Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nonostante i soldi, le armi, il sostegno logistico e di intelligence degli Stati Uniti e una massiccia campagna di bombardamenti, la guerra in Yemen è diventata un pantano per l’Arabia Saudita che, in nove mesi di intervento militare alla guida di una coalizione di dieci Paesi arabi sunniti (a eccezione della Mauritania), non è riuscita a sistemare le cose (cioè a consolidare al potere il presidente-amico Abdrabbuh Mansour Hadi) in quello che considera il suo giardino di casa. Il 15 dicembre si torna in Svizzera per un nuovo round di colloqui, finora inconcludenti, e Riad probabilmente cercherà di trovare la strada per una via d’uscita onorevole dal conflitto.
Dopo un tentativo fallito a giugno, l’inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, ha annunciato all’inizio della settimana che il negoziato riprenderà a metà mese e sarà accompagnato da sette giorni di cessate-il-fuoco, su cui pare tutti siano d’accordo e che potrebbe essere prolungato. Al tavolo siederanno tre delegazioni: i rappresentati del governo di Hadi, sostenuto dalla coalizione a guida saudita, quelli dei ribelli sciiti Ansarullah, comunemente conosciuti come Houthi, legati all’Iran, e i loro alleati del General People’s Congress, il partito dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, deposto, con lo zampino di Riad, in seguito alle proteste della cosiddetta primavera yemenita del 2011.
La Casa reale wahhabita deve destreggiarsi tra le rivalità in seno alla famiglia, i sudditi restii a far scorrere il sangue dei propri figli in terra yemenita e gli alleati sempre più nervosi, sia per il deludente esito della campagna militare condotta dai sauditi, con il loro beneplacito e le loro armi, sia per le crescenti critiche a una strategia bellica che da marzo ha fatto oltre 5.400 morti, ha ridotto allo stremo la popolazione civile e non ha risparmiato obiettivi non militari, come nel caso del recente raid su un ospedale di Medici senza Frontiere. Intanto, per il principale nemico che l’Arabia Saudita sta combattendo in Yemen (e anche in Siria), cioè l’Iran, l’inconcludente campagna militare della coalizione dimostra che la monarchia del Golfo non è poi un rivale così formidabile come molti credono.
Al Qaeda e Isis si espandono al sud
Il Washington Post ha paragonato lo Yemen a un Vietnam per Riad. Gli Houthi mantengono il controllo di gran parte del nord del Paese, mentre il sud “liberato” dalla coalizione è nel caos. Dopo la cacciata dei ribelli, a luglio, nelle zone meridionali ha guadagnato terreno Al Qaeda, tanto che molti analisti la ritengono l’unica vincitrice di questa guerra, ma anche l’Isis trae vantaggio dal conflitto e fa sentire la sua presenza. All’inizio della settimana ha rivendicato l’autobomba che ha ucciso il governatore della città portuale di Aden, Jaafar Mohammed Saad, e almeno altre sei persone. E non è stato il primo attentato in Yemen messo a segno dai miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi: a ottobre hanno colpito la sede del governo di Hadi, sempre ad Aden, e i ministri hanno lasciato la città. Gli uomini di Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), la potente filiale yemenita dell’organizzazione fondata da Bin Laden, spadroneggiano nella regione di Hadramawt, la cui capitale Mukalla, città portuale, è diventata una base per il traffico di armi e per l’addestramento di miliziani. E negli ultimi giorni i qaedisti hanno conquistato altre due città strategiche: Zinjbar, capitale dell’Abyan, e Jaar. Inoltre, le spinte indipendentiste sono ancora vive al Sud, unitosi al Nord nel 1990, e l’avversione per il potere centrale è diffusa: un terreno fertile per Aqap, presente nel Paese dal 2009, che è stata capace di tessere relazioni con i clan locali e di costruirsi così un bacino di consenso e di reclutamento.
La situazione di Aden è emblematica del caos che regna al Sud. Nella città affacciata sul golfo omonimo, crocevia di rilevanti rotte commerciali, alcuni hanno issato la bandiera di Al Qaeda, nonostante la presenza delle truppe della coalizione, hanno raccontato al Washington Post i residenti. Regna l’illegalità e sembra che la cacciata degli Houthi, spintisi fino ad Aden nella loro avanzata iniziata oltre un anno fa, per denunciare la corruzione del governo e chiedere una maggiore partecipazione politica, non abbia significato un reale controllo sul territorio. Aqap è stata sostanzialmente risparmiata dai raid della coalizione e guadagna terreno, e adesso anche l’Isis cerca spazio in un Paese poverissimo, dove i qaedisti hanno impiantato basi e campi di addestramento, per niente fiaccati dai droni statunitensi.
Riad delega il conflitto
Al Nord e a Sana’a ci sono gli Houthi, invece, che stanno alzando il tiro colpendo il nemico saudita direttamente in casa propria, con diverse incursioni oltreconfine. Un’offensiva di terra nelle aree sotto il controllo dei ribelli costerebbe molte vite e i governi della coalizione, in primis quello di Riad, non sono propensi a presentare il conto alle proprie opinioni pubbliche che avevano creduto alla promessa di una guerra lampo. Così l’Arabia Saudita (anche altri membri della coalizione) ha delegato il conflitto in Yemen. Di fronte alla scarsa predisposizione di alcuni Paesi della coalizione (Egitto e Pakistan, per esempio) a inviare contingenti, ha usato la cooperazione economica per ottenere rinforzi da Mauritania, Sudan e Senegal. Inoltre, per la coalizione combattono anche parecchi soldati latinoamericani, reclutati direttamente dai governi dell’alleanza anti-Houthi o tramite agenzie di sicurezza private, molte statunitensi. È di questa settimana la notizia della morte in combattimento di un mercenario australiano chiamato da Abu Dhabi a capo di un’unità di soldati colombiani.
Dissapori a Palazzo reale
Le difficoltà della Casa reale sul campo di battaglia si ripercuotono in famiglia. La guerra in Yemen risucchia le finanze e le energie del regno, in tempi in cui il basso costo del petrolio rallenta l’economia. Negli ultimi mesi sono inusualmente girate voci di contrasti e rivalità, e non sono mancate critiche al monarca. Re Salman, salito al trono a gennaio, ha modificato la successione monarchica: ha nominato vice principe ereditario il figlio Mohammed bin Salman, poco più che trentenne, e il nipote Mohammed bin Nayef alla carica di principe ereditario. Una scelta che ha dato un’accelerazione al turn over generazionale, ma ha creato dissapori in casa Saud. Mohammed bin Salman è di certo in vantaggio sul cugino, ma si sta giocando la faccia quanto il re-padre nel conflitto yemenita, su cui contava per guadagnare prestigio e consenso: ricopre anche le cariche di ministro della Difesa ed è al comando della campagna militare in Yemen.
Un’emergenza ignorata dai media
Un intervento che si sta confermando avventato e privo di una strategia a lungo termine, che rischia di diventare un pantano e minaccia la stabilità delle monarchie del Golfo, e dell’intera regione. Lo Yemen è una polveriera di rivalità etniche, claniche, religiose, terreno fertile per ogni estremismo. L’industria bellica occidentale (anche quella italiana) sta facendo lauti guadagni con questa guerra, ma le critiche alla coalizione e ai suoi alleati sono sempre più frequenti. Con le armi statunitensi, italiane, francesi, britanniche e di altri Paesi, le truppe della coalizione stanno seminando morte e distruzione, senza peraltro ottenere un reale vantaggio bellico. Le organizzazioni internazionali hanno difficoltà a portare gli aiuti a causa del blocco imposto dalla coalizione, e parlano di crisi umanitaria e di crimini di guerra commessi da tutte le parti in campo. Le Nazioni Unite stimano che 14 milioni e mezzo di persone devono affrontare la crisi alimentare.
Alla luce di questo quadro in questi giorni si tenterà di tornare a parlare di tregua umanitaria e di pace sotto l’egida dell’Onu. Altri tentativi sono falliti prima ancora di cominciare. Un ruolo fondamentale nell’appuntamento del 15 dicembre l’ha svolto l’Oman, unico Paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo a non partecipare alla coalizione, che ha aperto canali con gli Houthi e che mantiene rapporti di vecchia data con Teheran. L’attivismo diplomatico del sultanato è spronato anche dal timore che i combattimenti spingano migliaia di yemeniti in Oman.
In attesa che parta un negoziato, si è levata anche la voce della Somalia, preoccupata che il caos yemenita porti l’Isis nel Paese, in parte controllato dagli Shabab legati ad Al Qaeda. Caos su entrambe le sponde del Golfo di Aden, da sempre legate. È questo il rischio, che “non va preso alla leggera”, denunciato un mese fa dal primo ministro somalo Omar Sharmake al Consiglio di Sicurezza.
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