Il fatto che uno dei conflitti più lunghi della storia contemporanea, da oltre 40mila morti, potrebbe presto concludersi è indubbiamente un evento da festeggiare. Il leader del PKK Abdullah Öcalan ha ordinato ai combattenti curdi del partito da lui fondato nel 1978 di porre fine alla lotta armata e sciogliere l’organizzazione. È la fine di un’era? È ancora presto per dirlo. Per il momento si tratta solo di dichiarazioni che fanno ben sperare o per meglio dire che alimentano la speranza che, dopo più di quattro decenni, si ponga fine al conflitto con la Turchia. Restano però molti interrogativi sull’avvio di una “nuova apertura curda” – dopo quella fallita del 2009-15 – che abbia al centro le questioni della democratizzazione, del rispetto dei diritti umani fondamentali, di eguali diritti di cittadinanza, del diritto alla lingua, alla cultura e a un’autonomia amministrativa per gli oltre 15 milioni di curdi turchi. Resta inoltre ancora incerto il futuro della politica curda in Siria e nella più ampia regione mediorientale.
Se però consideriamo che si è arrivati a questa “nuova apertura” con l’appello al disarmo di Öcalan perché il presidente Erdogan sta inseguendo il voto curdo in Parlamento per garantirsi un altro mandato presidenziale, svaniscono all’alba quella speranza e il sogno di gran parte della popolazione del sud-est anatolico, che ha festeggiato il messaggio-appello del suo leader carismatico.
Al momento Erdogan e il suo prezioso alleato ultranazionalista, Devlet Bahçeli, parlano solo della fine della lotta armata e dimostrano di avere ancora un approccio alla questione curda riduttivo e strumentale. Dal leader turco il problema curdo è visto come una questione di violenza e di sicurezza nazionale. Questa visione puramente securitaria deriva dal fatto che per Erdogan e il suo alleato Bahçeli, in Turchia non vi è alcuna questione curda, vi è solo un problema di armi e di violenza.
È certamente pregiudiziale che la violenza cessi, che le armi tacciano, che vengano deposte e che il partito armato si sciolga, ma per porre fine pacificamente all’annosa questione curda è necessario anche avviare una politica di democratizzazione del Paese. Finché la Turchia rimarrà autocratica, saranno vani e illusori gli sforzi per risolvere la questione. I maggiori partiti di opposizione in Turchia, il CHP e il DEM, sostengono che solo se turchi e curdi potranno vivere in un ambiente pienamente democratico e rispettoso dello stato di diritto, la questione curda potrà finalmente risolversi.
Intanto il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ha accolto positivamente l’appello di Öcalan per il disarmo e lo scioglimento dell’organizzazione armata, ma tuttavia è bene essere prudenti quando si analizzano le dichiarazioni provenienti da Qandil, nel nord Iraq, quartier generale dell’organizzazione armata curda. Spieghiamone il perché: il PKK ha per il momento annunciato solo un “cessate il fuoco” e, perdipiù, “condizionato”.
Dunque, pur sostenendo il messaggio del suo leader, in prigione dal 1999, non ha ancora dato seguito al disarmo, né tantomeno al suo scioglimento. Anzi, ha posto tre condizioni. La prima: un eventuale disarmo dovrà avvenire in un “ambiente democratico” giuridicamente e politicamente idoneo. Seconda: disarmo ed eventuale scioglimento dovranno essere decisi da un Congresso e Öcalan dovrà guidare il Congresso del PKK. La terza: deve essere garantita la piena libertà a Öcalan che gli consenta di comunicare senza restrizioni con i suoi compagni e con altri. Tutte cose, queste, molto difficili da ottenere.
Il PKK ha inoltre ripetutamente espresso la propria volontà di seguire gli ordini di Öcalan, sebbene i suoi massimi dirigenti abbiano insistito sulla necessità di poter comunicare direttamente con lui e abbiano sottolineato la necessità che la Turchia rispetti i diritti dei curdi.
Ma come potrà mai partecipare Öcalan a tutto questo se è in carcere, condannato all’ergastolo aggravato? Intanto sta già usufruendo di condizioni migliori detenzione con la fine del regime di isolamento. Tutto fa pensare che presto egli verrà trasferito dalla sua cella del carcere dell’isola-prigione di İmralı in un alloggio più grande sulla stessa isola, oppure che usufruirà della libertà condizionale, grazie alla legge del “Diritto alla speranza” prevista per gli ergastolani.
A una prima analisi dell’appello risultano alcune omissioni. Il 75enne capo ribelle curdo non fa alcun riferimento allo staterello costituitosi de facto e guidato dai curdi nel nord-est della Siria, dove è venerato come leader ideologico.
L’appello al disarmo e allo scioglimento dell’organizzazione armata riguarderebbe soltanto il PKK in Turchia, mentre la sua diramazione siriana, le Unità di protezione del popolo (YPG), ala armata del partito curdo-siriano di Unità democratica (PYD), e spina dorsale delle Forze democratiche siriane (SDF) non viene menzionata nel messaggio. Non a caso, il comandante delle SDF Mazlum Abdi (Kobani) afferma che l’appello di Öcalan al disarmo non ha nulla a che fare con il gruppo siriano.
Il leader del PYD, Salih Muslim, pur essendo d’accordo con la dichiarazione di Öcalan ha subito risposto che non vi sarebbe bisogno di armi se fosse permesso di percorrere la strada politica. “Se le ragioni per imbracciare le armi scomparissero, le abbandoneremmo”, ha precisato Muslim.
L’intero testo-appello di Öcalan può essere suddiviso in tre parti: le condizioni e le ragioni della fondazione del PKK; l’autocritica e la determinazione del “completamento della sua vita”; la decisione finale motivata.
Öcalan basa la giustificazione fondativa del PKK sull’esistenza dell’Unione Sovietica, che descrive come “socialismo reale”, che aveva influenza sulle organizzazioni di sinistra nel mondo e dava loro sostegno, sul clima della Guerra Fredda che vedeva Ankara schierata con il blocco occidentale al fianco degli Stati Uniti affinché la Turchia non cadesse nell’orbita sovietica. Ma anche sul divieto della lingua curda e sulla narrazione propagandistica di una Turchia che non riconosceva l’esistenza dei curdi con la riproposizione, durante i colpi di Stato militari del 1971 e del 1980, del sogno antico dei nazionalisti panturanici dei primordi della Repubblica di una “Turchia senza curdi”.
Dunque Öcalan qui fa autocritica con esplicito riferimento al movimento comunista e del socialismo reale che verso la fine degli anni ‘80 è uscito sconfitto dalla storia.
Egli descrive gli sviluppi dal crollo dei Soviet negli anni ‘90 e la presa di distanza del movimento curdo da quella ideologia. Contestualmente in Turchia la cultura curda incomincia a emergere dalla clandestinità con il presidente Turgut Özal, grazie alle sue, seppur tiepide, aperture, con la diffusione della musica e delle trasmissioni radiofoniche curde e poi con la creazione di un canale televisivo curdo su TRT durante l’era di Tayyip Erdoğan con la sua prima “apertura curda”, sostenuta anche dal processo di integrazione di Ankara nell’Unione Europea.
Öcalan ricorda che dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica il PKK ha smesso di battersi per l’indipendenza del Kurdistan. È dagli anni ‘90 che il PKK non è più un partito indipendentista, ma favorevole all’autonomia amministrativa. Pochi anni dopo Ocalan dal carcere sviluppa una piattaforma politico-sociale basata sul municipalismo libertario e sull’ecologia sociale, precedentemente teorizzate dal filosofo socialista libertario Murray Bookchin. Öcalan la descrive come “un’amministrazione politica non statale o una democrazia senza Stato”, o “confederalismo democratico”. Questo modello è stato adottato nel Rojava, regione autonoma de facto della Siria Settentrionale e nordorientale, amministrata dal Partito di unità democratica con la sua ala armata le Unità di protezione del popolo (YPG).
Nel 1993, pochi anni dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, fu avviato un primo processo di cessate il fuoco, interrotto dal “martirio” di 33 soldati semplici. Öcalan da allora si batte per un’autonomia amministrativa con la richiesta che il curdo sia lingua dell’istruzione obbligatoria nel sud-est anatolico a maggioranza curda e che siano introdotte “soluzioni culturaliste”.
Queste richieste hanno caratterizzato le rivendicazioni del PKK quasi per mezzo secolo con il metodo della lotta armata che adesso è considerata anacronistica dallo stesso Öcalan che accusa l’Occidente di aver tentato di incrinare negli ultimi 200 anni le relazioni curdo-turche, che “durano da più di mille anni”.
Questo di Öcalan sembra più un atto di resa per evitare che la questione curda sia completamente sepolta dalla storia. Il PKK è di fatto stato sconfitto militarmente dallo Stato turco: è quasi inesistente in Turchia o quantomeno fortemente isolato e indebolito. È stato sconfitto nel nord dell’Iraq dove il PKK ha i suoi nascondigli e il suo quartier generale e l’esercito turco ha installato più di cento postazioni, martellando quotidianamente la regione dal 2019 con attacchi con droni ed F-16.
Öcalan, in sostanza, come già è avvenuto in precedenti aperture, sta cogliendo l’opportunità di indicare una via di uscita per coloro che combattono ancora una guerra ormai persa. Di qui, l’invito a scendere dalle montagne e a deporre le armi perché la lotta armata è stata militarmente sconfitta.
L’occasione gliel’ha presentata ancora una volta Erdogan. Quest’ultima apertura curda infatti è stata avviata nell’ottobre 2024, paradossalmente dal partito più anti curdo della Turchia, presieduto da Devlet Bahçeli, leader ultranazionalista panturanico, prezioso partner della coalizione. Bahçeli si era storicamente opposto a qualsiasi concessione di diritto per i curdi. Si oppose strenuamente all’apertura curda del 2009-15 poi fallita.
Ora invece sembra tutt’altro personaggio politico, si dice spinto avanti da Erdoğan che su questo nuovo tentativo di apertura preferisce restare dietro le quinte per poter poi, in caso di successo, accreditarsene la paternità, e in caso di fallimento poter dire che lui non era d’accordo e che non l’ha mai sostenuta.
Ma perché il duo Bahçeli-Erdoğan sta perseguendo questa strategia di pacificazione con la componente curda?
Cosa spinge il leader turco ad avviare una nuova apertura curda dopo quella fallita nel 2015? Erdoğan a Costituzione vigente non potrà candidarsi alle prossime elezioni presidenziali per l’attuale vincolo dei due mandati. Dunque il presidente turco intende cambiare la Costituzione per assicurarsi un terzo mandato, ma non ha la maggioranza qualificata per farlo e dunque è alla ricerca di un allargamento della maggioranza parlamentare per poter realizzare questa riforma. La maggioranza può essere allargata solo puntando al gruppo dei parlamentari curdi che sono di numero sufficiente per far sì che si raggiunga la maggioranza dei tre quarti necessaria. Il resto dell’opposizione, in particolare quella del maggior partito CHP, non ha alcuna intenzione di sostenere una tale riforma, anzi si batte per abrogare il presidenzialismo dell’uomo solo al comando e per rafforzare il sistema parlamentare con la reintroduzione della figura del primo ministro.
Dunque l’unica possibilità per il presidente turco è attrarre il voto curdo, per questo sia Erdoğan che il suo prezioso alleato ultranazionalista hanno proposto una nuova apertura curda, che consiste nel concedere la libertà ad Abdullah Öcalan, avvalendosi della legge sul “diritto alla speranza” per gli ergastolani.
Ma il “processo di pace curdo”, come è inteso da milioni di curdi del Paese dovrebbe comprendere l’accoglimento delle loro principali richieste democratiche, come il diritto alla lingua e alla loro cultura, oltre che a una autonomia amministrativa. Ciò non sembra però essere proprio quello che hanno in mente il duo Erdoğan-Bahçeli. Il loro obiettivo è assicurarsi il sostegno del partito filocurdo in Parlamento per mantenere Erdoğan al potere.
Per raggiungere questo obiettivo, il leader turco sembra disposto a fare alcune concessioni come quella della liberazione di Öcalan e l’interruzione della pratica della nomina dei fiduciari nei comuni amministrati dai curdi con la rimozione dei sindaci eletti democraticamente. Queste condizioni potrebbero essere importanti per una parte dei sostenitori del partito filocurdo, cioè quella più ideologizzata e vicina a Öcalan. Non è abbastanza per risolvere pacificamente e definitivamente il problema curdo.
Una domanda ricorrente in queste ore è se il governo possa essere sincero riguardo alla pace quando sta continuando ad arrestare in massa politici e attivisti curdi e a defenestrare sindaci curdi eletti democraticamente.
Alcuni militanti curdi potrebbero scegliere di fondersi nel braccio armato iraniano del PKK, il PEJAK, il Partito per una vita libera del Kurdistan iraniano, piuttosto che rinunciare alla lotta armata. A differenza dell’Iraq e della Siria, l’Iran non ha preso parte ai negoziati tra il PKK e lo Stato turco. E ora vi è il timore che si formi un’alleanza curda-iraniana in funzione anti turca.
Erdogan sta tentando qualcosa di epocale che non solo mira a porre fine a 41 anni di violenza insurrezionale all’interno della Turchia, ma che prevede anche un cambiamento ambizioso in tutta la regione.
In patria, ciò potrebbe far guadagnare al presidente il sostegno curdo di cui ha bisogno per apportare modifiche costituzionali che gli consentirebbero forse di essere presidente a vita.
Oltre i confini turchi, il porre fine al conflitto con i curdi che sono distribuiti in quattro nazioni, Iraq, Iran, Siria e Turchia, libererebbe la Ankara e il suo esercito da un enorme fardello. Se i curdi nella vicina Siria seguissero l’esempio, ciò avrebbe il potenziale per placare un conflitto regionale di lunga data e aiutare a stabilizzare un governo alleato e in erba a Damasco guidato da al-Sharaa.
Si tratta dunque di un appello storico la cui tempistica è stata determinata anche dalle pressioni geopolitiche che si stanno accumulando nel vicinato della Turchia e che creano un senso di insicurezza sia per i turchi che per i curdi. L’inizio caotico dell’amministrazione Trump, la sua intenzione di ritirarsi completamente dal Medio Oriente e l’incertezza sul futuro della Siria sembrano aver reso urgente per Ankara la necessità di consolidare il fronte interno. Non c’è modo migliore per farlo che un accordo con i curdi.
Immagine di copertina: la foto di una manifestazione per il Kurdistan a Roma, il 15 febbraio 2025. Sulle bandiere il ritratto di Ocalan. (Foto di Andrea Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)