Bashar Al Assad ha perso, e sarebbe a Mosca. Sono bastati 11 giorni, dopo 13 anni di guerra, per far ripiegare il regime in un territorio sempre più piccolo, fino all’ingresso dei “ribelli” a Damasco. Un’avanzata rapidissima quella delle forze di opposizione, cominciata lo scorso 27 novembre quando l’organizzazione Hayat Tahrir al-Sham si è mossa dalla sua zona di controllo, la provincia nord-occidentale di Idlib, verso Aleppo, sottratta in tre giorni alle forze governative che la controllavano dal 2016, senza incontrare resistenza. Da allora i ribelli non si sono fermati, e hanno proseguito verso Hama e poi Homs, dove i militari governativi hanno preferito ritirarsi piuttosto che combattere.
Nel frattempo è partita una seconda offensiva da sud, coordinata dalla neonata Southern Operations Room, una coalizione che ha messo insieme gruppi e forze locali delle province di Daraa, Suwayda e Quneitra, liberate rapidamente dal controllo di Assad. Proprio le formazioni del sud si sono fatte strada verso la capitale, e l’hanno raggiunta passando per Darayya, e liberando i prigionieri del carcere di Sednaya, uno dei simboli più brutali della repressione.
Mentre il ministro degli Esteri Mohammed al-Ramoun affermava la presenza di un cordone di sicurezza molto forte intorno alla capitale, la resa e la fuga dei militari lo hanno smentito, aprendo la strada al cuore del potere e alla caduta del regime.
La “copertura” di Assad da parte dei suoi alleati, Russia e Iran, era ben diversa oggi da quella del 2011 e del 2016, quando Damasco aveva riconquistato un’area molto vasta del paese, mantenendone il controllo fino a pochi giorni fa. Negli ultimi tempi i suoi sponsor internazionali avevano ridotto il supporto alla Siria: la Russia perché impegnata nel conflitto ucraino da quasi tre anni e l’Iran con l’impellenza di supportare le forze di Hezbollah in Libano, contro gli attacchi israeliani.
Le forze armate governative, fra defezioni e coercizione
Anche l’esercito di Damasco non era più quello di un tempo e proprio di recente il governo aveva pianificato una riforma per frenare le defezioni e il malcontento. Prima della guerra civile le forze armate siriane (Guardia Repubblicana, forze navali e aeronautiche) erano composte da circa 295mila regolari e altri 314mila riservisti, con le posizioni di comando occupate da alawiti vicini alla famiglia del presidente. La maggioranza delle truppe era invece composta da sunniti, e quando cominciarono le prime proteste, iniziarono anche le diserzioni, mentre solo gli alti ranghi restavano leali al regime. Nel 2013, due anni dopo, il numero delle truppe regolari si era ridotto a 110mila unità.
All’inizio di quest’anno, si stima che i militari attivi fossero 169mila, escluse le milizie paramilitari, comprese quelle irachene, iraniane e libanesi, con diverse divisioni sottodimensionate ed equipaggiamenti inadeguati, che hanno potuto continuare ad operare solo grazie agli aiuti russi.
La stretta contro chi cercava di evitare l’arruolamento forzato si era concretizzata nel 2021, con la modifica della legge sulla leva militare per consentire il sequestro immediato dei beni a coloro che non avevano prestato servizio nell’esercito per almeno tre mesi prima di aver compiuto i 43 anni, o in alternativa che non avessero pagato la tassa di esenzione pari a circa 8mila dollari. Se fino ad allora era previsto un sequestro condizionale delle proprietà in attesa della sentenza del tribunale, con l’emendamento di tre anni fa si autorizzava il ministero delle Finanze a provvedere direttamente alla confisca e alla vendita, senza preavviso né possibilità di fare appello, con l’opzione di poter procedere anche sui beni di mogli, figli e parenti stretti.
Quest’anno il regime stava tentando un cambio di passo per limitare le defezioni in un Paese in cui, in questi 13 anni, i soldati hanno continuato a morire, sono fuggiti all’estero o passati nelle fila delle opposizioni: l’idea della riforma, ormai tardiva, era quella di congedare prima coloro che avessero già prestato sevizio come riservisti per almeno sei anni, seguiti da chi lo aveva fatto per cinque, per arrivare gradualmente a una leva obbligatoria di due anni e alla formazione di un esercito professionale.
Per rendere più allettante il servizio militare, il regime aveva anche tentato di introdurre incentivi finanziari per incoraggiare i cittadini ad arruolarsi con contratti da cinque a dieci anni. Tutte misure che non sono servite a convincere i soldati ad affrontare i ribelli, e che alla luce dei fatti delle ultime ore non vedranno mai il completamento.
Le opposizioni in movimento: il fronte nord
Nell’area nord-occidentale, nel 2019, è nato il Comando delle operazioni militari, prima conosciuto come Al-Fatah al-Mubin, un coordinamento di diverse fazioni dell’opposizione, islamiste e nazionaliste. Le tre organizzazioni che ne fanno parte sono Hayat Tahrir al-Sham, il Fronte di Liberazione Nazionale (Al-Jabhat al-Wataniya lil-Tahrir) e Jaysh al-Izza.
Hayat Tahrir al Sham è nata nel 2011 come Jabhat al-Nustra, diretta affiliata di Al Qaeda in Siria, ma nel 2016 il suo leader Abu Mohammad al-Jawlani ne ha preso pubblicamente le distanze, e ha cominciato a rimarcare il carattere rivoluzionario del movimento piuttosto che un’ideologia più marcatamente vicina al califfato. Dalla dissoluzione di al-Nusra, è nata Habhat Fatah al Sham, che nel 2017 diventerà Hayat Tahrir al Sham, dalla fusione con altre sigle islamiste sunnite. Fino all’avanzata del 29 novembre, la sua area di controllo era rimasta circoscritta alla provincia nord-occidentale di Idlib, anche se già dalla sua nascita, dopo la cesura con Al Qaeda, aveva cominciato a ritagliarsi uno spazio di contrattazione con attori regionali come la Turchia, che dal 2011 sostiene una galassia di gruppi come il Fronte di Liberazione Nazionale e Jaysh al-Izza, entrambi parte del Free Syrian Army, creato da alcuni ufficiali disertori dell’esercito del regime.
Più volte Ankara avrebbe tentato di smussare le differenze fra le due organizzazioni, cercando di favorire un coordinamento sul campo, utile a compattare le opposizioni attorno all’obiettivo comune, la fine di Assad.
Il Fronte Sud
Nelle province del sud, la ripresa del controllo da parte delle forze governative conclusasi con la fine dell’assedio di Daraa, non aveva mai spento del tutto i movimenti di opposizione, in un territorio che dal 2011 era stato fra i più attivi nelle proteste. Il Fronte Sud, entrato a Damasco, è nato nel 2014 come alleanza di oltre 50 fazioni dell’opposizione vicine al Free Siryan Army, alcune delle quali non hanno mai accettato la negoziazione con regime, mediata dalla Russia. Questa galassia di gruppi è sostenuta dal Gruppo degli Amici della Siria, un collettivo diplomatico internazionale creato in risposta al veto di Russia e Cina rispetto a una risoluzione di condanna per Assad da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il fronte curdo
Intanto le Forze Democratiche Siriane a guida curda che controllano la Siria autonoma del Nord Est si ritrovano due fronti aperti: nella zona di Manbij, nella regione di Aleppo, il cui controllo è stato rivendicato dall’Esercito Nazionale Siriano sostenuto da Ankara, mentre a sud, nella provincia di Deir Ezzor hanno approfittato del ritiro delle forze governative e delle milizie filo-iraniane giunte dall’Iraq per avanzare.
Libertà e incertezza
“Damasco è libera dal tiranno”, hanno dichiarato i ribelli all’alba dell’8 dicembre. Assad è caduto, dopo che per anni gli attori internazionali hanno deciso che la sua sopravvivenza fosse il male minore, rispetto all’incertezza di una galassia di forze che deciderà il futuro della Siria, dovrà spartirsi territori, trovare accordi interni e fuori dai confini.
Dopo l’annuncio dei ribelli, il Paese resta smembrato, con i confini interni ridisegnati ancora una volta e nuovi equilibri da costruire, fragile dal punto di vista economico e sociale, in cui finora le promesse di sicurezza e stabilità sono state più uno slogan che un’opzione realizzabile. Ma l’attore più ingombrante della partita siriana è caduto: ciò che verrà è tutto da scrivere, ma qualunque sia il futuro, è la fine di un’era.
Immagine di copertina: un combattente antigovernativo pista un ritratto del presidente siriano Bashar al-Assad ad Hama, il 6 dicembre 2024 (Foto di Mohammed AL-RIFAI / AFP).