“La guerra dopo la pandemia: minaccia per l’umanità”. A poche ore dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il sito della Santa Sede titola così, aggiungendo: “È iniziato l’attacco all’Ucraina. Sembrava impossibile una guerra in Europa nel XXI secolo. I rischi di una degenerazione sono inimmaginabili. Il Papa chiede di opporre alla potenza delle armi la debolezza della preghiera”.
Cosa vuol dire la decisione di Francesco di indire per il prossimo 2 marzo, mercoledì delle ceneri, una giornata di digiuno e preghiera per la pace in Ucraina, assunta nelle ore precedenti l’attacco? È una decisione scontata, un atto formale? Per capire bene occorre sapere che è giunta pochi giorni dopo un passo irrituale compiuto nelle ore più calde di quella che è stata la crisi ucraina, cioè nelle ore precedenti l’invasione russa, dall’ambasciatore russo presso la Santa Sede, Alexander Avdeev. Intervenendo il 18 febbraio scorso a un incontro sull’Eurasia l’ambasciatore ha infatti affermato che si sta lavorando all’incontro tra Francesco e il patriarca di Mosca, Kirill. Questo si sapeva, ma l’ambasciatore ha aggiunto che l’incontro potrebbe aver luogo tra maggio e giugno in un luogo già definito, dove i cristiani soffrono molto.
L’irritualità sta nel fatto che il Vaticano e il patriarcato hanno relazioni e contatti diretti, costanti: il numero due di Mosca, il metropolita Hilarion, è a Roma a dir poco con frequenza. E infatti proprio lui poco dopo ha corretto il diplomatico: luogo e data non sono ancora definiti, ha dichiarato. È difficile anche per un patriarcato nazionalista come quello di Mosca accettare di essere presentato come qualcosa di simile al ministero del culto. Infatti con un lavoro del genere, per un incontro tra due leader religiosi che non avverrebbe in Russia, cosa c’entra l’ambasciata russa presso la Santa Sede?
Poco dopo lo stesso Hilarion ha però aggiunto riferendosi al dipartimento del Patriarcato che dirige, quello per le relazioni esterne: “Il nostro Dipartimento è talvolta chiamato Ministero degli Affari Esteri della Chiesa, il che non è esatto, poiché ci occupiamo non solo di affari esteri, ma anche di relazioni interreligiose nella nostra Patria. E negli ultimi anni ci sentiamo sempre di più una sorta di dipartimento di difesa, perché dobbiamo difendere le sacre frontiere della nostra Chiesa”. Sembra dire che in Russia non ci sarebbe solo la Chiesa ortodossa, ma anche che l’Ucraina è parte di quella Chiesa. Infatti il patriarcato si chiama di Mosca e di tutte le Russie, e tra queste per Mosca c’è chiaramente anche l’odierna Ucraina.
In queste parole potrebbe esserci un messaggio al Vaticano, e dopo l’invasione delle ore recenti appare più plausibile: i cattolici saranno accettati, ma in una terra i cui confini non si discutono. Sul tema la posizione del patriarcato è netta da tempo, tanto che Mosca ha rotto le relazioni diplomatiche con tutte le Chiese sorelle che hanno riconosciuto quella Ucraina come autocefala, cioè indipendente né ha proferito una parola sull’invasione del Paese vicino. Ma è questo il messaggio che Hilarion ha mandato ai cattolici e quindi a Francesco?
Quando a est c’era l’impero sovietico, Giovanni Paolo II scelse una visione che potremmo riassumere così: le Chiese dell’est cessino di essere le Chiese del silenzio, il Vaticano cerchi il colloquio diplomatico con gli Stati o i regimi. Gli ambasciatori di quei regimi infatti furono invitati a tornare, i loro regimi a ristabilire relazioni diplomatiche nel primo discorso al corpo diplomatico di Giovanni Paolo II. Ma le Chiese locali furono esortate a cessare la scelta dell’acquiescenza: “basta Chiese del silenzio”.
Francesco si trova in situazione tutta nuova, forse opposta. Il Cremlino di oggi non è certamente devoto all’ateismo di Stato. Ma le Chiese non sono certo acquiescenti con il neo imperialismo moscovita, a cominciare da quella Ucraina. Le parole di Hilarion indicano una richiesta? Difendere i cattolici in Ucraina vuol dire esortarli all’acquiescenza? Di Chiese acquiescenti Francesco ha esperienza in Oriente, in particolare nel Medio Oriente, dove la teologia del concerto tra poteri è stata tradotta in accodamento, o cesaropapismo. Questo ha creato non poche difficoltà di linguaggio e comprensione tra Roma e i patriarcati locali, anche cattolici. Perché il punto è troppo importante per un pontificato come quello di Francesco. Il suo pontificato afferma che il tempo è superiore allo spazio, e lo ha dimostrato con il “martirio della pazienza” impostosi con Pechino. Ma la pazienza vaticana non può significare neanche in Cina un cattolicesimo dipendente dal regime. Il contesto ucraino o più generalmente est-europeo è profondamente diverso. Ma soprattutto è diversa l’idea di Patria, che se si affermasse a Kiev potrebbe diffondersi in Europa.
Nell’anno nel quale divenne vescovo di Roma, Jorge Mario Bergoglio scrisse una prefazione a un libro di Guzmán Carriquiry Lecour. Giornalista, scrittore, diplomatico, questi ha lavorato a lungo alla Commissione Pontificia per l’America Latina, mentre oggi è ambasciatore presso la Santa Sede del suo Paese, l’Uruguay. In quel 2013 scrisse un libro sul continente latino-americano. La prefazione è di Bergoglio, che vi ha scritto: “Il paese è lo spazio geografico, la nazione è costituita dall’impalcatura istituzionale. La patria, invece, è quello che abbiamo ricevuto dai nostri genitori e che dobbiamo consegnare ai nostri figli. Un paese può essere mutilato, una nazione può trasformarsi (ne abbiamo tanti esempi dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale) ma la patria o mantiene la sua essenza costitutiva o muore. Patria rimanda a patrimonio, a quello che si è ricevuto e che dobbiamo riconsegnare accresciuto ma non adulterato. Patria allude a paternità e filiazione… evoca quella scena tragica e piena di speranza di Enea con suo padre sulle spalle nella sera della distruzione di Troia. Sì, patria suppone supportare ciò che abbiamo ricevuto, non per metterlo sottovuoto bensì per consegnarlo integro nella sua essenza ma accresciuto sulla strada della storia. Patria implica necessariamente una tensione fra la memoria del passato, l’impegno con la realtà presente e l’utopia che lancia verso il futuro. E questa tensione è concreta, non subisce interventi strani, non si confonde, nei marasmi della realtà presente, con la memoria o l’utopia generando fughe ideologiche essenzialmente infeconde”. I punti decisivi di questa passo a me appaiono evidentemente due: “sulla strada della storia” e “fughe ideologiche essenzialmente infeconde”.
Sulla strada della storia è un’espressione che ricorda e forse spiega perché Bergoglio dica sempre, dopo l’espressione Popolo di Dio, “in cammino”. In cammino nella storia, ovviamente. Questo rapporto decisivo con la storia è opposto a quello infecondo con le ideologie, tra le quali non si può che ritenere evidente quella dell’etno-nazionalismo. È stato questo il pomo dell’incomprensione con le Chiese mediorientali. Non la difficoltà della situazione in cui vivono, no, ma l’idea di ridursi a Chiese etniche.
L’accrescere di Bergoglio, e poi di Francesco, è riferito alla storia di un popolo in cammino che ovviamente cresce anche con i nuovi venuti, con gli immigrati, con gli altri, che insieme con noi accrescono la nostra identità. La patria riservata a un’etnia, chiusa in e per un gruppo etnico, non può essere questo. Così è difficile immaginare un uomo più sorpreso di lui quando avrà sentito il presidente russo spiegare al mondo la sua idea di Russia, ferma ai tempi della conversione della Rus’. Sostenere che l’Ucraina non esista è una cosa, sostenere che possa esistere una Patria Grande è proprio altra cosa. Su questo punto è evidente a tutti la diversità tra Francesco e il patriarca russo Kirill. Quando il patriarca ecumenico di Costantinopoli ha riconosciuto l’autocefalia della Chiesa in Ucraina, a Mosca hanno tagliato le relazioni diplomatiche, le relazioni ecclesiali, arrivando allo scisma. Perché il patriarcato di Mosca è il patriarcato di tutte le Russie, indivisibili. Ma il silenzio del patriarcato moscovita negli anni dello sterminio staliniano dei kulaki ruppe per molti nel profondo quell’unità, e il patriarca di Costantinopoli lo ricordò. Se al patriarcato di Mosca avessero creduto nel tempo e non nello spazio avrebbero capito quella decisione come una dolorosa separazione che poteva avviare la nascita di quella Patria Grande che non è sottomissione, ma incontro rinnovato di due realtà che dopo il reciproco riconoscimento possono tornare a camminare insieme nella storia, cioè tornare a capirsi, perché ognuna ha compreso la sofferenza dell’altro.
Purtroppo non solo non è andata così, ma Mosca ha rotto le relazioni con tutte le Chiese sorelle che hanno riconosciuto la Chiesa in Ucraina, arrivando a creare in ogni parrocchia russa in Africa e altrove una sorta di distaccamento della Chiesa russa direttamente alle dipendenze del patriarca. Questa Chiesa non può occuparsi del territorio, ma dei fedeli, che dunque sono e restano russi ovunque si trovino nel mondo. Questa scelta si capisce solo usando l’espressione “Chiesa etnica”.
Siamo di tutta evidenza davanti a due visioni profondamente diverse. Ma per Francesco molto va contemperato con l’obiettivo principale, ricreare l’unità dei cristiani. Obiettivo di lungo termine, al quale ha lavorato fin dal primo giorno del suo pontificato, divenendo il primo pontefice della storia che ha partecipato a una commemorazione, luterana, di Lutero. Ma Francesco sa che nelle Chiese d’Oriente la tentazione delle Chiese etniche è diffusa per la storia del loro rapporto con il potere politico, per la loro dimensione nazionale e per certe eresie, come il filetismo, nato tanto tempo fa a Mosca sulla base di idee diffuse dal monaco Filete.
Quando il crollo dell’impero ottomano creò prospettive nuove in tutti i territori che furono del sultano, le difficoltà e i problemi diedero impulso a un’eresia ortodossa, il filetismo, più accuratamente etnofiletismo e che possiamo tradurre con il nostro vocabolo “tribalismo”. Si tratta del principio di nazionalità applicato in ambito ecclesiastico: è la fusione tra Chiesa e nazione. In questo probabilmente c’entra la storia ottomana, che accordava la protezione del Sultano alle sue minoranze religiose, i millet, vocabolo con cui purtroppo si tradusse la grande novità portata dai napoleonici, la “nazione”, vocabolo che lì non esisteva. Con il filetismo una Chiesa autocefala locale non si basa su un criterio locale, ma su un criterio nazionale o linguistico. Se l’impero ottomano ufficialmente finì con la Prima Guerra Mondiale, i suoi riassetti geografici cominciarono prima, nell’Ottocento. Per questo il santo sinodo pan-ortodosso del 1872 ha condannato il filetismo. Una Chiesa non può essere confusa con il destino di una nazione: «Denunciamo, censuriamo e condanniamo il filetismo, vale a dire, la discriminazione razziale e le dispute, rivalità e dissensi su basi nazionali nella Chiesa di Cristo come antitetico agli insegnamenti del Vangelo e ai sacri Canoni dei nostri beati Padri, che sostennero la santa Chiesa e, ordinando l’intera ecumene cristiana, guidandola alla pietà divina».
Dunque il momento per Francesco è delicatissimo. Lasciare Mosca alle sue pulsioni nazionaliste sarebbe un rinnegare il senso di un pontificato che non ha voltato le spalle a nessuno, non ha lasciato nessuno. Ma questa comprensione non può arrivare a contraddire i principi su cui si basa la sua visione di Europa, enunciata nel suo discorso di accettazione del premio Carlomagno: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”
Nelle ore della tempesta è sempre difficile mantenere equilibrio, è il grande sforzo a cui è chiamato un papa che non può abbandonare i russi né tradire Kiev.
Foto: Alberto Pizzoli / Pool / AFP.