In un momento cruciale per la costruzione della nuova Siria, dopo 50 anni di dittatura, i monaci del monastero di Mar Musa el-Habashi, 90 chilometri a nord di Damasco, seguono con apprensione le notizie che si susseguono giorno dopo giorno, fra gli annunci del governo ad interim e la speranza che la transizione porti a un Paese libero. L’eccidio degli alawiti avvenuto fra il 6 e il 9 marzo scorsi nell’ovest, a Latakia e Tartus, li ha sconvolti nonostante la consapevolezza che il settarismo e nuove ondate di violenza potessero riemergere da un momento all’altro.
“Siamo in attesa di capire come si evolverà la situazione dopo le ultime violenze fra alawiti e sunniti”, spiega padre Jihad Youssef, priore del monastero, a Reset, “gran parte di ciò che accade oggi è l’eredità della dittatura. Per decenni, tutti i siriani sono stati terrorizzati, ci è stato fatto il lavaggio del cervello. Anche chi faceva parte dell’opposizione, ed era contro il regime, ha imparato a pensare nello stesso modo, perché non aveva altri strumenti se non quelli dell’indottrinamento”. “Persino i libri di storia, l’informazione, tutto ciò che abbiamo avuto a disposizione ce lo ha dato il regime, almeno fino all’avvento di internet – prosegue padre Jihad, che specifica – quando però l’accesso ad altre fonti ha creato anche tanta confusione. Siamo stati avvolti nella propaganda, fatta apposta per dividere e quindi controllare meglio la società”.
Padre Jihad, insieme agli altri monaci di Mar Musa al-Habashi, o San Mosè l’Abissino, è impegnato nella promozione del confronto interreligioso, fra cristiani e musulmani, e il suo monastero, vicino alla cittadina di Al-Nabk nel massiccio del Qalamoun, risale all’VI secolo ma fu rifondato nel 1982 dal gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Dieci anni dopo, questo luogo diventerà la sede di una comunità spirituale ecumenica mista, Al-Khalil, “l’amico di Dio”, per la promozione del dialogo islamico-cristiano, voluta da padre Dall’Oglio e da padre Jacques Mourad. Dopo gli anni terribili della guerra, l’espulsione di padre dall’Oglio nel 2012 da parte del regime e poi la sua scomparsa a Raqqa nel 2013, il monastero è ancora un luogo del dialogo e della fratellanza.
Padre Jihad, qual è il messaggio che avete lanciato da Mar Musa contro le violenze degli ultimi giorni?
Durante il mese del Ramadan abbiamo l’abitudine di digiunare insieme ai musulmani, se non integralmente, almeno per alcuni giorni. Quest’anno il Ramadan è coinciso con la Quaresima, e quindi abbiamo voluto lanciare un appello per la preghiera e il digiuno collettivi in nome della pace e dell’unità del popolo siriano, dopo questa terribile notizia dei massacri. Quindi abbiamo richiamato tutti, musulmani e cristiani, a pregare con un testo che non presenta difficoltà dogmatiche, dove non ci sono riferimenti specificamente cristiani che i musulmani non possono dire o viceversa. Possiamo recitare questa preghiera insieme e, chi può, fare anche il digiuno. Questa iniziativa ha trovato un grande riscontro grazie ai social, è stata rilanciata e diffusa, poi non sappiamo se tutti abbiano davvero pregato, questo solo Dio può dirlo. Noi abbiamo comunque fatto ciò che potevamo. Il nostro messaggio è che vogliamo essere la profezia dell’unità. Queste violenze chiudono la porta alla speranza, spingono all’emigrazione, rischiano di causare altre brutalità come reazione difensiva di protezione, e nuovi settarismi nel Paese.
Il governo ad interim ha preso le distanze da quanto accaduto: è riuscito a rassicurare?
Il governo ad interim ha preso le distanze in modo insufficiente, doveva essere più fermo a condannare, parlare al cuore delle persone, muoversi tempestivamente per garantire giustizia. Adesso è stata formata una Commissione di inchiesta, vedremo se riuscirà a operare in modo obiettivo e che reali poteri di intervento avrà. Nel frattempo è arrivata anche la firma alla dichiarazione che dovrà poi portare alla stesura definitiva della Costituzione, ma il problema non è mai la penna sulla carta ma la pratica. Siamo in una fase di transizione che non sappiamo quanto durerà, in attesa di un nuovo governo. Al momento però ci sentiamo come una barca in mezzo alle onde, non sappiamo ancora dove e come verrà condotta, e soprattutto se l’obiettivo sia quello di salvare tutti o usare alcuni a proprio favore. È ancora tutto da vedere.
Che idea si è fatto del recente accordo siglato da Damasco con le SDF, Syrian Democratic Forces a guida curda della Regione autonoma del Nord Est, anche conosciuta come Rojava?
Rispetto all’accordo con i curdi in tanti hanno esultato. Altrettanti sono scettici sulla sua riuscita e sostengono che abbia avuto un tempismo sospetto, subito dopo i massacri degli alawiti. Personalmente credo che sia un segnale positivo, la Regione del Nord Est dovrebbe essere priva di conflitti per aumentare la collaborazione, la fratellanza. Abbiamo bisogno di creare condizioni di tranquillità e fiducia per tutti, altrimenti saremo sempre a rischio. E lo stesso vale nella questione israelo-palestinese, che ci tocca da vicino.
Quanti sono i siriani che sono rientrati nel Paese dopo la fine del regime?
I siriani che sono rientrati, dalla liberazione, sono soprattutto coloro che provenivano dall’area di Idlib, che si trovavano in Turchia, e rappresentavano gli oppositori del regime. Sono tornati sia persone che hanno combattuto che civili. Anche alcuni residenti in Europa hanno fatto ritorno, ma solo per tempi brevi, per visitare la Siria, non per restare. Infine, fra coloro che erano in Libano, almeno 350mila secondo le statistiche libanesi hanno attraversato il confine, ma poi si sono resi conto di non avere le condizioni per restare, perché hanno perso la casa, non trovano lavoro, non hanno le condizioni di sicurezza adeguate. E quindi sono tornati indietro. Con gli ultimi massacri dei giorni scorsi, tanti alawiti che non si erano mai spostati dal Paese hanno cominciato a emigrare anche loro in Libano per paura.
Era prevedibile una riemersione del settarismo?
Il regime aveva la maggioranza del suo entourage fra gli alawiti, ma c’erano anche sunniti, drusi, ismailiti e cristiani. E questo a tutti i livelli di potere, dal più basso, ossia di coloro che si occupavano della propaganda fino ai vertici, anche nella gestione della corruzione e dei traffici.
Non si può ovviamente generalizzare accusando tutta la comunità alawita di essere gente del regime. Sicuramente un tempo erano ritenuti privilegiati ma oggi la situazione si è ribaltata e sono diventati un bersaglio.
Purtroppo il settarismo non deve meravigliare, perché alimentato da decenni di dittatura, portando avanti la convinzione che per restare al comando si possa fare qualunque cosa, anche andare contro una parte dei cittadini, come se non avessero gli stessi diritti.
Fra i cristiani c’è più paura o speranza per il futuro della nuova Siria?
Sicuramente c’è più paura: già prima una parte dei cristiani non credeva alla possibilità di vivere insieme alla comunità musulmana. Le recenti violenze hanno esacerbato questa convinzione e molti cristiani pensano che oggi sia toccato agli alawiti, e domani potrebbe toccare a loro. Possiamo solo sperare per il meglio, perché la liberazione è un’opportunità da non sprecare.
Immagine di copertina: padre Jihad Youssef al monastero, l’11 giugno 2022. (Foto di Louai Beshara / AFP)