Hatem Nafti: “Tunisia, un regime senza alternative alla retorica del complotto”

Superato il tetto del 90 per cento di consensi al primo turno delle elezioni presidenziali, lo scorso 6 ottobre, il raìs tunisino uscente, Kais Saied, affronta il nuovo mandato in un clima politico, sociale ed economico completamente diverso rispetto al 2019. Ne abbiamo parlato con lo scrittore e saggista Hatem Nafti, il cui ultimo lavoro, Notre ami Kais Saied. Essai sur la démocrature tunisienne, è stato presentato a fine settembre.

Che cosa è cambiato tra il 2019 e il 2024? Dal suo punto di vista, interno e allo stesso tempo esterno, in quanto analista politico franco-tunisino residente a Parigi, quali sono gli elementi di discontinuità?

Prima di tutto, il sistema in termini legali. Ora ci troviamo in un regime iperpresidenziale. Non sono convinto che si possa ancora definire un sistema repubblicano: abbiamo un presidente con poteri esorbitanti, ideologicamente contrario ai contropoteri. Questo si riflette nella nuova Costituzione e nel modo in cui viene applicata. Nella stessa Costituzione promossa da Kais Saied, i contropoteri previsti – la Corte Costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura – non sono stati messi in campo. Chi detiene il potere fa ciò che vuole. Abbiamo giudici nominati dal governo, la cui carriera dipende direttamente dall’esecutivo; altri che si fanno mettere in carcere perché non hanno giudicato in linea con le direttive del governo; e la ministra della Giustizia che dà chiaramente ordini ai magistrati.

E questo, diciamo, per quanto riguarda l’architettura istituzionale… ma il riflesso sulla società?

Il ritorno della paura. Me ne rendo conto con le persone che mi sono vicine. Hanno ripreso a dare i consigli dell’epoca di Zine El-Abidine Ben Ali: “Fai attenzione! Abbi cura di te…”. Le delazioni sono continue: la gente ha paura di parlare, non sa più cosa pubblicare sui social senza correre rischi. Basta un commento sbagliato su Facebook per ritrovarsi con una condanna a dieci anni di prigione. Insomma, un ritorno al regime del terrore.

E chi vive all’estero, come lei?

Anche noi siamo preoccupati, perché non sappiamo se rientrare sia pericoloso. Per quanto ne so, non ci sono procedimenti né denunce a mio carico; non sono stato convocato. Almeno, per quel che posso sapere. Però potrebbero prendersela con la mia famiglia o con le persone a me vicine. Alcuni mi scrivono chiedendomi di continuare a parlare, perché in Tunisia ormai non possono più farlo. Altri mi consigliano di fare attenzione.

Il discorso pubblico di Kais Saied è tutto incentrato sulla retorica del “contro”: è un discorso anti-occidentale, anti-africano, anti-partitico, anti-sistema…

Partiamo da alcuni punti fermi: il regime di Saied nasce nell’alveo del “contro”. Tutto ciò che propone da anni è in questo solco: l’obiettivo è abbattere l’ancien régime e, con esso, tutto ciò che è venuto prima di Saied stesso, perché il passato è visto come il buio.

Nei suoi discorsi l’Occidente non è mai citato apertamente come un nemico, ma lo si può intuire; la scelta è piuttosto per termini generici come “straniero” o “cerchie coloniali”. E dopo il 7 ottobre, quasi cavalcando il termine sionista, ha conquistato l’immagine di leader pro-palestinese nell’opinione pubblica. In verità, però, ha contrastato l’azione del Parlamento che voleva arrestare la normalizzazione dei rapporti con Israele.

Era mai successo che un presidente tunisino bloccasse il voto del Parlamento?

Mai, né sotto Bourghiba né sotto Ben Ali.

Tornando alla retorica anti-occidentale, non si può dimenticare l’accoglienza riservata da Tunisi alla presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.

Sì, questo dimostra la distanza fra il discorso pubblico e le scelte del regime. Sa, il presidente è una persona molto seria, raramente lo si vede sorridere. Una delle poche occasioni in cui è stato immortalato con il sorriso è stata proprio con la vostra presidente del Consiglio. Non è successo neanche durante la visita ufficiale in Arabia Saudita, quando si è recato a la Mecca – o, come diciamo in Tunisia “alla casa di Dio” –, nelle immagini sembrava persino infastidito.

L’Italia è quindi un po’ meno occidentale di Francia, Stati Uniti, Inghilterra…?

In un certo senso, sì. Se l’accordo sulla gestione dei migranti africani fosse stato mediato dalla Francia, non sono sicuro che le cose si sarebbero svolte nella stessa maniera. Alla base di tutto c’è la teoria di un grande complotto contro la Tunisia. I migranti? Frutto del complotto.

In che modo?

Sintetizzo questa teoria: gli europei vogliono sbarazzarsi dei neri – cosa che poi non è del tutto falsa – e, allo stesso tempo, ci sarebbero neri che mirano a colonizzare il Nord Africa. Qui il presidente è stato molto intelligente: per far passare questa teoria della grande sostituzione, ha tracciato un parallelo con la situazione palestinese. Secondo lui, proprio come gli occidentali antisemiti volevano sbarazzarsi degli ebrei dopo la Seconda guerra mondiale, mandandoli in Medio Oriente a sostituire i palestinesi, anche gli africani neri, nelle intenzioni occidentali, dovrebbero rimpiazzare i tunisini.

D’altronde, esiste una teoria chiamata panafricanismo, secondo cui tutta l’Africa dovrebbe essere nera: i nordafricani sono solo discendenti di colonizzatori arabi, berberi e turchi.

Ed è vero che c’è una pressione europea affinché le domande di asilo siano presentate al di fuori dell’Unione Europea, in Paesi come l’Albania o la Tunisia, per esempio.

Questo per dire che quand’anche la teoria non abbia senso, alla gente basta che ci siano degli elementi veritieri per crederci.

Dalla narrazione alla dura realtà. La crisi economica morde…

Non solo. La siccità è il grande problema, ormai da sette anni, e anche in questo caso il presidente sostiene che si tratti di un complotto. E di colpo blocchi di società che non hanno niente in comune si ritrovano dalla stessa parte: razzisti, classi popolari in cerca di riscatto sociale, la “pancia” del Paese più lontana dalla capitale. Al contrario, il contendente Ayachi Zammel ha ottenuto i suoi migliori risultati nei quartieri residenziali di Tunisi. In generale, quindi, l’opposizione raccoglie buoni numeri nella Tunisia che sta meglio, mentre Saied trova sostegno un po’ dappertutto.

Lei parla di risultati, quindi in qualche modo ritiene il voto legittimo, fa affidamento sulle urne…

Lo dico da mesi. Non c’è bisogno di viziare le urne per avere elezioni comunque truccate. Come? Impedendo la candidatura a persone – un islamista, una figura del passato regime e un conservatore – che avrebbero potuto fare ombra al presidente uscente. Altri sono in prigione da mesi, come l’avvocata Abir Moussi. Inoltre, la legge elettorale è stata modificata, l’attivismo politico privato delle sue risorse economiche, i media pubblici sono costantemente impegnati a fare propaganda per il regime, mentre quelli privati subiscono continue minacce e pressioni.

Tutto questo concorre a un clima che non può essere definito …

Libero?

Libero ed equo. Una parte di coloro che sono andati a votare lo ha fatto sotto costrizione: c’è una fetta della popolazione tunisina che dipende dai sussidi pubblici, erogati su base locale. E sono stati proprio gli amministratori locali, di ogni livello, a impegnarsi sul territorio a fare campagna elettorale a favore del presidente.

Detto questo, in totale, 2,4 milioni di persone hanno votato Saied (su poco più di 2,7 milioni di votanti, Ndr). L’opposizione, invece, non è riuscita in alcun modo a raccogliere un numero di voti simile. È comunque un fenomeno da studiare.

Che ne è stato del fronte islamista?

Ormai il loro potere va relativizzato, è stato grandemente eroso. Praticamente tutta la direzione degli islamisti (il partito Ennahdha e altre formazioni minori suoi satelliti, Ndr) è in prigione. Inoltre, va detto che, pur non essendo un fratello musulmano, Kais Saied è comunque un conservatore. Ha introdotto la sharia nella Costituzione: ci sono elettori islamisti che in lui possono trovarsi.

…e i modernisti? Tutti all’estero oppure in carcere?

No, assolutamente no. La sorprenderà, ma molti di loro sono in Parlamento. Nidaa Tounès (il partito liberale fondato dal defunto presidente Béji Caid Essebsi, Ndr) non esiste più. Tuttavia, gli esponenti dell’ancien régime, preferisco chiamarli così piuttosto che modernisti, sono quelli che si sono riciclati meglio degli altri. Condividono un pensiero di base tipicamente tunisino: cioè che lo Stato debba essere forte, che non si debba troppo occupare di questioni democratiche, che non debba essere messo in discussione. Uno Stato “patriarcale”.

Un giornale ha esaminato i curricula dei parlamentari – oggi non si presentano più come membri di un partito, ma come indipendenti – rivelando che il 40 per cento è riconducibile al Rcd (Rassemblement Constitutionnel Démocratique, il partito di Ben Ali al potere in Tunisia per 23 anni, fino alla sua destituzione nel 2011, Ndr).

C’è una compatibilità fra il “Rcd-ismo” e il “Saiedismo”, per così dire. Il presidente ridà vita a quell’amministrazione super potente; siamo tornati a uno Stato Leviatano che fa ciò che vuole. Convinto di agire così per il bene generale.

Non tutti, però, la pensavano così. Abir Moussi si è schierata senza mezzi termini all’opposizione, pur essendo fieramente nostalgica dell’epoca di Ben Ali e del Rcd.

Perché persone  come lei erano convinte che questo regime sarebbe crollato rapidamente. Non è stato così e ancora una volta i cittadini non hanno alcun controllo sullo Stato. Nel frattempo, la situazione sociale ed economica è ulteriormente peggiorata negli ultimi questi cinque anni. Ma la narrativa del complotto e del “contro” continua a funzionare…

Come commenta lo slogan di questa campagna elettorale (“Adesso costruiremo”)?

Perché l’invito “Votate per me e non sentirete mai più parlare di loro!” non fa venire forse i brividi? “Loro” sono i traditori, gli oppositori, gli avversari.

E adesso?

Questo regime non ha alternative alla retorica del complotto. Non cambierà. Senza, non saprebbe come giustificare i propri fallimenti, che sono ancora più gravi se si considerano i poteri e le prerogative mai avuti da nessun presidente prima di Saied. Nessuno.

 

Immagine di copertina: un cartellone ritrae Kais Saied a Kairouan, il 26 luglio 2022. (Foto di Kabil Bousena / AFP).

  1. STRANO MA VERO: QUALCUNO SI RICORDA ANCORA DEL SAHARA OCCIDENTALE

    Gianni Sartori

    Salvo qualche rara eccezione (v. Luciano Ardesi su Nigrizia), sembrava proprio che del popolo saharawi fossero rimasti in pochi ad occuparsene.

    Ma qualche recente notizia potrebbe stare a indicare una – per quanto piccola – inversione di tendenza.

    Innanzitutto la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che il 4 ottobre 2024 ha rimesso in discussione gli accordi commerciali tra UE e Marocco del 2019 in materia di pesca e prodotti agricoli. Accordi, ca va sans dire, conclusi senza il consenso della popolazione del Sahara Occidentale, tantomeno del Fronte Polisario (rappresentanza politico-militare della popolazione saharawi) .

    E quindi “in violazione dei principi di autodeterminazione” dal momento che riguardavano territori assegnati al Sahara occidentale.

    Sentenza che dovrebbe entrare in vigore entro dodici mesi e che dovrebbe comportare una perdita secca di 52 milioni di euro all’anno per Rabat. La cifra corrispondente a quanto l’Ue aveva assegnato al Marocco per consentire l’attività dei pescherecci europei, soprattutto spagnoli, al largo delle coste del Sahara occidentale.

    Altra buona notizia, la ripresa di iniziative di solidarietà con i dimenticati prigionieri politici saharawi. Con il sostegno di numerose organizzazioni (tra cui la Confédération Nationale du Travail, anarcosindacalista) venerdì 22 novembre si è tenuto alla Bourse de Travail di Tolosa un meeting in sostegno alle vittime saharawi della repressione e per la effettiva decolonizzazione del Sahara Occidentale. Tra i relatori, Claude Mangin (militante per i diritti umani e compagna di un prigioniero saharawi), Mokhtar Sidi (presidente dell’associazione dei Saharawi di Tolosa) e Nayem Uld Enna (presidente dell’associazione dei Saharawi di Mountauban). Con una folta presenza di famiglie della diapora saharawi.

    Invece giovedì 21 novembre le “Donne Democratiche di Mezzago” con il patrocinio di “Rete Saharawi” hanno organizzato una cena saharawi (anche senza carne) come autofinanziamento per le iniziative di solidarietà.

    Tra i partecipanti, Riccardo Noury di Amnesty International, Fatima Mahfud in rappresentanza del Fronte Polisario, il giornalista Mohamed Dihani e Renato Ferrantini, freelance e autore della mostra fotografica “Saharawi, oltre l’attesa”

    Boccate di ossigeno, direi, per gli oltre 170mila saharawi ancora nei campi profughi dove sopravvivono in condizioni difficili. Con l’unico sostegno effettivo dell’Algeria. Mentre nella loro terra si mantiene (ormai da 17 anni) l’equivoco del cosiddetto “piano di autonomia” del Marocco. Una forma per quanto subdola di colonialismo.

    Sembra invece destinata ad alimentare dubbi e perplessità la decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu in merito alla missione Minurso il cui mandato scadeva alla fine di ottobre.

    Decidendo di rinnovarla per un altro anno (fino al 31 ottobre 2025), si è forse voluto rimandare una scelta definitiva tra le due opzioni formulate da Staffen de Mistura (inviato del segretario generale dell’Onu): la spartizione del Sahara occidentale in base agli accordi del 1975 tra Marocco e Mauritania, oppure il piano di autonomia formulato da Rabat nel 2007.

    Senza dimenticare la recente adesione del presidente francese Macron al “piano di autonomia” di Rabat. Per una soluzione politica del conflitto, ma a tutto vantaggio del Marocco e a spese dei saharawi.

    Gianni Sartori

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