«Israele non può rimanere ostaggio di una sola persona che concepisce la carica di Primo Ministro come una investitura regale che lo pone al di sopra di tutto e di tutti, perfino della Legge. Lo abbiamo detto in campagna elettorale e lo ribadisco oggi: Benjamin Netanyahu è un pericolo per il nostro sistema democratico. E lo è non in quanto uomo di destra ma per la sua concezione autocratica della democrazia e per la praticata volontà di smantellare le fondamenta di uno stato di diritto». Ad affermarlo, in questa intervista esclusiva concessa a Reset è la leader del Partito laburista israeliano, Mirav Michaeli.
Nelle elezioni del 23 marzo scorso, le quarte in due anni, il partito che fu di David Ben Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin e Shimon Peres era a rischio estinzione. Grazie ad una campagna elettorale aggressiva e ad una empatia riconosciutale anche dagli avversari, Michaeli è riuscita a riportare il Labor alla Knesset con 7 seggi. E un buon risultato è stato ottenuto anche dall’altra forza della sinistra israeliana, Meretz (6 seggi). «Considero il risultato che abbiamo ottenuto – rimarca la leader laburista – come una base di partenza per un nuovo inizio della sinistra. Dobbiamo andare avanti sulla strada del rinnovamento sapendo che ci vorrà del tempo perché questa semina dia buoni frutti. Al tempo stesso, però, dobbiamo fare i conti con il presente e con la necessità di dare al Paese un governo stabile, in grado di affrontare la grave crisi pandemica non solo portando a termine la campagna di vaccinazione ma affrontando le drammatiche ricadute sociali che questa crisi ha prodotto. Il nome del premier viene dopo. Basta con i personalismi, è una pratica che abbiamo già pagato a caro prezzo».
Coalizioni a geometria politica variabile. Trattative frenetiche per raggiungere i 61 voti necessari per ottenere una maggioranza di governo alla Knesset. Numeri alla mano né il blocco pro-Netanyahu né quello anti-Bibi hanno quei numeri. E c’è già chi paventa il rischio di nuove elezioni, le quinte in poco più di due anni, un record planetario. Israele è condannato ad elezioni permanenti?
I numeri sono molto in politica. Molto ma non tutto. Se ragioniamo in termini classici, quelli di una divisione destra/sinistra, dovremmo, noi di sinistra, metterci il cuore in pace e dire agli altri: fate voi, vediamo di cosa siete capaci. Ma questo non è fare politica, al più è una mera testimonianza di chi non intende sporcarsi le mani.
Il che significa stringere anche un patto col “diavolo” pur di liberarsi da Benjamin Netanyahu. Anche se quel “diavolo” risponde al nome di Naftali Bennett, il leader di Yamina?
In questa storia, per usare la sua metafora, non vi sono né angeli né demoni. Ma c’è un pericolo superiore a tutti gli altri, questo sì. E questo pericolo si chiama Benjamin Netanyahu. Israele non può rimanere ostaggio di una persona che ha identificato i destini di un Paese con i suoi personali. Un politico che pur di ottenere l’immunità di fronte alla Legge ha promesso mari e monti pur di restare al potere e che non ha esitato neanche un secondo a far cadere il governo di cui era Primo Ministro quando non gli è stata garantita una legge che lo mettesse al riparo dai processi in cui è imputato. Netanyahu ha costretto gli israeliani ad andare al voto in piena pandemia, senza che la Knesset avesse approvato la legge di bilancio necessaria per dare risposte immediate alle drammatiche conseguenze sociali ed economiche determinate dal Covid-19. So bene che in tempi normali un fronte progressista e di sinistra dovrebbe porsi in alternativa alle destre. Dobbiamo ricostruire le condizioni perché questa dialettica democratica possa svolgersi, ma oggi siamo in piena emergenza. Una emergenza democratica, non solo sanitaria. E a determinarla è stato il capo del Likud. Ma il voto ha detto che gli israeliani non l’hanno incoronato re. Netanyahu non è il monarca assoluto d’Israele, anche se lui pensa e agisce come se lo fosse. Voleva conquistare la maggioranza assoluta con i suoi partiti-vassalli, ma non gli è riuscito. Ora le sta provando di tutte. E se non gli riuscirà, è pronto a nuove elezioni. Il suo cinismo non conosce limiti.
La politica non è solo questione di numeri, ma i numeri determinano maggioranze e minoranze. Pur di porre fine all’era Netanyahu fin dove è disposta a spingersi?
Questi sono giorni di trattative e non è ancora tempo di tirare le somme. Di certo, non ci siederemo a discutere con gli eredi di Meir Kahane, il partito del sionismo religioso (6 seggi, ndr). La loro presenza nel Parlamento è una macchia per Israele. Certo, una democrazia deve rispettare il voto popolare, ma il fatto che della Knesset facciano parte personaggi dichiaratamente razzisti, omofobi, che considerano eroi assassini come Yigal Amir (il giovane zelota che uccise il premier laburista Yitzhak Rabin, ndr), questo, lo ribadisco, è un campanello d’allarme che non va sottovalutato. Quanto al resto, in campagna elettorale leader di destra come Bennett, Lieberman (Israel Beitenu, 6 seggi, ndr) e Sa’ar (Tikvà Hadashà, 6 seggi, ndr) si erano espressi, pur con diverse modulazioni, per un governo post-Netanyahu. Noi siamo rimasti dello stesso avviso anche a urne chiuse: coerenza vorrebbe che si ripartisse da questo punto.
I dirigenti del Meretz hanno fatto un endorsement pubblico a favore di Yair Lapid (leader del partito laico centrista Yesh Atid, secondo con i suoi 17 seggi dietro al Likud di Netanyahu con 30) come premier incaricato. Lei non si è pronunciata. Vuole tenersi le mani libere?
Niente di tutto questo. Indicare subito il premier di una coalizione tutta da costruire vuol dire partire con il piede sbagliato. È una storia già vista nelle precedenti elezioni. E non ha portato bene al fronte anti-Netanyahu e, soprattutto, a colui che era stato indicato come premier in pectore (Benny Gantz, leader di Kahol Lavan, che dai 35 seggi delle passate elezioni è tracollato a 8, ndr). Da parte nostra non c’è alcuna preclusione verso Lapid né consideriamo ininfluente il fatto che il suo partito sia il secondo più votato, e che Lapid ha rotto l’alleanza con Gantz quando quest’ultimo scelse di andare al governo con Netanyahu. I tavoli sono aperti, vediamo chi è d’accordo su un programma essenziale, fatto di pochi punti, su cui costruire una maggioranza di governo. E solo dopo indichiamo la persona più adatta a guidare l’esecutivo. A me pare un percorso corretto, lineare, privo di scorciatoie.
Su questioni non secondarie, come la colonizzazione della Cisgiordania, le posizioni di Bennett non sono certo più moderate di quelle di Netanyahu, anzi. Come la mettiamo?
La mettiamo che con Bennett è possibile discutere su come riportare Israele ad essere un Paese normale dove destra e sinistra si sfidano apertamente accettando però un perimetro comune: quello dello stato di diritto. Un perimetro fatto di regole condivise, del rispetto degli altri poteri, a cominciare da quello giudiziario. Un perimetro che Netanyahu ha violato, trasformando le quattro elezioni anticipate in un referendum su se stesso, denunciando inesistenti complotti contro di lui, invocando l’investitura popolare come un salvacondotto per non essere giudicato in un aula di tribunale. Quello a cui penso è un governo di emergenza democratica, nazionale, che duri il tempo necessario per uscire dall’emergenza sanitaria e per dare risposta alle decine di migliaia di famiglie, di lavoratrici e lavoratori, che la pandemia virale ha messo in ginocchio. Affrontiamo questa emergenza e poi ristabiliremo le distanze…
Lei è riuscita a non far scomparire il Labor dalla geografia parlamentare israeliana. Resta il fatto che sommando i seggi del suo partito, quelli del Meretz (6) e quelli della Joint List araba (6), le forze di sinistra raggiungono i 19 seggi. Se a questi sommiamo quelli di formazioni centriste come Kahol Lavan (8) e Yash Aitid (17) arriviamo a 44. Non calcoliamo nel fronte opposto i 4 seggi della Lista araba unita che si è scissa dalla Joint List. Il dato politico che ne esce è però inquietante: 72 dei 120 seggi sono di partiti di destra.
Vede, la cosa peggiore non è sentirsi minoranza ma è agire come se non lo fossi puntando sempre e comunque a stare al governo. Parlo per il mio partito, non intendo impartire lezioni a nessuno. La prima cosa che ho fatto dopo aver vinto le primarie è stata quella di chiedere ai due ministri laburisti che facevano parte del governo Netanyahu, di scegliere tra restare ministri e rimanere nel partito. Tenere i piedi in due staffe avrebbe intaccato ciò che restava della nostra credibilità. Hanno scelto di chiamarsi fuori dal partito, una scelta che ho rispettato e che ha fatto chiarezza. Il Labor è stato ininterrottamente, praticamente da solo, al governo di Israele dalla fondazione dello Stato nel 1948 al 1977, quando per la prima volta a vincere fu il Likud di Menachem Begin. Sappiamo l’importanza di guidare una nazione, lo abbiamo fatto in momenti cruciali per l’esistenza stessa d’Israele. Ma stare all’opposizione non è una condanna a morte. La condanna a morte è quando il sistema democratico è minato dall’interno.
Lei ha conquistato molti consensi tra le donne, promettendo una “rivoluzione rosa”. Manterrà questo impegno?
Assolutamente sì. Perché una democrazia si può dire davvero compiuta quando la parità di genere non è più una conquista ma una premessa. Nell’ultimo decennio le disuguaglianze sociali sono aumentate e le donne ne sono state le principali vittime. Pezzi di welfare sono stati smantellati da politiche iper liberiste che hanno allargato la faglia sociale, in settori cruciali come la sanità, l’istruzione, le opportunità per le giovani coppie, il sostegno alle madri single e agli anziani. La violenza domestica è aumentata e tante donne si sono ritrovate senza protezione. Una situazione intollerabile oltre che profondamente ingiusta.
Per ultimo, una confessione personale: c’è stato un momento in cui ha pensato di non farcela e di essere ricordata negli annali di storia come il primo leader del glorioso Labor estromesso dalla Knesset?
No, neanche nei peggiori incubi. Ma è stata dura, questo sì. Ed ora dobbiamo rimboccarci le maniche perché c’è tanto lavoro da fare. Ma la sinistra c’è, esiste, anche oltre i voti presi. E questo è un bene per Israele.
Purtroppo in questo frangente la sinistra come in Israele ed in Europa non riesce ad avere i numeri per essere nuovamente portatrice di eguaglianza e sviluppo sociale.
Israele non è diverso dall’Italia in cui i partiti populisti di destra hanno illuso l’elettorato che le loro ricette sono risultate vincenti, vedi TRUMP oppure il Brasile.
La verità è molto diversa in quanto non risolvono i problemi , vedi Netanyahu ,io sono totalmente d’accordo sull’analisi della nuova leader del partito laburista .