Rabbia, orgoglio, determinazione, paura oggi segnano Israele e anche la diaspora ebraica. È la rivolta contro il “golpe giudiziario” ordito dal governo di estrema destra guidato dal primo ministro più longevo nella storia del Paese: Benjamin “Bibi” Netanyahu. Al centro di uno scontro che sta lacerando il Paese, la controversa riforma della giustizia.
L’unica democrazia in Medio Oriente non ha una carta costituzionale che definisca una visione condivisa del rapporto tra Stato e religione, l’uguaglianza dei cittadini a prescindere dall’appartenenza etnico-religiosa, l’equilibrio tra i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario.
In mancanza di una Costituzione, “Bibi” vuole introdurre una normativa che prevede di rimuovere l’unico vero ostacolo istituzionale che rimane sul suo cammino, la Corte Suprema. Nei suoi piani il depotenziamento del potere dei giudici avverrebbe sia assoggettando la loro nomina al governo (modificando il processo di selezione), che riducendo quei meccanismi di equilibrio e controllo, che caratterizzano le democrazie liberali avanzate. Ad esempio attraverso la cosiddetta “override clause”, la clausola di superamento che permetterebbe al Parlamento di scavalcare le decisioni della Corte con una semplice maggioranza qualificata.
Nella sostanza l’obiettivo della riforma della giustizia è di passare a un sistema dove il dominio assoluto è della maggioranza, e la democrazia è apparente (o democratura).
Ciò̀ comporta pesanti ricadute su tutto l’apparato istituzionale. Il punto fondamentale riguarda il bilanciamento dei poteri, fondamento di uno Stato di diritto. Nel mirino del governo c’è la Corte Suprema, l’unico freno al potere della maggioranza politica. Annota a tal proposito Amir Fuchs dell’Università di Gerusalemme: “La maggior parte delle leggi può essere modificata da un voto della maggioranza relativa alla Knesset, mentre altre richiedono la maggioranza assoluta (61 parlamentari). Un emendamento può anche essere emanato in un solo giorno con tre letture del disegno di legge. Ciò significa che l’assetto istituzionale è di per sé fragile; dare ai membri della Knesset il potere di ignorare le leggi fondamentali per mezzo della legislazione ordinaria la indebolirebbe ulteriormente relegandola all’irrilevanza”.
La presa del potere da parte di Netanyahu ha prodotto, e accelerato, uno scollamento nella società israeliana, portando il Paese sulla soglia del punto di non ritorno. A varcare il Rubicone non è Cesare con le sue legioni ma la destra fondamentalista, quella dalle forti venature razziste e omofobe. Un esecutivo fazioso che non conosce avversari con cui interloquire ma solo nemici contro cui imbastire vere e proprie campagne di odio. Una destra che rivendica l’impunità di fronte alla legge; che intende forse legalizzare l’illegale, annettendo unilateralmente porzioni dei territori palestinesi; che cambia le carte in tavola per nominare ministro un criminale recidivo come Aryeh Deri di Shas (per poi dover prender atto che era incompatibile con la carica ricoperta e quindi escluderlo dal dicastero della Sanità); e agogna l’immunità (futura) nei processi per l’imputato Netanyahu. Una destra populista e sovranista che nel suo vocabolario non contempla parole come ricerca di equilibrio, compromesso e democrazia liberale.
Nonostante l’immagine di falco, Netanyahu è sempre stato considerato un politico cauto, avverso al rischio, attento a portarsi al limite senza superarlo, ideologicamente un populista conservatore. Questo era il vecchio Bibi che conoscevamo, e che qualcuno rimpiange persino a sinistra – non fosse altro per le poltrone che elargiva indistintamente. Quello di oggi, che si è incattivito con il sopraggiungere dei guai giudiziari, è completamente diverso. È diventato un populista sovranista. Ma soprattutto è un politico debole con gli alleati.
Intanto, da fine marzo si ritorna al tavolo del tentato compromesso tra opposizione e maggioranza, presieduto dal presidente Isaac Herzog. Il proposito sarebbe trovare una base d’intesa e soprattutto far decantare gli animi, sperando di prendere tempo e raggiungere progressi nella trattativa, incompatibilità croniche permettendo.
Come e perché Israele, la terra dell’esperimento del socialismo applicato dai kibbutznik e delle fattorie moshavim, della socialdemocrazia, ha voltato le spalle alla sua Storia è una lezione di politica. Di valori smarriti, di identità incerta, di un radicamento che non ha retto a una trasformazione demografica che ha cambiato radicalmente il volto di Israele, spostando sempre più a destra il baricentro e il senso comune. A dare una versione logica di come questo sia accaduto nella quasi totale indifferenza ci pensa l’ex diplomatico Alon Pinkas: “L’etichetta ‘sinistra’ è diventata una parola d’ordine politica, un eufemismo culturale e una sorta di fischietto per descrivere, in generale, ‘tutto ciò che non sono’ e, ergo, ‘tutto ciò che sono contro’”. Pinkas prosegue: “È iniziato con il declino dell’influenza e la diminuzione del dominio del Wasp israeliano: Bianco, Ashkenazi, Sabra, Paracadutista… e poi si è poi trasformato in una tendenza molto più viscerale e divisiva: la distinzione tra ‘ebreo’ e ‘israeliano’. Mentre consigliava Benjamin Netanyahu, il consulente politico Arthur Finkelstein, l’ha espressa come una pura equazione politica: domandate a qualcuno se è ‘più ebreo’ o ‘più israeliano’. Se rispondono ‘israeliano’, sono di sinistra e noi siamo ‘ebrei’”.
Errori su errori, e nessuna scusante come sostiene l’analista politico Haviv Rettig Gur: “La sinistra israeliana non è crollata inaspettatamente, per il recente sbandamento a destra dell’elettorato. È in tilt da tre decenni. E tre decenni di fallimenti suggeriscono una semplice e spietata conclusione che aleggia sull’ansia da risultati elettorali e sulla patina di panico morale che l’accompagna: la sinistra che è appena crollata, in termini di grezza strategia politica, non merita di esistere”. In sintesi, “anche se il campo guidato da Yair Lapid avesse vinto, in realtà non avrebbe vinto; avrebbe semplicemente negato a Netanyahu una vittoria”.
Rettig Gur avverte inoltre che la vera forza della destra sono i numeri, dal momento che la politica israeliana è costruita lungo divisioni culturali, religiose ed etniche spesso chiamate migzarim, “settori” o shvatim, “tribù” e la sinistra non è più competitiva. “Il sistema elettorale stesso è costruito per riflettere ed esprimere queste affinità tribali come coesi attori parlamentari”, sottolinea. “Le declinazioni delle “tribù” non sono così rigide come suggeriscono le politiche identitarie israeliane; Haredi, Sefarditi di Shas e il tradizionalista Likud si sono scambiati gli elettori nel corso degli anni, così come i laburisti e Yesh Atid – prosegue – Ma questi confini autodefiniti sono comunque gli indicatori più elementari del comportamento politico israeliano. […] Una sinistra seriamente intenzionata a plasmare il futuro israeliano deve riorientarsi per trarre vantaggio da questi cambiamenti”.
Resta la rivolta contro i “golpisti” al governo, gli attentatori dello Stato di diritto. Il primo tempo della partita è concluso in un mezzo pareggio, le squadre sono negli spogliatoi. L’assalto allo Stato di diritto portato avanti da una destra radicale, oltranzista, animata dalla volontà di stravolgere, cancellare i fondamenti del sistema democratico, è respinto. Il secondo tempo sta per iniziare. Perché non c’è una minaccia esterna – fatta eccezione per l’Iran degli ayatollah e il loro programma nucleare – che, come è accaduto più volte nei 75 anni di vita dello Stato di Israele, compatta l’opinione pubblica, riportando a unità una società altrimenti divisa se non contrapposta. Per i manifestanti che protestano la sfida viene da un governo che ha attentato ai principi basilari di uno stato di diritto. Per settimane consecutive, Israele è segnato da manifestazioni dal basso che hanno spiazzato la stessa opposizione parlamentare. Cortei, paralisi e disobbedienza. Una rivolta sotto la bandiera di Davide.
La bandiera israeliana è nelle mani di chi si è unito in questa protesta: l’imprenditoria, il sindacato Histadrut, studenti e infermieri, la finanza e i premi Nobel, associazione dei famigliari delle vittime del conflitto e sopravvissuti all’Olocausto fino a raggiungere e coinvolgere l’insubordinazione dei riservisti e quella di ampi settori del corpo diplomatico. Stretti insieme, laddove l’estrema destra ha diviso, lacerato. Una rivolta che ha imposto a Benjamin Netanyahu di prendersi una pausa, congelare la contestata riforma della giustizia e aprire ai negoziati con gli avversari.
Il movimento pro democrazia è intenzionato a non fermarsi, fino alla sua destituzione o a nuove elezioni. Il problema di fondo, è l’humus culturale, prim’ancora che politico, che tiene insieme il governo più a destra nella storia di Israele: un impasto di messianismo religioso, dalle forti venature razziste, e un progetto politico, di cui la riforma della giustizia è una parte ma non è il tutto. È il sovranismo che va al governo e si fa Stato. E questo progetto non è stato ancora riposto nel cassetto.
Tutt’altro, lo scontro è ripreso. Il 23 luglio il Parlamento israeliano ha approvato in via definitiva la prima parte della nuova legge che impedisce ai tribunali di rivedere la ragionevolezza delle decisioni governative e ministeriali: 64 i voti a favore (su 120). L’opposizione in segno di protesta non ha partecipato al voto. “Ricorreremo alla Corte Suprema”, dichiara oggi Yair Lapid, l’ex premier che dell’opposizione liberale è il leader, mentre il sindacato valuta lo sciopero generale. Intanto, la protesta riesplode. Lunedì sera migliaia di manifestanti anti-Netanyahu si sono riversati nelle strade di Tel Aviv, bloccando la principale arteria autostradale di Ayalon: il bilancio degli scontri è di 3 poliziotti e 4 manifestanti feriti. Quaranta gli arresti. Ed è solo l’inizio dello scontro finale. Mai come oggi la democrazia in Israele è in pericolo.
Immagine di copertina: alcuni manifestanti confrontano la polizia israeliana durante le proteste contro la riforma della giustizia voluta da Benjiamin Netanyahu a Tel Aviv, 4 marzo 2023 (foto di Gili Yaari/NurPhoto via AFP).