«Netanyahu ha “sequestrato” Israele, piegando ogni atto del suo Governo ai propri interessi personali. Attorno a lui non ha voluto alleati ma complici, più o meno consapevoli. Complici di un furto di democrazia». A denunciarlo, in questa intervista esclusiva concessa a Reset, è Nitzan Horowitz, presidente del Meretz, la sinistra sionista israeliana.
Nei giorni scorsi la Knesset, il parlamento israeliano, si è pronunciata a favore dello scioglimento in una votazione preliminare, avvicinando Israele a una quarta elezione in meno di due anni. Sessantuno parlamentari hanno votato a favore e 54 contro. La proposta andrà ora alla commissione legislativa per la discussione. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha chiarito martedì che il suo partito, il Likud, voterà contro la proposta di legge, presentata dall’opposizione. Benny Gantz, sperando di spronare Netanyahu a raggiungere un compromesso sul bilancio statale del 2021, ha votato a favore. Yesh Atid, che ha proposto il progetto di legge, il Labour e Meretz hanno votato tutti a favore di nuove elezioni anticipate.
Israele sembra destinato a nuove elezioni, le quarte in due anni. E questo in piena crisi pandemica.
Il termine “destinato” non è quello giusto per descrivere il furto di democrazia che Benjamin Netanyahu e i suoi complici stanno perpetrando. Netanyahu ha perseguito con cinica determinazione lo stesso disegno che è alla base delle tre elezioni anticipate che hanno portato il paese sull’orlo del baratro.
E quale sarebbe questo disegno?
Non sottoporsi a processo per i gravi reati di corruzione imputatigli. Il suo comportamento è stato quello di un autocrate, e non certo di uno statista, di un politico che rispetta e difende lo stato di diritto. Una sorta di Erdogan israeliano.
Un’accusa pesante la sua.
Ma come altro definire un primo ministro che ha abusato della sua carica, aizzando la piazza contro la magistratura, la polizia, contro tutti coloro che stavano compiendo il proprio dovere. Netanyahu ha fatto delle tre elezioni anticipate che hanno segnato l’ultimo anno e mezzo, un referendum su se stesso. Ha cercato l’impunità, ha manovrato per non dover varcare la soglia di un tribunale. E ha utilizzato anche il Coronavirus per evitare il processo. E tutto questo mentre il paese pagava un prezzo altissimo per l’incapacità del primo ministro e del suo governo a far fronte al virus. Nessuno gli chiedeva miracoli, ma ciò che Netanyahu ha fatto in questi mesi è qualcosa che lascerà un segno indelebile nel futuro d’Israele. Netanyahu non è mai stato alla ricerca di alleati ma di complici.
Tra i “complici” va annoverato anche il leader di Kahol Lavan, Benny Gantz, attuale ministro della Difesa destinato a succedere a Netanyahu per il “patto della staffetta” sottoscritto alla nascita dell’attuale esecutivo?
Sia chiaro: quando parlo di “complicità” lo faccio in termini politici e non personali. E sul piano politico, se non complice, di certo Gantz e la parte di Blu e Bianco che l’ha seguito in questa avventura fallimentare si sono rivelati succubi di Netanyahu e del suo disegno. Non basta alzare la voce di tanto in tanto per riconquistare quel credito che Gantz ha perduto quando ha scelto di allearsi con Netanyahu e la destra che ha in lui il padrone assoluto. Gantz è stato usato e poi gettato via da Netanyahu. Basti pensare agli “Accordi di Abramo”, la normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, o alla visita “segreta” compiuta recentemente da Netanyahu in Arabia Saudita. Netanyahu ha messo ai margini o addirittura escluso da questi eventi sia il ministro della Difesa, Gantz, che quello degli Esteri, Gabi Ashkenazi, anch’egli di Kahol Lavan. Non si è trattato di voler occupare da solo il palcoscenico mediatico, come è avvenuto nella cerimonia di firma degli “Accordi di Abramo” alla Casa Bianca. Quella di Netanyahu è stata una scelta politica, ad uso interno e internazionale. Il messaggio è chiaro: chi conta davvero sono io, gli altri sono solo semplici comprimari. E agendo così ha finito per logorare i suoi alleati di governo.
Che ora si ribellano.
Staremo a vedere. Kahol Lavan ha unito i suoi voti a quelli delle opposizioni alla Knesset, ma ancora non è chiaro se si sia trattato di una scelta strategica o di un segnale lanciato a Netanyahu perché rispetti i patti. Cosa che non farà mai.
Niente staffetta, dunque…
Questo era chiaro fin dall’inizio. Per Netanyahu essere primo ministro è una sorta di assicurazione sulla vita politica. Lui potrebbe prendere in considerazione l’idea della staffetta solo in presenza di una certezza assoluta di impunità. Altrimenti, si va alle elezioni, per l’ennesimo referendum sulla sua persona.
Ma il fronte anti-Netanyahu appare quanto mai diviso, frantumato.
Questo è vero se si resta in superficie e si guarda solo ai comportamenti dei capi partito. Ma in questi mesi di sofferenza, dalla società sono emerse forze, soggettività che hanno dato vita a una protesta sociale che non ha precedenti nella storia d’Israele. Una protesta che dura da oltre tre mesi e che ha riguardato decine di migliaia di cittadini, espressione di quella maggioranza di israeliani che stanno pagando l’incapacità di questo governo e del suo primo ministro nell’affrontare la crisi pandemica. E non parlo solo dei tanti che hanno avuto lutti in famiglia, ma dei tanti che hanno perso il lavoro, che hanno dovuto chiudere la propria azienda, cessare la propria attività. È l’Israele del dolore e della rabbia ma non della rassegnazione. Ed è su si di essa che dobbiamo puntare per porre fine una volta per tutte all’era Netanyahu.
Quando parla di una coalizione “anti Bibi” si riferisce anche alla Joint List, la lista che raggruppa i partiti arabi israeliani?
Certo che sì. Gli arabi israeliani rappresentano oltre il 20% della popolazione d’Israele. Escludere questa comunità da responsabilità di governo è un vulnus per la democrazia del mio Paese. Non è solo un problema politico. È una questione che investe l’identità stessa dello Stato d’Israele e della nostra comunità nazionale. La destra fondamentalista è portatrice di una concezione della cittadinanza fondata su un principio etnico-religioso che discrimina, esclude, ghettizza. Una democrazia è tale se garantisce i diritti delle minoranze, altrimenti è una etnocrazia fondata sulla dittatura della maggioranza. Ma questa concezione della cittadinanza non ha nulla a che vedere con l’idea d’Israele e dell’ebraismo che è stata alla base del pionierismo sionista e dell’azione dei padri fondatori dello Stato d’Israele. Una visione da Paese normale che non ha “missioni” da popolo eletto da portare a termine. Il sionismo è laico o non è.
Come declinerebbe la parola “sinistra” oggi?
Sinistra come inclusione, come lotta alle disuguaglianze. Sinistra come giustizia sociale, parità di genere. Sinistra come pace giusta e duratura con i palestinesi. Sinistra come investimento sul futuro, il che significa puntare sull’istruzione, sulla ricerca, sull’Israele delle start up e non su quella degli insediamenti. Sinistra come difesa dello stato di diritto
A proposito di pace. Crede ancora possibile la soluzione a due Stati?
È una via sempre più stretta ma che non va abbandonata. E mi auguro che la nuova presidenza americana possa dare il necessario supporto per rilanciare il dialogo con la dirigenza palestinese. So che è difficile, ma in gioco non c’è solo la stabilità della regione e la sicurezza d’Israele.
E cos’altro sarebbe in gioco?
In gioco ci sono le fondamenta democratiche d’Israele. E una democrazia non può reggere lo stato d’apartheid che vige oggi nei Territori occupati. Non si vuole negoziare uno Stato palestinese a fianco d’Israele? Non si vuole discutere a un tavolo negoziale i confini dei due Stati? Allora si abbia il coraggio di prendere in considerazione la prospettiva di uno Stato binazionale. Ciò che non può reggere è l’idea di perpetuare lo statu quo esistente.
Foto: Jack Guez / AFP