Leggetelo fino in fondo, questo viaggio di Muhammad Shehada, scrittore e attivista della società civile di Gaza, tra i giovani della Striscia. Leggetelo e provate a immedesimarvi in loro. A Gaza muore la speranza, e senza speranza non ha senso vivere. E nella Striscia sono sempre di più i giovani che preferiscono farla finita. Reset ha ricostruito questo viaggio, E lo propone ai lettori
Non sarà un tentativo inutile. È un tentativo di fuga. Basta! Lamentarsi con nessuno che non sia Dio è un’umiliazione….
Queste sono state le ultime parole scritte da un giovane attivista di Gaza. Suleiman Al-Ajouri le ha postate su Facebook un giorno prima di spararsi in testa sulle scale di casa sua la settimana scorsa. Aveva 23 anni. Suleiman era un giovane premuroso e di buon cuore. Il suo unico desiderio era quello di vivere il minimo indispensabile per una vita normale e dignitosa. Eppure, come la stragrande maggioranza dei giovani di Gaza altamente istruiti ma assediati – tra i quali la disoccupazione ha raggiunto uno sbalorditivo 78 per cento – la vita e le opportunità hanno voltato le spalle a Suleiman e non gli hanno lasciato nulla da perdere.
L’addio di Suleiman
Suleiman è stato uno dei principali attivisti nelle manifestazioni giovanili “We Want to Live”, guidate dai giovani che sono scesi in strada nel marzo 2019 per protestare contro l’invivibile baraccopoli tossica che Gaza è diventata sotto il blocco di Israele e il dominio di Hamas. Le proteste sono state violentemente disperse da Hamas, la cui forza di sicurezza interna – un clone dello Shin Bet israeliano – ha occasionalmente molestato e arbitrariamente arrestato Suleiman, anche al matrimonio di sua sorella. Ciò che ha veramente spezzato Suleiman, secondo i suoi amici, è stato il modo in cui ha visto ogni via di fuga dall’infernale vicolo cieco di Gaza bloccata, senza un modo dignitoso di andarsene se non quello di togliersi la vita.
Sempre più solo, al verde e costantemente tormentato, Suleiman ha trovato una via d’uscita dalla gabbia di Gaza. Ma è stato fino alla sua tomba.
La maggior parte dei gazawi si può facilmente ricollegare all’esperienza di Suleiman. Infatti, lo stesso giorno in cui si è tolto la vita, altri tre giovani si sono suicidati. Ayman al-Ghoul, 24 anni, si è gettato dal quinto piano della sua casa. Una trentenne si è impiccata in casa sua, e Ibrahim Yassin, 21 anni, è morto per le sue ferite una settimana dopo essersi dato fuoco.
Altri tre gazawi hanno tentato il suicidio entro 24 ore dalla morte di Sulieman. Ahmed al-Malahi ha ingoiato 50 pillole, un giovane adolescente ha tentato di gettarsi da un balcone e un adolescente di 18 anni ha ingoiato decine di pillole. Mercoledì scorso, un altro giovane ha tentato di gettarsi da un balcone del Ministero degli Affari Sociali dopo che gli era stato negato l’aiuto.
Il protagonista di tutti questi casi è identico: giovane, disoccupato e senza futuro.
Ogni minuto che passa mentre l’inabitabilità di Gaza non è stata affrontata, decine di vite sono in grave pericolo. I giovani di Gaza stanno morendo. Stanno morendo di una morte prolungata per soffocamento e disperazione, o di una morte accelerata per mano loro.
Muoiono dentro ogni volta che vedono persone nel mondo esterno che viaggiano, che cercano una carriera o un’istruzione, mentre rimangono rinchiusi nella gigantesca prigione di Israele. Muoiono dentro quando vedono la gente fuori nel mondo innamorarsi, mentre non possono mai permettersi di mettere su famiglia. Muoiono dentro quando vedono che la loro disidratazione è giustificata da Israele come una necessità di sicurezza, e il mondo la compra. E muoiono dentro quando vedono i loro leader viziati che scappano infantilmente dalle responsabilità mentre Gaza corre verso il precipizio.
Mentre se ne stava seduto inerme e senza un soldo, aveva guardato senza speranza i suoi amici che vendevano uno dopo l’altro tutto quello che avevano per raccogliere i soldi necessari per ottenere un visto turistico per la Turchia, per poi subire un indicibile viaggio attraverso l’Egitto fino a Istanbul, per aspettare lì, indigente, l’improbabile possibilità di entrare in Europa.
Lui stesso aveva cercato di raccogliere abbastanza soldi per il viaggio in Turchia: era riuscito a pagare una richiesta di visto, ma l’ha ritirata quando ha visto che non aveva alcuna possibilità di coprire il costo del viaggio stesso.
Quasi tutti quelli che conosco a Gaza hanno contemplato il suicidio più di una volta come una via d’uscita. Altre vie di fuga, come il viaggio, sono inaccessibili.
La precarietà di Gaza
Non solo coronavirus. Il 2020 è proprio l’anno indicato dalle Nazioni Unite come quello in cui la Striscia di Gaza potrebbe diventare un luogo inabitabile. L’economia locale è in caduta libera, con la disoccupazione giovanile al 70% e quasi l’80% della popolazione che dipende in maniera diretta dagli aiuti umanitari.
La quotidianità degli abitanti della Striscia è inoltre scandita dalla cronica mancanza di acqua potabile e da continui blackout elettrici. Secondo l’associazione israeliana Physicians for Human Rights – Israel (Phri), in tutta la Striscia di Gaza ci sarebbero solo 70 posti letto in terapia intensiva, per una popolazione di circa due milioni di persone.
Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima.
Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane. Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo.
A ciò si aggiunge la mancanza cronica di medicine e prodotti sanitari di base, senza contare l’inadeguatezza delle strutture sanitarie in caso di ricoveri in terapia intensiva e un sistema già al collasso da mesi.
Ciò che scoraggia più suicidi e impedisce che questi numeri salgano alle stelle è la credenza religiosa tra la popolazione di Gaza, prevalentemente musulmana, che il suicidio sia un peccato imperdonabile che porta all’eternità all’inferno.
Eppure, dovrebbe essere incredibilmente significativo che decine di giovani gazzani che si suicidano o tentano il suicidio siano stati chiaramente costretti a concludere che l’inferno di Dio, non importa come, sarebbe migliore dell’inferno in cui Gaza si trova ora dopo 13 anni di blocco draconiano israeliano, di guerre periodiche e di escalation, di un governo indefinito di Hamas e di un’intrattabile divisione inter-palestinese.
Anche se Hamas e Fatah hanno annunciato all’inizio di questo mese che avrebbero ripreso la riconciliazione e si sarebbero uniti contro il piano di annessione di Israele, rinviando in qualche modo tutti i punti di scontro tra loro, i discorsi e i servizi fotografici che hanno lanciato questa vecchia e nuova campagna hanno ispirato poca speranza tra i palestinesi disperati e immiseriti.
Un sondaggio locale ha rilevato che il 67 per cento dei palestinesi non vedeva l’annuncio di Hamas-Fatah come un serio cammino verso l’unità. Invece, questi “colloqui di riconciliazione” stanno diventando uno scherzo sempre più insensibile e ripugnante dopo 13 anni di ripetuti e inutili tentativi.
Vie d’uscita
Ciò di cui i gazawi hanno più urgentemente bisogno dalla loro leadership è una vera unità che si concluda con le elezioni nazionali per scegliere una nuova leadership rappresentativa che rispecchi la volontà della gente e che veda i loro problemi e le loro necessità, non più photo opportunity
La mossa più essenziale che la comunità internazionale può offrire a Gaza è quella di tradurre la retorica in azione, e di sfidare in modo significativo l’assedio di Israele fino alla sua completa rimozione. Se non si riesce a trovare un coraggio così basilare per combattere un chiaro crimine di punizione collettiva, allora la comunità internazionale dovrebbe invece mostrare ai giovani e alla gente di Gaza un barlume di speranza; per rompere il loro isolamento, diventare più visibili nella loro vita, piuttosto che impegnarsi in una diplomazia nascosta o firmare assegni a porte chiuse.
Inviare a Gaza più delegazioni che incontrino persone piuttosto che leader politici viziati e alienati, designare borse di studio speciali per i cittadini di Gaza, creare opportunità di lavoro a distanza e chiedere a Israele di assumersi le proprie responsabilità nei confronti di una popolazione occupata.
Altrimenti – conclude Muhammad Shehada – siamo tutti complici nel condannare a morte i giovani che sono il futuro di Gaza, sia a un ritmo macchinosamente lento, o più rapidamente, per loro stessa mano.
Foto: Mohammed Abed / AFP