Quarantott’ore per evitare le quarte elezioni anticipate in poco più di un anno. Quarantott’ore per dar vita al governo Netanyahu-Gantz. Il “Re” e il “Generale” sono tornati – dopo una prima riunione ieri sera – ad incontrarsi questa mattina nel rush finale per formare un governo di emergenza nazionale. Il presidente Reuven Rivlin ha dato tempo fino alla mezzanotte di domani (ora locale), estendendo di due giorni il mandato a Gantz che terminava la notte scorsa. In una prima riunione svoltasi ieri sera le rispettive delegazioni, quella del Likud e di Blu-Bianco, hanno parlato di “progressi”. Ma resta da sciogliere ancora un nodo: cosa succede se la Corte Suprema deciderà che un deputato incriminato, come Netanyahu, non può diventare premier. La bozza di accordo prevede infatti una rotazione nella carica tra Netanyahu per primo e Gantz per secondo. Secondo Ynet, sito on line di Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano d’Israele, il Likud vuole l’impegno di Blu-Bianco che in quella eventualità non ci sia alternanza, ma si sciolga la Knesset e si vada a quarte elezioni. In evidente imbarazzo, Gantz, alle prese con un’opinione pubblica impaurita dalla diffusione del Coronavirus, ha provato a evocare un governo di “emergenza sanitaria” limitato nel tempo, 6 mesi, e focalizzato sul contrasto alla pandemia. Ma “King Bibi” ha risposto picche: non se ne parla nemmeno.
Con una mossa a sorpresa, Rivlin aveva respinto ieri la richiesta del premier incaricato Benny Gantz di avere altri 14 giorni per concludere le trattative con Netanyahu per un governo di unità nazionale. Una scelta motivata, ha spiegato Rivlin, dall’evidente stallo dell’intesa, come certificato dallo stesso Netanyahu, pur se il presidente ha lasciato uno spiraglio a patto che i due entro domani sera – scadenza dell’incarico a Gantz – gli portino una soluzione concreta ad una crisi che dura da più di un anno. Altrimenti – ha aggiunto Rivlin – la partita tornerà nelle mani della Knesset incaricata di trovare un qualsiasi deputato in grado di raccogliere i 61 seggi, su 120, di maggioranza. Oltre questo non ci sono che nuove elezioni, le quarte.
Le lezioni israeliane
A ben vedere, quella israeliana è una storia che ai tempi del Covid-19 varca i confini nazionali e parla anche a noi. A noi italiani, a noi europei. In momenti tragicamente eccezionali, come quello che stiamo vivendo, i dilettanti in politica vanno allo sbaraglio e l’opinione pubblica, impaurita, insicura, cerca certezze affidandosi all’uomo forte, all’usato sicuro. In Israele, a Benjamin Netanyahu. È un discorso che va oltre la classica, e un po’ andata, divisione destra/sinistra (Gantz, peraltro, di sinistra non è mai stato) e investe categorie metapolitiche.
In attesa di sapere se il “suq” tra Netanyahu e Gantz porterà al governo di “emergenza virale”, una cosa è certa: la coalizione Blu e Bianco non esiste più, dopo che i due partiti anti-Netanyahu che ne facevano parte – Yesh Atid, guidato da Yair Lapid, e Telem, capeggiato da Moshe Ya’alon – hanno annunciato il passaggio all’opposizione, lasciando gli alleati di Israel Resilience, il partito di Gantz. La comunicazione è stata formalmente data nelle sedi di assemblea e in aula c’è stato il voto contrario alla “grande alleanza”, insieme ai laburisti e alla destra nazionalista e laica di Yisrael Beiteinu dell’ex ministro della difesa, Avigdor Lieberman.
Lapid ha spiegato che “la crisi causata dal coronavirus non ci dà il diritto o il permesso di abbandonare i nostri valori. Non si può strisciare in un governo del genere e dire che l’hai fatto per il bene del Paese”. E ancora: “Ciò che si sta formando oggi non è un governo di unità nazionale e non è un governo di emergenza. È un altro governo di Netanyahu. Benny Gantz si è arreso senza combattere. […] I risultati delle elezioni hanno dimostrato che Israele aveva bisogno di quell’alternativa come noi abbiamo bisogno dell’aria per respirare. Volevamo realizzare un cambiamento, creare una speranza, iniziare un nuovo percorso. E Gantz ha deciso di interromperlo”, ha concluso il fondatore di Yesh Atid, formazione centrista nata nel 2012 occupando un ruolo rilevante nel panorama politico con una precisa identità: contrastare Netanyahu.
Per l’ormai ex alleato Ya’alon, quello di Gantz è un suicidio politico. Tuttavia, Ya’alon ha cercato di utilizzare la situazione di stallo creatasi nei giorni di trattative tra Gantz e Netanyahu probabilmente incagliate sulla distribuzione dei ministeri ai diversi partiti. “Non è ancora troppo tardi per fare ammenda di un errore compiuto durante un cammino”. Queste le ultime parole dell’appello, che Gantz non ha voluto commentare.
Altra lezione israeliana: la scorciatoia “giustizialista” non paga. E non può sostituirsi alla politica. I guai giudiziari di Netanyahu erano e restano sotto gli occhi di tutti gli israeliani. Gantz, in prima battuta, ha provato a farsene forza, invocando il rispetto dello stato di diritto, con la separazione dei poteri, e del principio che tutti i cittadini sono eguali davanti alla Legge, e non esiste uno più eguale degli altri, neanche se questo uno è il primo ministro. Gantz ha perso perché, al momento della verità, non ha retto il punto.
Ma c’è un altro dato, non meno significativo, che spiega la sua sconfitta, perché tale rimane anche se Gantz sarà ministro degli Esteri e, tra 18 lunghi mesi, subentrerà a Netanyahu alla guida del governo. Un dato tutto politico. Perché se sul terreno della sicurezza si accetta il “Piano del secolo” di Donald Trump, con incorporate l’annessione della Valle del Giordano e delle Alture del Golan tramite una modifica unilaterale dei confini di Israele, se sbraghi su tutto questo, allora è meglio l’originale, Netanyahu, che una “fotocopia”, Gantz. Morale di una favola non a lieto fine: leader non ci s’improvvisa, tantomeno uomini della provvidenza. In passato, nei momenti di maggiore difficoltà, Israele si è rivolta a uomini in divisa diventati politici di lungo corso: Yitzhak Rabin e Ariel Sharon, solo per fare due esempi opposti rispetto agli orientamenti politici. Ma Benny Gantz ha avuto i gradi di Rabin e Sharon, non la statura politica. Quella non la si eredita, la si conquista sul campo.
Foto: Menahem Kahana / AFP