Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il 4 novembre 1995, a Tel Aviv, nella centralissima Piazza dei Re d’Israele una folla imponente assiste a una manifestazione in cui parlerà anzitutto il premier Yitzhak Rabin. Leader storico del laburismo israeliano, nato nel 1922 a Gerusalemme, di formazione “agricolo-militare”, Rabin da giovane è stato tra i fondatori del Palmach (gli speciali reparti d’assalto israeliani, importanti nella guerra del ’48- ’49), e nel ’48 ha comandato la brigata Harel, entrata da trionfatrice a Gerusalemme. Nel ’67, come capo di Stato maggiore della Difesa, con Moshe Dayan è stato tra gli artefici della vittoria: lasciando l’esercito l’anno dopo, e divenendo in seguito ambasciatore negli USA.
Dal ’74 al ’77, subito dopo Golda Meir, Rabin è già stato premier (decidendo, nel ’76, il celebre blitz antiterroristico di Entebbe): dimettendosi poi, nel ’77, per solidarietà con la moglie, risultata intestataria – contro le norme valutarie del tempo – d’un conto corrente bancario in USA. Poi, dal ’92 nuovamente a capo del Governo israeliano, Yitzhak Rabin, insieme al ministro degli Esteri Shimon Peres, ha avviato lo storico processo di pace con l’ OLP di Yasser Arafat, firmando gli accordi di Oslo (’92) e Washington (13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca): coi quali Israele ha riconosciuto l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese, e s’è impegnato ad avviare concrete trattative per la soluzione del conflitto mediorientale, considerando come un’unica entità politico-territoriale le due aree della Cisgiordania e di Gaza. In cambio, il leader dell’ OLP s’è impegnato a rinunciare alla violenza come mezzo di lotta politica, ha riconosciuto lo Stato d’Israele, col suo legittimo diritto ad esistere, e ha promesso la modifica di quelle clausole della Carta nazionale palestinese (in parte già corretta al vertice arabo di Algeri dell’88) che pongono l’obbiettivo della distruzione d’Israele.
Tra le centomila persone circa che quel 4 novembre 1995 gremiscono la piazza di Tel Aviv (dove forte è la presenza della polizia, nel timore di possibili attacchi terroristici arabi), molti, però, son gli oppositori del processo di pace avviato tre anni prima ad Oslo: seguaci sia del Likud, lo storico partito d’opposizione conservatrice emerso con le elezioni politiche del ’77, che dei tanti gruppi dell’ebraismo radicale, espressione sia dei coloni oltranzisti viventi nei Territori occupati che delle consistenti aree di giudaismo ultraconservatore, e ferocemente contrario a qualsiasi accordo con gli arabi, alla cessione anche d’un solo centimetro quadrato di quella terra che, secondo la Torah, Dio stesso ha donato ad Israele. Gruppi come il partito nazional-religioso “Kach” ( “Così”), fondato nel ’73 dal rabbino estremista americano Meir Kahane (assassinato a New York, nel 1990, da non meglio precisati islamisti radicali egiziani), e messo fuorilegge in Israele nel 1994, dopo la strage compiuta da Baruch Goldstein, medico suo seguace, a Hebron (29 fedeli musulmani assassinati in una moschea). Che non perdonano, a Rabin e all’altro leader laburista Peres, ministro degli Esteri (ambedue insigniti, insieme a Yasser Arafat, del Nobel per la Pace 1994), gli accordi di Oslo I e II per un graduale trasferimento di poteri all’amministrazione palestinese in vaste zone della Cisgiordania e di Gaza, la firma dell’ epocale Dichiarazione di Washington, la conclusione nel ‘94 – dopo quasi cinquant’anni di guerra – d’un trattato di pace con la Giordania di re Hussein, e i negoziati per un analogo accordo con la Siria di Assad. Gruppi che non solo le forze dell’ordine sino ad allora han sottovalutato, ma che- come emergerà in seguito – dispongono di forti coperture, e di vere e proprie infiltrazioni, nella polizia e negli stessi servizi segreti.
E in effetti, il clima che in quei giorni si respira nelle aree della società israeliana più legate alle frange estremiste ricorda, “mutatis mutandis”, quello della Dallas del novembre 1963: col quotidiano cittadino che, quel tragico 22 novembre, esce addirittura con la prima pagina dominata da un criminale “prenecrologio” del presidente Kennedy (che sarà, infatti, assassinato poche ore dopo). Un anno prima, Ariel Sharon, con Bibi Netanyahu tra i principali leader del Likud, in un discorso ha paragonato addirittura Rabin ad Adolf Eichmann; mentre circolano, in quei giorni, fotomontaggi di Rabin e Peres in uniforme nazista (1).
Ciononostante, la manifestazione – che i laburisti e due organizzazioni pacifiste israeliane hanno indetto appunto per disperdere questo clima – si rivela un tonico insperato per il governo e il processo di pace nel suo complesso: parlano sia Rabin che Peres, ambedue sul palco. Alla fine, mentre la marea umana sta defluendo, e gli oratori raggiungono un posteggio presidiato dalla polizia, Ygal Amir, uno sconosciuto ventisettenne, studente di legge di Bar Ilan, l’università religiosa israeliana, supera di corsa due guardie del corpo e spara rapidamente tre colpi contro il premier israeliano. Rabin, colpito alla schiena da due proiettili, viene spinto in macchina e trasportato di corsa all’ospedale Ichilov, dove morirà dopo pochi minuti. Catturato sul posto, Amir nell’interrogatorio dichiarerà d’aver voluto fermare il processo di pace e impedire la cessione di parte del territorio israeliano: figlio di genitori ebrei yemeniti ortodossi e cresciuto in scuole ultraortodosse, il giovane ha fatto il militare nella brigata di fanteria “Golani”, ed è un attivista del movimento proinsediamenti nei Territori occupati.
Il trauma che il Paese subisce è grave, e forti l’impressione e lo sdegno suscitati in molti Paesi amici d’Israele e fra gli stessi arabi, palestinesi anzitutto. “Yitzhak Rabin”, ricorda oggi, vent’anni dopo quel 4 novembre, Salameh Ashour, presidente della comunità palestinese di Roma e del Lazio, “aveva cercato di trasformare Israele in una potenza di pace , e il suo assassinio, insieme alla successiva ascesa della destra israeliana , è stato determinante nel fare incagliare il processo di pace in Medio Oriente”.
Mentre – come già per Abraham Lincoln, Mohandas Gandhi, Malcolm X, John e Robert Kennedy – ci si domanda come abbia fatto un killer sconosciuto, un “Signor Nessuno” forse, però, strumento di qualcosa di ben più grande, a penetrare tra le maglie d’un sistema di sicurezza, se non imponente, comunque ritenuto all’altezza delle possibili situazioni di pericolo: sino ad uccidere indisturbato un leader di tale portata. Forti sono i sospetti che il killer di Rabin abbia goduto di forti connivenze nell’apparato statale e negli stessi servizi segreti: sospetti che i lavori della Commissione Shamgar (dal nome del presidente della Corte Suprema d‘Israele), creata tempo dopo per indagare sul vero e proprio collasso operativo del sistema di sicurezza verificatosi quel 4 novembre (ma non, incredibilmente, su moventi e retroscena dell’assassinio del premier), non contribuiranno certo a disperdere. Emergeranno, anzi (proprio come per Lincoln, Malcolm X, e il premier svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma un decennio prima di Rabin), se non complicità, negligenze incredibili. “Era d’uso che l’auto di Rabin avesse una via di fuga dalle occasioni pubbliche: quella volta”, racconterà alla Commissione l’autista del premier ucciso, “non ci fu alcun piano d’emergenza; per la polizia lo studente agì da solo; il responsabile della sicurezza nella piazza, in cui “si aprirono dei varchi” e si spararono tre colpi di rivoltella, contro la prassi ebbe l’incarico all’ultimo momento. E soprattutto il consulente legale del governo archiviò per insufficienza di prove il ruolo dei fanatici religiosi”, che avevano additato Rabin come “nemico del popolo”(2).
La Commissione – che, oltre all’autista di Rabin, interrogherà i suoi bodyguard, gli ufficiali di polizia e i medici dell’ospedale presenti quel giorno, in tutto 72 testimoni – accerterà, ad ogni modo, le divisioni interne, in vari gruppi di potere, dei corpi di sicurezza, e le loro connessioni con elementi di estrema destra. Mentre Ygal Amir sarà processato per omicidio e condannato all’ergastolo ( tra quattro-cinque anni”, però, come ricordato ultimanente dal regista israeliano controcorrente Amos Gitai, autore del film d’inchiesta “Rabin, the last day”, presente alla Mostra del Cinema di Venezia 2015, uscirà di prigione). E suo fratello Haggai e due amici intimi, Dror Adani e Margalit Har-Sefi, processati e condannati a pene detentive più miti (i primi due per cospirazione; il terzo per non aver denunciato i progetti del killer, uso peraltro – come già Lee Harvey Oswald , assassino di JFK – a vantarsi con gli amici dei suoi piani omicidi). Altre persone legate ad Amir (compagni d’università, attivisti degli insediamenti e rabbini, uno dei quali pubblicamente dichiaratosi accordo con l’omicidio del premier) saranno interrogate, ma non rinviate a giudizio; mentre la destra griderà alla ”caccia alle streghe”, negando la partecipazione di Amir a qualsiasi complotto (salvo poi riprendere la teoria del complotto tempo dopo, per possibile senso di colpa e sulla spinta dell’opinione pubblica).
Shimon Peres, naturale successore di Rabin alla guida del governo, con le nuove elezioni politiche all’orizzonte del nuovo anno 1996, timoroso d’inimicarsi l’opinione moderata, lascerà la conduzione delle indagini a una dimensione di pura routine. Nel maggio successivo, comunque, considerando non solo gli elettori ebrei, ma tutti gli elettori israeliani, il vantaggio del conservatore Netanyahu, nuovo astro nascente della politica israeliana, sui laburisti sarà di soli 29.500 voti. Se Peres avesse mostrato più coraggio politico, e, imitando la scelta fatta – “mutatis mutandis” – da De Gaulle, dopo il caos del Maggio ’68, di sciogliere anticipatamente le Camere (scelta premiata, infatti, da un vero trionfo elettorale), avesse deciso per elezioni immediate, sull’onda della commozione collettiva per l’assassinio di Rabin (un po’ come undici anni prima, in Italia, per l'”effetto Berlinguer” alle elezioni europee del giugno ’84) avrebbe sicuramente stravinto.
Oggi, a vent’anni dall’omicidio Rabin, anche il più superficiale degli osservatori non può non vedere quanto questo delitto ha pesato, negativamente, sulla successiva evoluzione (o meglio, involuzione) del conflitto mediorientale. Senza voler esagerare il ruolo dei leader carismatici nella storia, è evidente che la permanenza di Yitzhak Rabin in vita e, per altri anni ancora, alla guida del Governo d’Israele avrebbe continuato a dare forte impulso al processo di pace: cosa che i suoi successori laburisti – da Peres a Ehud Barak, l’uomo del fallito vertice con Arafat a Camp David, nell’estate del 2000 – per la verità han provato a fare, ma certo non con la stessa energia.
Molto probabilmente Rabin – che alle trattative di pace con palestinesi, giordani e siriani aveva dedicato lo stesso impegno e la stessa tenacia impiegati, un quindicennio prima, da Menachem Begin con gli egiziani – non sarebbe riuscito ad impedire la deriva a destra, sui binari nazionalistico-religiosi, della società israeliana iniziata negli stessi anni del suo premierato. Proprio nel ’94- ’95 Bibi Netanyahu, nuovo leader del Likud insieme al “provocatore” Ariel Sharon (uomo, però, enormemente più intelligente e lungimirante), nei suoi comizi iniziava a ripetere ossessivamente il ritornello della sicurezza nazionale, con cui avrebbe vinto le elezioni del 1996, le prime del dopo Rabin, inaugurando quel ventennio “thatcheriano” di prevalenza della destra israeliana (salvo brevi ritorni al potere dei laburisti) che dura tuttora. Però, con Rabin ancora in sella, le due parti del conflitto mediorientale avrebbero iniziato almeno a delineare quella serie di accordi integrativi di Oslo e di Washington (su questioni essenziali come delimitazione dei confini israeliano-palestinesi, destino di Gerusalemme, ritorno dei profughi palestinesi, insediamenti israeliani nella Westbank, controllo delle acque in Cisgiordania) la cui mancanza, invece, insieme al simmetrico scivolamento integralista di ambedue le parti (dai fanatici ultraortodossi israeliani a Hamas), e al generale deterioramento degli equilibri mondiali dopo lo storico 1989 e l’11 settembre 2001, ha causato il progressivo incancrenirsi della situazione mediorientale. Con conseguenze devastanti per il processo di pace in Medio Oriente, la vita quotidiana di milioni di persone, e buona parte degli equilibri mondiali.
—
(1) Le due circostanze sono ricordate da storici come Benny Morris e Claudio Vercelli, rispettivamente nei due ampi saggi “Vittime- Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001” ( Milano, Rizzoli, 2001) e “Israele-Storia dello Stato…”, Firenze, Giuntina, 2007, alle pp. 787 e 379.
(2) VALERIO CAPPELLI, “Nel film sull’inchiesta Rabin accuse ai comizi di Netanyahu”, “Il Corriere della Sera”, Milano, 8 settembre 2015.
Vai a www.resetdoc.org