“Tutti, tranne Bibi”. È il proposito che tiene assieme un rampante leader di destra, un centrista moderato e i pacifisti di Meretz. L’uscita di scena del primo ministro più longevo nella storia d’Israele è la mission che mette tra parentesi profonde divisioni ideologiche, che unisce ciò che, in una democrazia non tossica come è oggi quella israeliana, sarebbero l’uno contro l’altro in “armi” (politiche naturalmente). Ma è proprio questo convergere tra opposti che dà il segno dell’emergenza democratica che vive, non da oggi, Israele. Una emergenza che ha un volto e un nome: Benjamin Netanyahu.
Di certo, “Bibi” non si farà da parte senza combattere. Non è nel suo stile. Voleva un governo di destra, imbarcando anche i kahanisti di Sionismo Religioso. Aveva radicalizzato il Likud, evocato l’annessione di parte della Cisgiordania e rivendicato la vittoria nella quarta guerra di Gaza. Ma è proprio una parte della destra che gli ha voltato le spalle. E se dopo dodici anni di regno dovrà deporre lo scettro, sarà per il “fuoco amico” di politici che a destra sono saldamente ancorati: Naftali Bennet, Gideon Sa’ar, Avigdor Lieberman. Netanyahu lo sa bene, per questo ha avviato una guerra mediatica contro quello che considera il capo dei congiurati: Naftali Bennett, leader di Yamina (Destra). “Aveva detto in campagna elettorale che non avrebbe appoggiato Lapid, di essere un uomo di destra, attaccato ai suoi valori. Naftali, i tuoi valori hanno il peso di una piuma”, ha tuonato Netanyahu. “L’unica cosa che gli interessa è fare il premier. È scandaloso che con 6 seggi si possa fare il premier. Gli israeliani che mi hanno scelto con 2 milioni e mezzo di voti volevano me come premier”, sentenzia. Lo scontro sarà aspro e di lunga durata. A spiegare perché sono due firme di Haaretz: Ravit Hecht e Alan Pinkas.
“Netanyahu ha sempre tratto la sua forza dalla narrativa del ‘noi contro il mondo’. Che ci vuoi fare, chi combatte contro il mondo intero alla fine si troverà probabilmente sconfitto Se Netanyahu avesse agito con un po’ più di considerazione verso i suoi partner di destra, se avesse evitato di affondare in aspre dispute con persone come Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Naftali Bennett e Ayelet Shaked, avrebbe potuto conservare la loro fedeltà. Netanyahu sta ora pagando per il disprezzo con cui lui, e i suoi sostenitori, hanno trattato tutti i suddetti”, scrive Hecht, che avverte: “Netanyahu non si muoverà facilmente dalla sua sedia. Non trasferirà il potere senza problemi e rimarrà per le ‘foto di classe’ con il suo sostituto, ammesso che Naftali Bennett si trasferisca davvero nella residenza del primo ministro in Balfour Street. Un ritiro con grazia non è in lui. Resta da vedere come sarà il burrascoso cambio di leadership in Israele; ci saranno rivolte alla Capitol Hill, o qualche altro trucco che non possiamo ancora immaginare? I bibi-isti non abbandoneranno Netanyahu. Non nel prossimo futuro. Per loro è già visto come Dreyfus e Anna Frank al quadrato. Non basta che la sinistra/la procura/la giustizia/i media/il presidente/il presidente americano/il droghiere locale/quasi tutti nel mondo gli abbiano dichiarato guerra a morte – ora i suoi partner di destra lo hanno tradito”.
Quali cartucce prepara dunque, il premier uscente? Risponde Alan Pinkas: “L’unico percorso lontanamente disponibile per Netanyahu è quello di silurare un tale governo e forzare un’altra elezione. Quindi, a partire da ora, aspettatevi che Netanyahu sia in piena modalità dirompente, promettendo qualsiasi cosa, dal ponte di Brooklyn alla proprietà primaria su Marte, a chiunque abbandoni un governo Lapid-Bennett”.
Ma la “coalizione del cambiamento” ha dalla sua i numeri: una possibile maggioranza di 65 seggi nella Knesset di 120 membri, composta da tre partiti di destra (Yamina, Israel Beitenu e Nuova Speranza), due partiti centristi (Yesh Atid e Kahol Lavan) e due partiti di sinistra (Labor e Meretz). Ma che cosa può tenerli insieme? Ancora Pinkas: “Il collante che lo tiene insieme è un fondamentale rifiuto e stanchezza nei confronti di Netanyahu. I denominatori comuni sono pochi e distanti tra loro, e un tale governo eviterà quasi certamente di occuparsi di questioni controverse. Sarà etichettato come un periodo ‘curativo’ o ‘ricostruttivo’. Un governo di interregno progettato per un solo scopo: riabilitare la democrazia e il governo. Si può fare? Sì. Sarà fatto? Lo sapremo tra due anni”.
“A nessuno verrà chiesto di rinunciare alle proprie idee, ma tutti dovranno posticipare la realizzazione di alcuni dei loro sogni. Ci concentreremo sul possibile, anziché discutere dell’impossibile”, ha detto Bennett nella serata di domenica. “Discutere sul possibile”. E il “possibile” che unisce gli opposti è mettere fine all’era Netanyahu. “L’evento più importante di queste giornate frenetiche e per molti versi drammatiche per il futuro stesso d’Israele, è stato l’incontro tra Bennett e il presidente della Lista Araba Unita Mansour Abbas – annota Yossi Verter, tra i più autorevoli analisti politici israeliani – Finalmente, Bennett ha fatto un passo di leadership, un passo considerato ‘coraggioso’. Liberato dalle intimidazioni della frangia estrema della base, ha osato fare ciò che il grande capo non ha ancora fatto. Fino a mercoledì scorso, Netanyahu era convinto quasi al 100% che Abbas e i suoi tre colleghi di partito non avrebbero facilitato la creazione di un governo di ‘cambiamento’. Non l’avrebbero appoggiato, né si sarebbero astenuti in una votazione; avrebbero votato contro. Ma la ‘buona’ riunione, come l’ha definita il presidente di Yamina, ha chiarito a Netanyahu che Abbas non lo ha in tasca”.
Tutt’altro. L’asse Bennett-Lapid sembra tenere. A confermarlo è il patto di rotazione raggiunto dai due: se il governo “anti-Bibi” sarà varato, Bennett ne sarà il primo ministro fino al 2023 per poi lasciare il posto a Lapid. Un fatto di poltrone, di ambizioni personali, si sarebbe portati a dire. Ma sarebbe una lettura parziale, semplicistica. Certo le ambizioni personali contano, eccome, ma non danno il senso storico degli eventi politici che si stanno consumando in queste ore in terra d’Israele.
“Sappiamo bene che tra noi e Yamina o Yisrael Beteinu o New Hope esistono visioni non solo differenti ma alternative – dice a Reset Mirav Michaeli, la leader del Labour -. Ma oggi siamo chiamati a ‘congelare’ queste differenze per un bene superiore: la democrazia. Un bene che Netanyahu ha messo in discussione, con un comportamento irresponsabile, indegno di un primo ministro, attaccando la magistratura, gridando al ‘golpe legale’, fomentando la piazza. Un comportamento eversivo, Se riusciremo a dar vita a un governo della normalizzazione democratica sarà un bene per Israele. Il Labour è stato il partito fondatore dello Stato d’Israele. E tutti i nostri grandi leader, da Ben Gurion a Golda Meir, da Yitzhak Rabin a Shimon Peres, sono stati mossi in momenti cruciali per l’esistenza stessa d’Israele da un interesse supremo: l’interesse nazionale. Ed oggi ciò significa liberare Israele da chi lo tiene in ostaggio per i suoi interessi personali. Liberarlo da Benjamin Netanyahu”.
Foto: I leader di Yesh Atid Yair Lapid e di Yamina Naftali Bennett insieme alla Kenesset nel febbraio 2013 (Gali Tibbon / AFP)