe nascere lo Stato dei palestinesi? Su quali territori, entro quali confini? E ancora: certo, può esistere uno Stato smilitarizzato, ma non uno Stato che non eserciti la propria sovranità sul territorio nazionale. Uno Stato del genere sarebbe una finzione. Netanyahu, e con lui i capi della destra radicale, considerano la nascita di uno Stato di Palestina non come una minaccia alla sicurezza d’Israele ma come un colpo mortale alla Grande Israele. Non è con la forza che Israele diventerà un paese normale.
“Israele diventerà uno Stato che discrimina in modo ufficiale il popolo palestinese in base all’etnia, privandolo dei diritti civili; ciò sarà la fine di Israele come paese democratico così come lo conosciamo. L’annessione non comporta solo la fine delle aspirazioni del popolo palestinese all’indipendenza, ma anche dei valori fondanti dello stato di Israele sanciti nella Dichiarazione di indipendenza del 1948. Vi è anche il rischio di un’ondata di delegittimazione di Israele e di ulteriori episodi di antisemitismo. L’annessione metterà in pericolo infine i rapporti tra Israele e gli ebrei progressisti nel mondo per i quali le ragioni dei diritti umani, dell’uguaglianza e della democrazia sono principi essenziali…”. E’ un passaggio dell’appello lanciato a livello internazionale da J-link, una rete internazionale che comprende organizzazioni ebraiche attive negli Stati Uniti, Canada, Paesi d’Europa, tra cui l’Italia, America Latina, Sud Africa e Australia. Condivide queste considerazioni?
Assolutamente sì. Sono sempre stata convinta che la creazione, negoziata, di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, non è un ‘regalo’, tanto meno un cedimento, che Israele fa al ‘nemico’, e non risponde neanche ad un astratto principio di giustizia. Una pace a due Stati è un ‘regalo’ che Israele fa a se stesso, l’unico modo per non cancellare i valori e i principi che sono a fondamento della nascita dello Stato d’Israele.
Non c’è molto da commentare, purtroppo tutto quanto detto è irrimediabilmente vero. Non cè luce in fondo al tunnel, soltanto una galleria buia senza fine, l’occupazione dei territori è drammatica, la destra nei giovani sempre più forte. Ogni speranza cancellata. Auguro sorga un barlume di lucidità in gruppi di giovani. Insomma auguro (anche se ci ho creduto molto poco) che sorga
all’improvviso un movimento giovane simil-sardine. Stronzata? Forse. Quando si affoga ci si aggrappa ai piccoli rami.
Sono totalmente d’accordo con Yael Dayan: non ci sarà mai pace se non si faranno due stati indipendenti e pacificamente coesistenti. E’ una mia convinzione da 40 anni. L’assurdo è che i politici attuali non ricordino che Israele è nato dopo la terribile tragedia che ha sterminato 6 milioni di ebrei da un dittatore che intendeva realizzare anche lui la Grande Germania. La storia non ha insegnato nulla? Contro la pace sono stati uccisi capi israeliani. Questa coalizione è un ulteriore assassinio della democrazia in Israele: e l’esecutore è il colonialismo sostenuto da Netahìnnyahu, per di più becero e ingiusto sostenuto da Netanyahu, in questo momento il peggior nemico di Israele.