La presidenza della Repubblica tunisina ha reso nota la proroga “fino a nuovo ordine” dello “stato di eccezione” proclamato il 25 luglio scorso. In concreto, rimangono sospese le attività dell’Assemblea del popolo (il Parlamento tunisino, composto da una sola Camera, è stato esautorato dei suoi poteri) e l’immunità dei deputati.
La mossa del presidente Kaïs Saïed, si ricorderà, era giunta al culmine di giorni di grande tensione sociale, con manifestazioni a macchia di leopardo nei principali centri urbani tunisini: migliaia di cittadini, esasperati da crisi economica ed emergenza sanitaria, chiedevano la testa del primo ministro Hichem Mechichi e del suo Esecutivo, a regia islamista moderata con motore populista. Convocato al palazzo di Cartagine per conferire con il presidente, Mechichi aveva infine accettato di rassegnare le dimissioni nella tarda serata del 25 luglio: le circostanze della sua destituzione non sono ancora chiare, l’ex premier è riapparso in pubblico più di due settimane dopo l’accaduto. Per giorni la stampa panaraba ha riferito di pressioni, se non di un vero e proprio pestaggio, da parte di agenti dei servizi segreti egiziani, presenti nel palazzo presidenziale tunisino durante l’ultima udienza con Kaïs Saïed. Tutti gli interessati hanno smentito un coinvolgimento straniero, ma la ‘sintonia’ fra i presidenti tunisino ed egiziano (Abdel Fattah al-Sisi) è cosa nota nelle cancellerie nordafricane.
A metà agosto, Mechichi è stato immortalato presso la sede dell’Autorità tunisina per la lotta alla corruzione, nell’atto di consegnare la documentazione riguardante la sua posizione reddituale e patrimoniale.
Colpo di Stato, sì o no?
Il presidente Saïed ha fatto ricorso all’articolo 80 della Costituzione (l’ultima è stata emanata nel 2014), che prevede la possibilità di “mettere fra parentesi” il Parlamento in condizioni di particolare rischio per la sicurezza e la stabilità del Paese per trenta giorni. E che in questo lasso di tempo, non prorogabile, la Corte costituzionale verifichi la correttezza dell’operato della presidenza, teso ad affidare il più presto possibile l’incarico di formare un nuovo Governo.
Insomma, sulla carta i poteri legislativo ed esecutivo (in questo caso pure giudiziario, visto che il presidente ha rimosso il Procuratore della Repubblica) non potrebbero rimanere nelle mani di un solo uomo per più di un mese.
Ma che cosa accade se, come in questo caso, la Corte costituzionale non esiste e l’inquilino del palazzo di Cartagine non dà segnali di voler ripristinare una situazione di normalità?
I detrattori del professore di diritto costituzionale Kaïs Saïed temono che la nuova normalità, nei progetti del presidente, sia questa e cominciano ad alzare la voce.
Scrive su al-Maghreb una delle penne politiche tunisine più autorevoli ed indipendenti, Zyed Krichen: “Dopo aver prorogato fino a nuovo avviso le misure eccezionali, dov’è il Governo?”. Già: il Governo dov’è? Di un nuovo esecutivo, magari di unità nazionale, neanche l’ombra.
Nel mese appena trascorso, in compenso, la giustizia tunisina ha lavorato senza sosta, mettendo sotto inchiesta i vertici di Ennahda (islamista moderato, maggioritario in Parlamento), di Qalb Tounès (populista, fondato dall’uomo d’affari Nabil Karoui) e di Aish Tounès (movimento politico che si è presentato alle elezioni dell’autunno 2019). Su di essi, si allunga l’ombra di finanziamenti illeciti – anche di provenienza estera – ricevuti durante la campagna elettorale.
A una lunga lista di imprenditori, politici e simpatizzanti di Ennahda sono stati congelati conti correnti e confiscati beni immobiliari. Vietato l’espatrio dal Paese.
Poi, è stato il momento del giro di nomine: agli Interni (Ridha Gharsallaoui è il nuovo ministro), ai Servizi (Sami Hichri è il direttore generale della Sicurezza nazionale) e alla Guardia nazionale (Chokri Riahi), per citare le cariche più in vista.
Dal canto suo, Ennahda, i cui uffici sono stati assaltati e incendiati in svariate località a fine luglio, ha adottato un basso profilo, evitando di reiterare l’accusa di golpe nei confronti del presidente. Rinnovato il proprio comitato esecutivo (ma il numero uno Rached Ghannouchi rimane al suo posto), ora però il partito della “Rinascita” invoca il ritorno alla normalità, assieme ad altre sigle politiche.
Le non-risposte della presidenza
“É fuori questione tornare alla situazione precedente”, dice il presidente della Repubblica tunisina alle forze politiche che lo esortano a ripristinare una cornice democratica. Di più: “Quello che conta non è il Governo, ma la continuità dell’azione dello Stato”. I tunisini non hanno ancora avuto la possibilità di conoscere su quali binari si muoverà lo Stato d’ora in poi: restano avvolti dal mistero obiettivi e strategie economici, politici, sociali, mentre si prefigurano un nuovo rimaneggiamento costituzionale – al culmine del quale il presidente intende indire un referendum popolare – e il ritorno alle urne.
Nel mezzo, l’eloquio presidenziale lascia per lo meno perplessi gli osservatori politici: governo del presidente, lealtà politica al presidente, responsabilità unica del presidente evocano scenari autoritari, non democratici. Inoltre, se la svolta pseudo-autocratica era finalizzata a risolvere gravi problemi contingenti, un mese dopo poco o niente è cambiato, se non l’ammorbidimento della stampa proprio nei confronti delle emergenze.
Per quanto riguarda quella epidemica, dopo un picco di contagi a metà luglio, il contesto rimane preoccupante principalmente a causa della mancanza di ossigeno, medicine e posti letto negli ospedali. Le autorità sanitarie temono che il già sostenuto flusso migratorio di medici verso l’estero si intensifichi: a oggi, dei 1.200 laureati in medicina ogni anno, più del 50 percento va a lavorare fuori dal Paese.
Quanto allo stallo economico, non si vede per ora l’uscita dal tunnel: la Legge di Bilancio è lungi dall’essere approvata, mentre la Presidenza della Repubblica ancora fa piazza pulita dei vertici del ministero dell’Economia e delle Finanze e dei principali istituti bancari nazionali.
L’incertezza regna nel Paese nordafricano, come testimonia anche l’intensificarsi delle partenze clandestine dalle coste tunisine verso quelle europee: nella sola giornata del 25 agosto, la Guardia costiera tunisina ha bloccato 11 imbarcazioni cariche di centinaia di migranti irregolari, in larga parte di cittadinanza tunisina.
Le voci libere a rischio
Yassine Ayari è un parlamentare indipendente, oltre che attivista e blogger. Arrestato per aver definito colpo di Stato la svolta autoritaria di fine luglio, è stato condannato a due mesi di detenzione. Su Facebook, la moglie definisce la sua carcerazione come “violenta”. Lui ha recentemente ricominciato a pubblicare post sui social: nel più recente, invita i suoi elettori a inviargli dossier su cui lavorare, visto che percepisce “ancora lo stipendio da parlamentare”.
Ayari ha già avuto problemi con la legge, in passato: nel 2015 ha scontato una pena di sei mesi per aver diffamato le Forze armate. I tre mesi comminatigli nel 2018 per “critiche” sempre nei confronti dei militari, invece, non sono stati scontati perché l’uomo ha goduto dell’immunità parlamentare. Fino alla sospensione delle prerogative di deputato: il 30 luglio è stato fermato da agenti dei servizi segreti privi di un regolare mandato di arresto, secondo quanto riferito dai colleghi deputati del partito “Speranza e Lavoro”.
In questo frangente ambiguo e complesso, le voci libere intimidite, arrestate e ostacolate si moltiplicano, mentre le loro vicende trovano di rado spazio sui media mainstream. La denuncia è affidata alle ong locali e internazionali, via social.
Gli stessi organi di stampa, invece, danno ampio risalto ai sondaggi che rafforzano l’operato del presidente. Come quello condotto dall’istituto Sigma Conseil e reso noto a metà agosto: Kaïs Saïed gode di un forte consenso popolare, attestato intorno al 94,9 per cento dei tunisini interpellati. Se si andasse a nuove elezioni oggi, sarebbe confermato nel suo ruolo a grande maggioranza. E se creasse una nuova sigla, un ‘partito del presidente’, si attesterebbe al secondo posto in Parlamento, alle spalle della restauratrice Abir Moussi (leader del “Desturiano Libero”, apertamente ispirato al Rassemblement Démocratique di Zine el-Abidine Ben Ali).
“La società civile vuole certamente mettere fine a una gestione islamista che è stata una calamità per la Tunisia – commenta Krichen, raggiunto da Reset a Tunisi – ma senza sacrificare la democrazia e i diritti dell’uomo. Per il momento il presidente ribadisce il suo attaccamento alle libertà individuali e collettive”. Rimane il fatto che, oggi, “la tentazione autoritaria è molto forte, nel Paese”.
Foto: Il presidente tunisino ritratto la sera della sue elezione, il 13 ottobre 2019 (Fethi Belaid / AFP).