L’Iraq della ricostruzione, fra crisi regionali e questioni interne irrisolte

Dalla fine della guerra di liberazione dall’Isis del 2017, l’Iraq vive una situazione di stabilità relativa, intesa come assenza di un conflitto aperto, puntualmente minata da crisi interne e regionali. Implicato nelle tensioni tra l’Iran e Israele dall’inizio della guerra a Gaza, dato il legame delle milizie sciite irachene con Teheran, il Paese ha anche peggiorato i rapporti con gli Stati Uniti, ancora presenti sul territorio con avamposti militari: decine di attacchi sono stati lanciati dalle milizie contro le basi statunitensi, e dagli americani verso le postazioni dei miliziani. In questo contesto di tensione, il 7 febbraio scorso, era stato ucciso a Baghdad Wissam Muhammad Sabir Al-Saadi, conosciuto come Abu Baqir Al-Saad, leader di Kata’ib Hezbollah, uno dei gruppi paramilitari sciiti che fanno parte delle Iraqi Popular Mobilization Forces, una rete composta da 67 fazioni nata durante la guerra contro lo Stato Islamico, e poi integrata nelle forze armate.

Le tensioni regionali sono aumentate progressivamente da allora, prima con l’attacco dell’Iran a Israele del 13 aprile, in risposta a quello condotto dagli israeliani a Damasco contro il consolato iraniano, e ancora di più negli ultimi giorni, dopo l’attacco israeliano a Beirut che il 30 luglio ha ucciso Fuad Shukur, alto rango di Hezbollah, e l’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran il giorno dopo.

 

Le relazioni con gli Usa

Il primo ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani, durante una conversazione con il segretario di Stato americano, ha confermato il ruolo di mediazione dell’Iraq nella regione, ma ha anche ribadito che l’unico modo per scongiurare un’escalation che coinvolga tutti è fermare l’aggressione israeliana a Gaza e impedire che si estenda al Libano.

In ogni caso le ostilità hanno aumentato le tensioni fra i due governi, in una fase molto delicata dei rapporti bilaterali Usa-Iraq. Washington e Baghdad stanno infatti ridefinendo in questi mesi i loro rapporti, e in particolare la presenza e il futuro ritiro delle truppe americane ancora schierate nell’ambito della Combined Joint Task Force dell’Operazione Inherent Resolve, con compiti di assistenza e consulenza delle forze locali. Il problema è che le risorse di cui gli Stati Uniti dispongono in Iraq e nell’area del Golfo sono state recentemente utilizzate per rispondere alle minacce delle fazioni irachene alleate dell’Iran, senza alcuna autorizzazione del Governo di Baghdad, in violazione della sovranità nazionale.

L’opinione pubblica irachena ha cominciato da tempo a chiedere il ritiro della coalizione, ma un passo definitivo in questo senso potrebbe mettere ancora più in difficoltà l’Iraq nel contrasto allo Stato Islamico, e nell’ottica degli americani, consolidare ulteriormente il legame del Paese con Teheran.

Nel frattempo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha accolto la richiesta dell’Iraq di porre fine all’Unami, United Nations Assistance Mission for Iraq, attiva sin dal 2003, che dovrebbe concludersi nel dicembre 2025. Ma la volontà di Baghdad di presentarsi come un Paese in grado di badare a sé stesso potrebbe essere minata da un momento all’altro dal coinvolgimento, anche solo subìto, del conflitto a Gaza.

 

Equilibri interni e ruolo della Turchia

Nella fase attuale i rapporti fra il Governo federale iracheno e quello regionale del Kurdistan passano anche per la Turchia.

Dal punto di vista finanziario Baghdad ha aumentato il budget in bilancio anche per la regione autonoma, utilizzando i fondi per cominciare a pagare gli stipendi arretrati dei dipendenti pubblici curdi: di contro Erbil avrebbe iniziato a consegnargli i propri introiti non petroliferi, come stabilito dalla Corte suprema irachena, dato che le esportazioni di greggio verso la Turchia sono state interrotte nel marzo 2023 e non ancora ripristinate.

Il blocco era stato deciso dalla Turchia dopo la disposizione della Camera di Commercio internazionale di far pagare ad Ankara 1,4 miliardi di dollari in favore di Baghdad, per avere importato il petrolio dal Kurdistan sin dal 2014, bypassando il governo federale.

La centralità turca nelle questioni interne irachene riguarda anche la presenza al confine delle sacche di resistenza del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato da Ankara una minaccia alla sicurezza nazionale, che negli ultimi mesi ha portato la Turchia a condurre numerosi attacchi nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, e che fa temere un’eventuale operazione su vasta scala, un po’ come avvenuto nel nord della Siria dove i turchi hanno occupato alcune aree dell’attuale Rojava.

 

Lo stallo elettorale in Kurdistan e la questione delle minoranze

La Regione autonoma del Kurdistan aspetta intanto di andare al voto per il rinnovo del Parlamento da ottobre 2022. Le elezioni erano state posticipate al 10 giugno scorso, ma sono state nuovamente rimandate, a seguito della decisione della Corte Federale di annullare la legge elettorale che nel Governo regionale del Kurdistan (Krg) riservava 11 seggi alle minoranze etnico-religiose. La sentenza ha anche trasferito l’autorità di supervisionare il voto dalla commissione regionale curda a quella federale, e ha suddiviso in quattro circoscrizioni il territorio.

Il pronunciamento della Corte è arrivato a seguito della causa intentata da due membri del Puk, Unione patriottica del Kurdistan, che sostenevano che i seggi dedicati alle minoranze fossero in realtà sotto il controllo del rivale Kdp, il Partito Democratico.

Ora le elezioni sono state riprogrammate per il prossimo 20 ottobre, dopo che il Consiglio giudiziario iracheno ha trovato un compromesso assegnando cinque seggi su cento alle minoranze.

 

Che fine ha fatto l’Isis

In alcune aree rurali dell’Iraq restano ancora oggi delle cellule di Daesh in grado di attaccare le postazioni militari, come accaduto lo scorso 13 maggio nell’area di Salahuddin, dove sono morti cinque soldati dell’Esercito federale. Secondo i dati del Comando centrale degli Stati Uniti pubblicati nel gennaio scorso, sarebbero almeno 2.500 i miliziani che fanno capo all’Isis in Iraq, facilitati anche dalla connessione con altri gruppi di affiliati che operano e proliferano dall’altra parte del confine, in una Siria oggi divisa in diverse aree di influenza.

Periodicamente le forze di sicurezza continuano a essere impegnate in campagne anti-terrorismo in tutto il paese, e dal 2017 a oggi decine di persone sono state arrestate e processate con l’accusa di fare parte dell’organizzazione. Sulla gestione dei processi e sulle condizioni nelle carceri è però intervenuta di recente Amnesty International, che ha lanciato l’allarme sulle pessime condizioni di detenzione e sull’alto numero di condanne a morte comminate a seguito di processi senza prove a carico degli imputati o nei quali i soggetti reo confessi presentavano segni di tortura.

Ai detenuti in Iraq legati a Daesh o sospetti tali, si aggiungono poi quelli trattenuti nella Siria Autonoma del Nord Est, oltre alle loro famiglie, in campi di detenzione dove madri e figli minori vivono in assenza di prospettive e di qualunque tipo di servizio. Da gennaio 2021 ad oggi, le autorità irachene hanno rimpatriato circa 10 mila persone, la metà delle quali donne e bambini trasferiti direttamente nel “campo di riabilitazione” Jeddah 1, nella provincia di Ninive.

 

Rifugiati, sfollati e “returnees”

Secondo i dati dell’Unhcr, l’Iraq ospita ancora 300mila rifugiati, dei quali oltre il 90 per cento è rappresentato da cittadini siriani fuggiti dalla guerra civile. La maggior parte di loro proviene dall’area nord-orientale, e non ha una prospettiva di rientro nel breve o medio periodo. Il 91 per cento di tutti i rifugiati nel Paese si trova nella Regione autonoma del Kurdistan, mentre il restante 9 per cento vive fra Baghdad e Basra.

Dei rifugiati presenti in Kurdistan, il 34 per cento si trova tuttora nei 9 campi profughi presenti sul territorio, mentre il 66 per cento ha trovato un alloggio a Erbil, Duhok e Sulaymaniyah.

La conquista dei territori nella piana di Ninive e nell’Ambar da parte dell’Isis, nel 2014, ha portato anche alla migrazione interna di oltre sei milioni di iracheni, cinque dei quali hanno fatto ritorno nei luoghi di origine e 1,14 milioni restano sfollati per mancanza di opportunità, per paura se parte di una minoranza, o per lo stigma di essere considerati presunti fiancheggiatori o affiliati dello Stato Islamico.

Anche i cosiddetti “returnees”, coloro che hanno fatto ritorno a casa dopo la fine della guerra, affrontano forti disagi per l’assenza di una reale prospettiva di rilancio economico, di una ricostruzione che coinvolga anche i servizi, le industrie e le abitazioni private oltre che i luoghi ad alto valore storico-artistico, per i quali è arrivato anche l’aiuto della comunità internazionale.

Secondo l’International Labour Organization, la percentuale di disoccupati in Iraq tocca rispettivamente il 22 per cento per gli uomini e il 66 per cento per le donne. Del totale dei lavoratori, il 66 per cento della popolazione, il 54,8 per cento è impiegato in settori informali, bambini compresi, spesso costretti ad abbandonare la scuola per aiutare la famiglia. Nelle città particolarmente colpite dall’ultimo conflitto, come Mosul, ci sono ancora persone che vivono fra le macerie delle proprie case, che non hanno accesso alla corrente elettrica e all’acqua, e non possono permettersi nulla più della sopravvivenza. Sono loro le prime vittime di un fenomeno in aumento, quello della seconda emigrazione, di chi ha provato a tornare ma non ha trovato il modo per restare.

 

 

Foto di copertina: la grande moschea di Mosul, detta “Moschea Saddam”, incompiuta (dal 2019 sono ripresi i lavori). Foto di Ilaria Romano, ogni riproduzione è vietata.

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