Da 25 anni, le loro identità sono scolpite su imponenti lastre di marmo bianco, a una manciata di chilometri dalle loro abitazioni. Dove non sono mai tornati, né da vivi, né da morti. I loro nomi e cognomi sono uno sotto l’altro, in ordine alfabetico. E accanto a quella lunga lista, c’è soltanto l’anno di nascita, perché quello di morte è uguale per tutti. L’imponente sacrario di Potočari, in Bosnia, accoglie le 8.372 vittime ufficialmente riconosciute del massacro di Srebrenica, considerata la strage più grave compiuta in Europa dal secondo dopoguerra in avanti.
Erano quasi tutti maschi e quasi tutti erano di fede islamica. Tra il 6 e l’11 luglio del 1995, nella zona protetta di Srebrenica, città musulmana in una regione bosniaca a maggioranza serba, intere generazioni di uomini, dai 12 ai 77 anni, vennero sistematicamente cancellate, secondo un disegno di pulizia etnica messo in atto dalle unità dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, guidate dal generale Ratko Mladić, insieme alle forze paramilitari comandate da Željko Ražnatović, conosciuto anche come “Arkan”. Al momento del massacro, la cittadina bosniaca, immersa tra il verde dei boschi e il fiume Drina, si trovava sotto la protezione di un contingente olandese delle Nazioni Unite, che avrebbe dovuto difendere la sua popolazione da attacchi e violenze, ma che, nei fatti, non fermò e, soprattutto, non si oppose al compimento dell’eccidio.
Dopo un’offensiva durata qualche giorno, i militari di Mladić riuscirono a entrare nella cittadina, nonostante la presenza dei caschi blu, sistemati in un capannone collocato proprio a Potočari, dove oggi sorge il memoriale e dove in quell’estate accadde di tutto: uccisioni, stupri e violenze di ogni tipo. All’arrivo delle unità serbo-bosniache a Srebrenica, attorno all’11 luglio, i cittadini maschi vennero separati dal resto delle loro famiglie e nel giro di 72 ore vennero fatti sparire. Letteralmente. Trasferiti in edifici pubblici, dove oggi i bambini vanno a scuola regolarmente, migliaia di bosniaci musulmani vennero spogliati dei loro averi e legati con le mani dietro la schiena. Un camion, poi, li portava nei boschi, dove un colpo di pistola alla nuca metteva fine alla loro esistenza. I cadaveri, gettati principalmente in fosse comuni e spesso volutamente smembrati, non vennero mai restituiti alle famiglie. Che, in molti casi, ancora cercano i propri cari, scavando spesso a mani nude. Ogni anno, il lavoro degli anatomopatologi ritrova frammenti di ossa e li riconsegna a chi è rimasto. Sopravvissuti, figli, mogli, madri, sorelle. Il Dna stabilisce a chi appartengono gli scheletri e in 25 anni sono stati ritrovati più di 6mila resti umani. Psichiatri ed esperti sostengono che riavere anche solo una parte del corpo di un proprio familiare possa essere utile per avviare un processo di elaborazione.
Luci e ombre giudiziarie
Niente in quella circostanza si rivelò casuale, anche perché il massacro si compì attraverso una brutalità rigorosa. Il concetto di etnia, utilizzato spesso nei conflitti dei Balcani come espediente politico per intensificare gli scontri o alimentare l’odio tra comunità, servì a giustificare (e autorizzare) quello che oggi è ritenuto lo sterminio più grave in Europa dopo la Shoà. Le autorità giudiziarie, infatti, parlarono di un massacro “pianificato e coordinato ad alto livello” e il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), istituito presso le Nazioni Unite, incriminò 21 persone per i delitti commessi a Srebrenica.
Il primo a essere individuato come responsabile fu Mladić, accusato di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Come capo militare con responsabilità di comando, nel 1995, il generale serbo-bosniaco venne ritenuto il principale autore del massacro nella cittadina musulmana. Nel 1996, lo stesso tribunale confermò ogni capo d’accusa, dichiarando di credere che Mladić avesse compiuto tutti i crimini a lui imputati ed emanando un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti. Latitante per 16 anni, nel maggio del 2011 fu estradato all’Aja, dove nel 2012 iniziò il suo processo, durato cinque anni. Il 22 novembre 2017, dopo aver udito oltre 500 testimoni ed esaminato più di 10mila elementi di prova, il tribunale lo condannò all’ergastolo. Oltre a lui, venne incriminato (e condannato) il presidente Radovan Karadžić, ma anche Radislav Kristić, Momir Nikolić, Vujadin Popović e Ljubiša Beara (capi della sicurezza, condannati all’ergastolo per genocidio), Drago Nikolić, Radivoje Miletić, Vinko Borovčanin, Milan Gvero, Zdravko Tolimir, Jovica Stanišić, Franko Simatović, Momčilo Perišić (assolto nel 2013), Vidoje Blagojević, Dragan Jokić e Dragan Obrenović.
Il tribunale respinse la richiesta di indennizzo a favore dei sopravvissuti, perché il genocidio (riconosciuto comunque con molta difficoltà dai serbi) avvenne a opera di singole persone e lo Stato serbo non poteva essere ritenuto direttamente responsabile dei fatti della guerra civile bosniaca (fra cui rientra anche l’eccidio di Srebrenica). La Serbia non fu mai ritenuta responsabile dello sterminio, perché nessun ordine partì esplicitamente da Belgrado, anche se venne riconosciuto che Karadžić e Mladić dipendessero dalla capitale, che forniva assistenza finanziaria e militare ed esercitava un’influenza sul leader politico e sul generale. Tuttavia, la Corte rilevò che ci fosse “un serio rischio di massacro” e che la Serbia non fece “nulla per rispettare i suoi obblighi di prevenire e punire il genocidio di Srebrenica”. La Serbia, inoltre, venne accusata di non aver aiutato le autorità giudiziarie ad arrestare subito i colpevoli di quei fatti e di averne ospitato alcuni in stato di latitanza (Mladić, per esempio, visse fino al 2011 tra la Bosnia e la Serbia). Nel tempo apparve come controverso anche il ruolo dei caschi blu olandesi e nel 2019 la Corte suprema dell’Aja stabilì che l’Olanda ebbe un grado di colpevolezza “ridotta” in quei fatti.
La fatica della riconciliazione
Ma le ferite restano e non si rimarginano, nemmeno in un’aula di giustizia. Agostino Zanotti, fondatore dell’Adl a Zavidovici e attivista per i diritti umani che, a lungo, si è impegnato a realizzare progetti di aiuto e di soccorso ai civili bosniaci negli anni della guerra, ne è convinto: “Dal punto di vista politico e storico, la vicenda di Srebrenica non si è conclusa: non c’è stato un punto definitivo, anche se si è riconosciuto il genocidio. La politica nazionalista, che caratterizza ancora fortemente il tessuto sociale, non ha fatto i conti con se stessa e fatica a riconoscere i propri errori. Sarebbe interessante capire le ragioni che hanno portato a questo massacro: perché in quel luglio del 1995 qualcuno ha trovato la strada libera per agire? Perché i caccia non sono intervenuti? E perché i caschi blu sono rimasti isolati o complici della vicenda?
Srebrenica è il luogo della sofferenza, non un luogo di ripresa: le scolaresche che arrivano non trovano lì il posto della riconciliazione ma, con tutte queste tombe bianche infinite, anche un’infinita rappresentazione del dolore. E questo costituisce un grande pericolo”. E i primi a essere esposti sia al dolore delle perdite violente, sia alle conseguenze di questa fragilità sono le giovani generazioni, orfane di padri e fratelli uccisi in un contesto che deve essere decifrato per poter essere elaborato. “Se vogliamo dialogare con i ragazzi, che sono anche le vittime di una forte destabilizzazione economica, dobbiamo farlo soprattutto con in mano alcune chance per il loro futuro. Molti vorrebbero andare via da quei luoghi e altrettanti vorrebbero tornare, ma perdurano molti attriti”, spiega ancora Zanotti.
Le lacerazioni di quel conflitto sono ancora molto evidenti e non solo nella piccola città musulmana al confine con la Serbia o tra la popolazione civile che è tornata a occupare le aree devastate dalla guerra. Lo spirito multietnico e multireligioso di Sarajevo, che esisteva prima del conflitto, oggi non c’è più. Secondo Zanotti è stato “soffocato” da un importante “spostamento demografico”: “I cittadini non sono più gli stessi che c’erano prima della guerra. Quelli che abitano la città, oggi, sono venuti dalla campagna e il segno è evidente”. Si nota passeggiando tra le sue vie e osservando le assenze. Di chi è partito, magari come profugo, e di chi se n’è andato, come vittima di guerra. E se un luogo come Srebrenica evoca più spesso dolore e quasi mai sentimenti di riconciliazione, per Zanotti è fondamentale che l’Europa ragioni su quanto accaduto nel 1995, magari istituendo una giornata dell’11 luglio: “Questo genocidio è figlio di una strategia di pulizia etnica, di un’Europa in parte assente e in parte connivente. L’identificazione del nemico, che allora era il musulmano o la donna ‘puttana’, come veniva definita dai militari dei caschi blu olandesi, esiste ancora nelle pratiche europee ed è da qui che dobbiamo davvero ricominciare. Perché non ha senso parlare di Srebrenica se non ci interroghiamo sul nostro presente. Srebrenica non è soltanto una grande macchia per l’Europa, è un monito che continua a interrogarci. Per questo, andare in quel posto non significa soltanto vedere l’Europa dalla sua periferia, ma osservarla attraverso i prodotti pericolosi che alimenta. Srebrenica è stato uno di questi”.
Foto: Giovanna Pavesi