La portata del cessate-il fuoco raggiunto in Libia, il ruolo dell’Italia in una partita ancora aperta e che vede impegnati diversi player esterni. Parte da qui l’intervista concessa a Reset dal generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, e prim’ancora dell’Aeronautica militare, consigliere scientifico dello Iai (Istituto affari internazionali), tra i più autorevoli analisti di geopolitica e strategia militare europei, ed oggi uno dei promotori di Azione di Carlo Calenda, responsabile del partito per sicurezza e difesa.
Il presidente del Governo di accordo nazionale libico (Gna) Fayez al-Sarraj, e il presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, hanno annunciato “un cessate il fuoco su tutto il territorio libico” e la ripresa del processo politico che “porti a nuove elezioni a marzo”. Generale Camporini, come va letto questo annuncio e si può davvero parlare di una svolta stabilizzatrice in Libia?
In questo gioco sembra che non ci sia Khalifa Haftar, colui che veniva considerato l’uomo forte della Cirenaica. Si tratta di un accordo politico, tra due personalità politiche, uno dell’Est e uno dell’Ovest. In quanto tale, costituisce, se vogliamo, una novità, quanto meno rispetto alla situazione di belligeranza scatenata dall’attacco di Haftar dell’anno scorso. Cosa può significare? Può significare che, constatata l’impossibilità di una soluzione militare, le due parti cerchino una qualche forma di convergenza che in qualche modo possa garantire quanto meno lo sfruttamento pacifico delle risorse straordinarie di quel territorio. È certamente una situazione che presenta degli aspetti di novità; non dimentichiamo, però, che le dichiarazioni dei due personaggi, al-Sarraj e Saleh, sono dichiarazioni abbastanza difformi, al di là della volontà di stabilire un collegamento, ma qualcuno parla di elezioni mentre qualcun altro non ne parla. Da questo punto di vista, non è stato raggiunto un accordo, è un inizio di dialogo.
Nella partita libica gli attori esterni sono tanti e fino a ieri sembravano avere interessi conflittuali. Tutto questo è alle spalle?
No, non è alle spalle, però dobbiamo fare delle distinzioni tra questi attori esterni. Ci sono alcuni che sono i protagonisti principali, e mi riferisco all’Egitto e alla Turchia, e ci sono altri comprimari che hanno cercato e stanno cercando di sfruttare la situazione conflittuale in Libia per motivi di politica di piccolo cabotaggio o comunque non vitali, mentre per Turchia ed Egitto stiamo parlando di qualcosa considerato dai rispettivi capi come vitale. L’Egitto ha bisogno di una sorta di protezione antimurale per il suo porosissimo confine occidentale, e la Cirenaica come stato satellite, o considerato tale, può costituire per al-Sisi un baluardo che lo tranquillizza. D’altra parte, la Turchia ha ambizioni neo-ottomane che si possono sostanziare in un ruolo determinante in quella Libia che le fu strappata dalla guerra italo-libica del 1911. Gli altri, ripeto, sono comprimari: la Russia sta cercando di mostrare una sua capacità negoziale che possa in qualche modo soddisfare le sue ambizioni di grande potenza, ma certo la Libia non è per Mosca un interesse essenziale. La Francia ha le sue ambizioni ben note e che purtroppo nel 2011 ci hanno portato alla sciagura di questa operazione, ma anche qui non stiamo parlando di qualcosa che dia stabilità al Paese, tutti gli altri sono Paesi che in qualche modo cercano di trarre qualche piccolo vantaggio politico dalla situazione ma non sono quelli che dirigono la scena.
Come Stato, la Libia è stata una invenzione di Muammar Gheddafi. In una realtà nella quale hanno ancora un potere fortissimo tribù e milizie locali, è praticabile l’obiettivo di porre fine a questo caos armato mantenendo in piedi uno Stato unico in Libia?
Innanzitutto, la Libia è stata, se vogliamo, una invenzione italiana: negli anni ’30 vennero unificate le due aree, la Tripolitania e la Cirenaica. Si tratta certamente di una creazione statuale artificiale, perché stiamo parlando di un territorio vastissimo, scarsamente abitato, e abitato da comunità che si sentono estranee l’una dall’altra, per motivi tribali, di municipalità, di appartenenza religiosa, non dimentichiamoci le confraternite che costituiscono un’altra delle realtà fondanti della società libica. Tenere insieme tutto questo coacervo di realtà è una volontà occidentale per avere un dialogo più facile e una politica più lineare. Ma è certo qualcosa che non è nella natura delle cose. Speriamo che comunque si trovino delle aggregazioni la cui forma necessariamente dovrà essere scelta dai libici. Questo credo sia un punto fondamentale: tutte le imposizioni dall’esterno sono state in qualche modo o rifiutate o comunque non accettate. Guardiamo anche il governo di al-Sarraj, che è stato una imposizione esterna delle Nazioni Unite, che ha molto faticato per trovare un minimo di solidità, ammesso che l’abbia trovata. Dobbiamo mettere i libici in condizione di sedersi tutti intorno a un tavolo e trovare quella soluzione politica che in qualche modo garantisca la gestibilità di questo territorio, con tutte le sue risorse che costituiscono, non dimentichiamolo, un grande patrimonio. Se uno fa un conto matematico della disponibilità di risorse energetiche e quindi finanziarie diviso il numero degli abitanti della Libia, i libici hanno un Pil potenziale pro capite più alto della Svezia. Purtroppo questo non si è fin qui tradotto in un benessere realizzato, anzi al contrario. È quindi necessario determinare una qualche forma di stabilizzazione politica al fine di mettere a disposizione delle popolazioni libiche le risorse energetiche e quindi finanziarie che sono molto alte. È un problema serio, in cui le interferenze esterne possono agire in modo divisivo e non convergente.
In questa complessa, e tutt’altro che conclusa, partita libica, quale ruolo ha giocato e sta giocando l’Italia?
Purtroppo l’Italia tutta presa dalle problematiche interne, non sta dando alla politica internazionale la necessaria attenzione. È un vizio antico degli italiani considerare con una certa indifferenza quello che accade fuori dalle nostre frontiere. Negli ultimi due anni la cosa si è acuita in modo assolutamente intollerabile, noi siamo praticamente usciti da qualsiasi tipo di gioco e la posizione di Roma non è considerata rilevante per la soluzione delle controversie internazionali anche nel quadrante vitale per noi come è quello del Mediterraneo. Potremmo chiaramente fare un cambio di passo, ma una volta che si è usciti da un “club”, rientrarci non è così facile, richiede uno sforzo determinato e una saggezza politica, un’abilità politica, che purtroppo i nostri governanti di oggi non hanno dimostrato. A proposito di questo, sembra che l’unica preoccupazione di coloro che governano il nostro Paese, ma non parlo solo dell’attuale Governo, sia quella di contenere i flussi migratori.
Questo è stato testimoniato recentemente dal rifinanziamento della controversa, per usare un eufemismo, Guardia costiera libica ma anche dall’approccio che Roma sta avendo alla grave crisi tunisina. Ma può bastare una visione essenzialmente “securista” per far fronte a quella che non è più una emergenza, il fenomeno migratorio, ma un dato strutturale con cui fare i conti?
Assolutamente no, non basta per niente. È un approccio molto miope, minimalista, le situazioni di politica sono situazioni tutte multidimensionali, muoversi soltanto in una di queste dimensioni vuol dire sprecare risorse, sprecare energie senza avere alcuna possibilità di ottenere il possibile risultato voluto. Bisogna avere un approccio molto più ampio, coordinato, duraturo nel tempo, cosa che purtroppo a noi manca. Ciò si evidenzia anche in altre situazioni nel Mediterraneo…
A cosa si riferisce, generale Camporini?
Quello che è accaduto in Libano è un fatto molto serio, molto importante. Non dimentichiamoci che in Libano noi abbiamo oggi mille soldati, ragazze e ragazzi, che vigilano sugli accadimenti a cavallo tra il Libano e Israele: non possiamo disinteressarci di quello che accade in Libano e non possiamo lasciare che la scena sia sempre occupata, con un’ansia di protagonismo, dalla Francia. La reazione di Macron al devastante “incidente” del 4 agosto scorso nel porto di Beirut è stata una reazione immediata, molto efficace e che comunque garantisce alla Francia un ruolo di primo piano nella evoluzione politica libanese. Noi abbiamo interessi altrettanto forti – citavo la questione del nostro contingente in Unifil, ma anche dal punto di vista energetico ed economico abbiamo i nostri interessi nell’area – ma ci siamo limitati a mandare qualche aiuto umanitario, certamente non in modo da fare politica. Non è così che garantiamo il ruolo dell’Italia e gli interessi dei cittadini e delle imprese italiane nell’area nel futuro. A proposito degli interessi italiani e sulle incertezze del futuro. Dopo la sconfitta dell’Isis in Siria e in Iraq, qualcuno, a partire dal presidente Usa Donald Trump, ha parlato di una guerra allo Stato islamico vinta al 100%. Ora si scopre che il jihadismo, in tutte le sue variegate articolazioni, si è radicato fortemente in Africa, occupando terre di nessuno ma anche Stati falliti, come la Somalia, il Niger solo per fare degli esempi. Insomma, non è stato un errore abbassare la guardia?
Abbassare la guardia è sempre un errore, le dinamiche delle relazioni interpersonali, interstatuali, internazionali sono molto complesse e non trovano una sistemazione una volta per tutte. La guardia non deve essere abbassata mai; stiamo peraltro parlando di un fenomeno di estremismo che ha radici religiose, ma non solo religiose, ha radici economiche, radici strutturali ed è una cosa che non si risolve con una campagna militare, per quanto sia una campagna di successo dal punto di vista delle operazioni sul terreno.
In precedenza lei ha fatto rifermento al ruolo della Francia in Libano ma anche nella stessa Libia. In questo scenario, guardando soprattutto alle frontiere Sud, l’Europa esiste come soggetto politico nel Mediterraneo?
Purtroppo l’Europa non esiste come soggetto politico. L’Europa ha certamente un ruolo dal punto di vista economico per le sue potenzialità in questo campo, ma dal punto di vista politico non ha mai elaborato una politica comune. Qualche tentativo venne fatto all’epoca di Solana, tentativi che poi abortirono in modo drammatico, la Mogherini ci ha provato in qualche settore, ma non abbiamo certamente un “Libro bianco” della politica estera dell’Unione condiviso da tutti gli Stati membri che possa in qualche modo dare delle indicazioni su come operare in modo sinergico da parte di tutti. Ognuno gioca la partita per sé, ci sono quelli più attivi, come i francesi, e quelli completamente passivi come gli italiani.
Quando in precedenza lei ha passato in rassegna gli attori esterni della partita libica, non ha incluso gli Stati Uniti. Questa assenza di protagonismo degli Usa in una parte così importante e nevralgica del mondo è un connotato solo della presidenza Trump, che potrebbe essere superato da una eventuale vittoria di Joe Biden nelle elezioni presidenziali di novembre, oppure il guardare degli Stati Uniti verso l’Estremo Oriente è una scelta irreversibile, a prescindere da chi siederà nello Studio Ovale?
Diciamo che Trump ha estremizzato e reso molto caotico un approccio che comunque era già presente nelle precedenti presidenze. Io ricordo che quando ci fu la crisi nei Balcani occidentali negli anni ’90, gli Stati Uniti non volevano assolutamente essere coinvolti e vennero trascinati dagli europei che non sapevano che pesci pigliare. La tendenza è una tendenza di lungo periodo, ma le modalità con cui questa politica è stata portata avanti da Trump sono estremizzanti e caotiche nel senso che non si intravvede un trend definito: c’è qualche intervento estemporaneo di tanto in tanto, c’è qualche fiammata che però non aiuta a definire un trend di sviluppo che è necessario per trovare una stabilità indispensabile al benessere di questi Paesi e anche al nostro.
Se uno fa un elenco degli attori protagonisti su alcuni degli scenari più caldi del mondo, da Putin ad Erdogan ad al-Sisi etc., l’impressione che si ha è che gli attori fondamentali siano tutti fuori dall’orizzonte delle democrazie occidentali. Questo è il tempo degli autocrati?
Non la metterei giù in questi termini. Nel senso che le democrazie hanno i loro tempi che sono certamente più lunghi di quelli degli autocrati. C’è da dire, però, che una volta prese le posizioni è molto più coerente il comportamento delle democrazie rispetto a quello degli autocrati che possono cambiare idea dall’oggi al domani. Io credo che dobbiamo aiutare questo tipo di approccio democratico, favorendo il dibattito, esaminando i problemi in modo razionale, è uno sforzo che dobbiamo fare tutti quanti, ma è uno sforzo che purtroppo non vedo da parte di chi sta in campo.
Foto: Etienne Laurent / POOL / AFP
Uno scappato di casa non sa fare di più. E gli fanno fare il Ministro degli esteri del Paese.
Non sarebbe ora di aprire un dibattito nazionale sul nostro passato coloniale in Libia per essere piu credibili nellla difesa della legittimita democratica dei nostri interessi nazionali nel Mediterraneo di oggi ?
Qualche giorno fa era il quarto anniversario dell’iniziativa europea per la formazione di un esercito e di una difesa europei che noi abbiamo disertato. Una pazzia! Spero che il nostro aventinismo sia stato superato.
Ma nessuno ne parla…
Visione lucida e formativa. Peccato che in Italia la politica estera non interessi a nessuno, in particolare alla politica ed ai media. Ad eccezione dei quaderni di Limes e a qualche resoconto molto specifico di “eroi” , per il resto è il nulla. Oggi con Di Maio appare ancora più evidente questo disinteresse, frutto anche di una cristallina incapacità individuale e collettiva. Brutti tempi in cui viviamo. Speriamo che Azione occupi tutti questi spazi liberi e dia speranza.