Da Washington , capitale dell’America in rivolta, a Tel Aviv: piazze diverse, lontane migliaia di chilometri ma accanto per le istanze di libertà che le uniscono. Chi si batte contro l’oppressione, l’ingiustizia, l’apartheid, il dominio di una razza sull’altra, non è andato in quarantena. Ha sfidato il virus, la polizia in assetto antisommossa, per manifestare contro presidente suprematisti e primi ministri “annessionisti”. Uniti da un insopprimibile desiderio di libertà. Questo è stato il segno del grande raduno di sabato sera in Piazza Rabin, nel cuore di Tel Aviv: un raduno congiunto ebraico-arabo contro i piani israeliani di annessione degli insediamenti in Cisgiordania. La protesta era stata originariamente vietata dalla polizia a causa dei timori per il coronavirus, ma la polizia ha ceduto e ha rilasciato un permesso venerdì sera. Gli organizzatori hanno nominato circa 50 supervisori che hanno garantito il mantenimento delle norme sul coronavirus.
La libertà non si arresta
A unire le proteste che stanno segnando l’America dopo la brutale uccisione di George Floyd a Minneapolis, con il movimento contro l’annessione, è stato un anziano ma sempre battagliero senatore del Vermont. Un senatore di origine ebraica: Bernie Sanders.
L’ex candidato democratico alle presidenziali di novembre Sanders si è rivolto alla manifestazione in videoconferenza, esprimendo il suo sostegno ai manifestanti e la sua condanna dei piani di annessione di Israele. Sanders, visibilmente emozionato, ha detto di essere “rincuorato” nel vedere gli arabi e gli ebrei manifestare insieme.
“In questi giorni difficili… non è mai stato così importante difendere la giustizia e lottare per il futuro che tutti noi meritiamo”, ha affermato. “Sta a tutti noi resistere ai leader autoritari e costruire un futuro di pace per ogni palestinese e per ogni israeliano… Nelle parole del mio amico Ayman Odeh: L’unico futuro è un futuro condiviso”.
Alla protesta sono intervenuti anche alcuni politici israeliani.
Il capo dell’alleanza della Lista congiunta dei partiti a maggioranza araba, Ayman Odeh, ha detto alla folla: “Siamo a un bivio. Un percorso conduce a una società congiunta con una vera democrazia, un’uguaglianza civile e nazionale per i cittadini arabi … Il secondo sentiero porta all’odio, alla violenza, all’annessione e all’apartheid”, ha detto Odeh. “Siamo qui in piazza Rabin per scegliere la prima via”
“La democrazia non esiste solo per gli ebrei”, ha aggiunto Odeh. “Proprio come Martin Luther King e i suoi sostenitori negli Stati Uniti, dobbiamo renderci conto che senza giustizia non può esserci pace. E non ci sarà giustizia sociale se non mettiamo fine all’occupazione”, ha scandito tra gli applausi della folla.
A prendere la parola dal palco è stato anche il presidente di Meretz, (la sinistra pacifista israeliana) Nitzan Horowitz: “L’annessione è un crimine di guerra – ha affermato – Un crimine contro la pace, un crimine contro la democrazia, un crimine che ci costerà nel sangue”. Il leader del partito di sinistra ha anche criticato il ministro della Difesa Benny Gantz e i membri del centro-sinistra che si sono uniti al governo guidato da Netanyahu: “Siete partner a pieno titolo, state sostenendo e autorizzando questa tragedia.”
Tra gli altri relatori del raduno c’erano Muhammad Baraka, presidente del Comitato di monitoraggio arabo superiore in Israele, e i parlamentari Merav Michaeli, Tamar Zandberg e Ofer Cassif.
Uniti contro l’apartheid istituzionalizzato
Il direttore di Breaking the Silence, Avner Gvaryahu, ha fatto riferimento al piano di pace in Medio Oriente dell’amministrazione statunitense, dicendo che “Trump non sta mandando i suoi figli a guardia degli avamposti … I figli dei sostenitori dell’annessione americana non possono essere uccisi o uccisi nei territori, ma i nostri figli sì”.
Tegan, una diciassettenne venuta da Taibeh per protestare, ha detto che questa non è la sua prima manifestazione e che i giovani arabi cominciano ad arrivare più spesso a Tel Aviv per protestare.
“Protesto perché basta con tutto questo spargimento di sangue. Dobbiamo fare la pace tra ebrei e arabi adesso”, ha detto. “Basta con il razzismo, basta con gli omicidi, l’abbiamo superata. Bibi e Trump sono razzisti e io ho un po’, molto, paura di quello che succederà se ci sarà l’annessione. La settimana scorsa ero alla marcia delle donne e vogliamo dire ai politici che quando è troppo è troppo”.
Una protesta trasversale, che unisce storie e generazioni diverse. Simcha, un manifestante cinquantenne di Kfar Yona, dice: “Abbiamo votato per Gantz perché pensavamo che sarebbe stata un’alternativa e ci hanno tradito. Anche il lavoro”. Simcha ha aggiunto: “Siamo stanchi di ingraziarci il centro e sperare che portino un cambiamento. Possiamo solo opporci all’occupazione e sostenere la democrazia in un partenariato ebraico-arabo. La prossima volta voterò per la Joint List”.
Bernie, la speranza che unisce
A restare impresso nella mente e nei cuori dei tanti che hanno riempito Piazza Rabin, è stato soprattutto il videomessaggio di Sanders. Il senatore dem Sanders non ha atteso la deriva ultranazionalista della destra israeliana per assumere una posizione critica verso le politiche portate avanti dai passati e presenti governi a guida Likud, governi di cui Benjamin Netanyahu è stato a capo più e più volte. Ciò è avvenuto anche durante le primarie democratiche del 2016. La forza di questa posizione sta in un principio di fondo che l’ebreo Sanders ha sempre rispettato: si critica Israele per quel che fa, per le politiche colonizzatrici che i governanti portano avanti, ma mai per ciò che è, il focolare nazionale ebraico fattosi Stato nel 1948.
Quasi tutti negli Usa, perfino i più filo-israeliani alla Casa Bianca, come il consigliere-genero di The Donald, Jared Kushner, si dicono favorevoli a una soluzione “a due Stati”. Sanders però pone l’asticella un po’ più in alto e pone una questione che è ben conosciuta dai diplomatici americani: come è possibile realizzare questo assunto se chi governa Israele fa di tutto, sul campo, per rendere irrealizzabile questa soluzione? Perché uno Stato per essere davvero tale, e non una sorta di bantustan sudafricano in salsa mediorientale, deve avere un controllo totale e un’effettiva sovranità su tutto il suo territorio nazionale. Perché uno Stato indipendente deve poter contare su confini sicuri, sul controllo delle risorse idriche (l’oro bianco in Medio Oriente) presenti sul proprio territorio. Cose che, con la sua politica del fatto compiuto, Israele nega.
Di questo erano consapevoli sia Barack Obama sia Bill Clinton: consapevoli ma, nei fatti, inermi. Perché nonostante la condanna a parole, né l’uno né l’altro hanno mai esercitato pressioni vere nei confronti d’Israele, portando così acqua (cioè consensi) ai mulini di quanti, in campo israeliano come in quello arabo, hanno sempre lavorato per sabotare ogni compromesso, minare il dialogo e trasformare il negoziato in uno stanco rituale.
Sanders prova a rompere questo approccio, e nel farlo si dimostra un vero amico d’Israele, se per amico s’intende qualcuno che non avalla e copre ogni tua scelta, ma se la ritiene sbagliata e foriera di gravi conseguenza, prova a dirtelo e a convincerti che esiste un’altra strada, più sicura, per garantire la sicurezza dello Stato ebraico e il suo pieno inserimento nel contesto mediorientale.
Gran parte della famiglia allargata di Sanders morì nell’Olocausto. Tacciare un ebreo di antisemitismo è una impresa improba anche per i più ardimentosi falchi israeliani.
Sanders non è solo un ebreo ma per un lungo periodo del 1963 è stato anche un “kibbutznik” – vivendo e lavorando in un kibbutz in Israele – ma nel suo passato vi sono prese di posizioni vicine a Israele quando Israele si è trovato a dover fare i conti con l’aggressività militare araba e con una impressionante ondata di attacchi terroristici.
Altra cosa, però, è sostenere posizioni politiche e ideologiche che rimandano al disegno del “Grande Israele” o chiudere gli occhi di fronte al regime di apartheid che, nei fatti, si sta realizzando nella West Bank, o considerare chiusa la questione, cruciale, relativa allo status di Gerusalemme, o sdoganare, per calcoli elettorali, partiti apertamente razzisti che si rifanno alla dottrina “khahanista”.
Le critiche mosse da Sanders al “sovranismo” di Netanyahu, che ha portato il premier d’Israele a fare del suo omologo ungherese Viktor Orbán uno dei principali referenti in Europa, è l’altra faccia della critica che il senatore democratico rivolge alla politica estera dell’amministrazione Trump caratterizzata, per restare al Medio Oriente, con relazioni strettissime (potenza degli affari, soprattutto in armamenti) con i più brutali dittatori del Golfo, quelli che hanno fatto scempio dei diritti umani, riempiendo le carceri di oppositori o facendoli fuori brutalmente come è avvenuto per il dissidente e giornalista saudita Jamal Khashoggi.
Nel sostenere, con coerenza, la soluzione a “due Stati”, Bernie Sanders dimostra di essere un “sionista”, nell’accezione originaria del termine, quella della quale si erano fatti portatori i padri fondatori dello Stato d’Israele.
Riflette in proposito Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano: “Il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi e articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare” Considerazioni che Sanders ha fatto sue, anche nella sua netta opposizione al “Deal of the Century” di Donald Trump, ribadita con forza nel suo video intervento di sabato.
Ora sta al vincitore delle primarie democratiche, Joe Biden, raccogliere questo testimone. A sperarlo, a chiederlo, in nome di quei principi universali di libertà e giustizia per ogni popolo, è anche la piazza di Tel Aviv. La bella piazza d’Israele.
Foto: Jack Guez / AFP