Hrant Dink guarderebbe con soddisfazione e grande speranza al nuovo tentativo appena avviato per una normalizzazione delle relazioni tra Turchia e Armenia, come viatico verso la definitiva riconciliazione.
Il 19 gennaio ricorre il quindicesimo anniversario del giorno in cui Dink, intellettuale armeno di Turchia, fondatore e direttore di Agos, rivista in lingua turca e armena, fu assassinato, in pieno giorno, nel centro di Istanbul: era il 19 gennaio 2007. Fu ucciso per aver difeso i diritti di cittadinanza per armeni, greci, assiri, ebrei e curdi, così come Martin Luther King fu ucciso per difendere i diritti di ciascun individuo.
Ora i passi comuni di pacificazione tra i due vicini regionali a cui stiamo assistendo in questi giorni alimentano speranze e aspettative per l’inizio di un periodo di “nuova normalizzazione” dopo due precedenti tentativi falliti.
Squarci di sereno
La prima pietra è stata posta venerdì 14 gennaio a Mosca nell’incontro tra i rappresentanti speciali dei rispettivi paesi, l’ambasciatore turco Serdar Kılıç e il vicepresidente del Parlamento armeno Ruben Rubinyan che hanno concordato di proseguire i negoziati senza precondizioni.
È un primo passo di riavvicinamento per preparare una road-map che dovrebbe consentire la ripresa dei negoziati per una storica riconciliazione tra i due vicini i cui confini sono chiusi dal 1993, dopo l’invasione da parte dell’Armenia del Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza azera.
All’epoca Ankara – in solidarietà con il suo alleato Azerbaigian, impegnato in un’aspra guerra nella regione del Karabakh – sigillò i confini terrestri con Yerevan e chiuse il suo spazio aereo, bloccando anche gli aiuti umanitari.
Ma ora in segno di distensione e per il rafforzamento della fiducia l’Armenia, a partire dal 1° gennaio 2022, ha revocato l’embargo sulle merci turche imposto a causa del sostegno di Ankara a Baku nella guerra armeno-azera, ufficialmente terminata il 9 novembre 2020 con una tregua mediata dalla Russia.
La compagnia aerea turca Pegasus e quella armena FlyOne hanno annunciato che il 2 febbraio riprenderanno a volare tra Yerevan e İstanbul tre volte alla settimana.
L’Unione europea ha definito la riunione di Mosca degli inviati speciali “un importante passo avanti per le prospettive di riconciliazione e di sviluppo economico” ed è subito giunta l’approvazione, oltre che dalla Russia, anche dagli Stati Uniti, dalla Francia e dal Gruppo di Minsk, nonché da altre principali nazioni occidentali e organizzazioni internazionali.
Il processo prevede in una prima fase l’instaurazione di legami diplomatici, l’apertura delle frontiere sigillate e l’avvio di progetti economico-commerciali e di trasporto tra le due nazioni.
Ferite da sanare
Quelli di Mosca sono i primi passi verso la normalizzazione dopo i negoziati falliti nel 2009 con gli accordi di Zurigo.
I colloqui Armenia-Turchia arrivano mentre il presidente Recep Tayyip Erdoğan, isolato nella regione per la sua politica estera coercitiva e travolto da una crisi valutaria senza precedenti per la sua amministrazione, cerca di ricucire i legami con una serie di altri paesi dell’area, tra cui Israele, Egitto e diversi stati del Golfo come gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e l’Arabia Saudita.
Ma è un compito molto difficile quello assegnato ai rappresentanti speciali dei due paesi perché vi sono importanti questioni politiche e psicologiche che minano il processo.
La recente storia delle relazioni bilaterali dei due vicini presenta alcuni nodi cruciali che dal 1915 sono alla base delle divisioni di queste due comunità che nei secoli passati avevano convissuto pacificamente – tanto che nel lontano 1453, anno della Conquista di Costantinopoli, il sultano Fatih Mehmet consentì la fondazione del patriarcato armeno nella capitale dell’Impero ottomano.
Il 16 dicembre 1991, l’Armenia diventò indipendente e fu subito riconosciuta dalla Turchia la quale fornì ad essa consistenti aiuti umanitari.
Sembrava quello un buon inizio di riconciliazione tanto che nel settembre 1992 fu firmato un protocollo energetico-commerciale tra Ankara e Yerevan e, sebbene non fosse bagnata dal mare, l’Armenia fu invitata dalla Turchia come membro fondatore dell’Organizzazione per la cooperazione economica del Mar Nero, il cui accordo fu stipulato il 25 giugno 1992.
Anche la politica di normalizzazione avviata dal primo presidente armeno, Levon Ter-Petrosyan, registrò un successo in questo primo riavvicinamento.
Petrosyan si era reso conto che per l’Armenia, che aveva appena riacquistato l’indipendenza da Mosca e che non aveva alcun accesso al mare, lo sviluppo economico richiedeva il riavvicinamento all’Occidente e e dunque alla Turchia.
Ma questo primo processo di riconciliazione si interruppe a causa dell’occupazione nel 1993 da parte dell’Armenia della regione del Karabakh contesa con l’Azerbaigian.
Robert Kocharyan, che governò l’Armenia fino al 2008, si contraddistinse per la sua retorica nazionalista e il suo atteggiamento intransigente nei confronti della questione del Karabakh e ruppe con la posizione conciliante di Petrosyan nei confronti della Turchia.
Nelle presidenziali del febbraio 2008, salì al potere Serž Sargsyan il quale si rese conto che continuare le politiche del governo precedente avrebbe aggravato i problemi in cui si trovava l’Armenia, alle prese con una forte disoccupazione, una diffusa corruzione e soprattutto con la migrazione dei giovani.
L’Armenia, che sin dalla sua indipendenza aveva seguito un atteggiamento di intransigente contrapposizione nei confronti sia dell’Azerbaigian che della Turchia, si era condannata all’isolamento su scala regionale, pagando un alto prezzo di questa sua politica riducendosi a dipendere fortemente dalla Russia restando esclusa da tutti i progetti energetico-commerciali della regione.
Ma con Sargsyan, Yerevan rafforzò la sua convinzione dell’esistenza di una sola possibilità di aprirsi al mondo esterno: riconciliarsi con la Turchia per favorire lo sviluppo economico del paese e ridurre il più possibile la sua dipendenza da Mosca.
In risposta a questo secondo tentativo di riavvicinamento, Ankara mostrò apertura e un nuovo negoziato iniziò a prendere forma con la firma dei Protocolli di Zurigo, il 10 ottobre 2009, con la mediazione della Svizzera, sotto l’egida degli Usa, Russia, Ue e Francia.
Ma subito riemersero le storiche irrisolte contraddizioni. L’Arzerbaigian si era sentita esclusa da questa riconciliazione perché il problema dell’occupazione armena del Nagorno Karabakh non veniva affrontato nei protocolli.
Dall’altro canto la Corte costituzionale armena sotto la spinta dei nazionalisti in patria, nella sentenza del 12 gennaio 2010, ripropose la tesi della necessità del riconoscimento del genocidio compiuto dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1917 durante la prima guerra mondiale. Ankara si irritò perché da sempre nega questa tesi e fu così che anche il secondo processo di riconciliazione fallì.
Fu quella una grande occasione perduta.
Svolta strategica
Ora c’è più di un fattore che ci fa meglio sperare che questo terzo e ultimo processo di normalizzazione possa avere un esito diverso da quello del 2009: la “guerra dei 44 giorni” dell’autunno del 2020 ha cambiato il gioco e gli equilibri nella regione.
Il testo dell’accordo trilaterale firmato da Russia, Armenia e Azerbaigian, che ha posto fine alla guerra armeno-azera nel Nagorno-Karabakh, fornisce indizi sulle motivazioni della Turchia che sarebbero alla base di questo tentativo di riconciliazione. L’intesa, sostenuta anche da Ankara, è più di un semplice accordo di “cessate il fuoco”; è un chiaro documento che mira a plasmare il futuro della regione.
Infatti l’ultima disposizione dell’accordo prevede la creazione di un corridoio che colleghi l’Azerbaigian con la sua exclave autonoma a maggioranza azera del Nakhichevan posta in territorio armeno confinante con la Turchia.
Un tale corridoio se aperto costituirebbe una rotta energetica e commerciale che collegherebbe direttamente Ankara a Baku sulla sponda occidentale del Mar Caspio e da lì si snoderebbe verso gli altri stati turcofoni dell’Asia centrale fino alla terra degli Uiguri, il Turkestan orientale che Pechino chiama Xinjiang.
Questo corridoio alimenta sogni antichi del nazionalismo turcofono, il sogno della costituzione di un grande mondo turco, dell’unificazione dei paesi turcici, di un “Grande Turan”.
È questa un’aspirazione turca e azera vecchia di decenni: l’istituzione di corridoi regionali, di strade che colleghino tra loro i paesi della regione turcofona, utili anche per l’ambiziosa Belt and Road Initiative cinese.
La Turchia dunque vuole beneficiare di questo corridoio, la cui apertura è possibile solo con una riconciliazione dell’Armenia con la Turchia e l’Azerbaigian.
La Russia controllerebbe questa strada, le merci turche e cinesi viaggerebbero liberamente e tutte le parti ne trarrebbero vantaggio economico.
Anche il presidente dell’Azerbaigian, İlham Aliyev, ha elogiato l’importanza del piano del corridoio di transito.
In un vertice del Consiglio turco tenutosi a Istanbul nel novembre scorso, Aliyev ha detto che tale via di comunicazione avrebbe “unito il mondo turco e la Russia all’Armenia”.
L’apertura di questo corridoio di trasporto è anche un obiettivo di Mosca che vedrebbe aumentare la sua influenza geopolitica in quello che considera il suo cortile di casa, il Caucaso meridionale, poiché avrebbe accesso all’Armenia, alla Turchia e all’Azerbaigian attraverso le ferrovie, aggirando la Georgia.
È dunque il cambiamento negli equilibri di potere nel Caucaso meridionale che ha spinto Ankara e Yerevan a normalizzare i rapporti.
L’Armenia ha perso la guerra con l’Azerbaigian e ha dovuto cedere tutti i territori azeri che aveva occupato nel 1993. Allora la Turchia chiuse il confine col suo vicino in solidarietà con Baku, ma questo nuovo status fa venire meno la ragione per cui finora i confini erano stati tenuti chiusi.
In una visita a Baku nel dicembre 2020, Erdoğan aveva detto che “apriremo le nostre porte chiuse se vi saranno sviluppi positivi”, riferendosi alla disponibilità dell’Armenia a riprendere il dialogo.
Intanto le colombe bianche della pace sono proiettate sull’ex edificio del settimanale Agos a Istanbul diretto da Hrant Dink, nel 15° anniversario del suo assassinio.
Dink aveva dedicato la sua breve vita, vissuta da colomba bianca, alla riconciliazione turco-armena, ma le sue ali furono orribilmente spezzate davanti al suo ufficio dal clima di odio e dal fanatismo nazionalista.
Foto: Soldati turchi di guardia nei pressi del confine con l’Armenia di Dogu Kapi nel 2009 (Mustafa Ozer / AFP).