Yemen, la crisi dimenticata di una primavera araba

Da Reset-Dialogues on Civilizations

È slittato al mese di novembre il referendum costituzionale che potrebbe trasformare lo Yemen in uno stato federale e dovrebbe preparare il terreno per le elezioni presidenziali del febbraio 2014. Il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi ha assicurato che riuscirà a trovare la quadra in pochi giorni in linea con l’idea di uno stato unico e federale  ma le spinte secessioniste del sud non accennano a placarsi. Anzi al Hiraak al-Janoubi, il movimento separatista meridionale, ha indetto una manifestazione proprio contro la nuova costituzione che dovrà essere approvata. La questione della riconciliazione nord-sud (che va avanti dagli anni Novanta e che nel 1994 ha causato anche una guerra civile) è lo snodo del dopo Saleh per cui è stata creata la Conferenza del Dialogo Nazionale ed è la stessa ragione per cui le consultazioni sono rimaste bloccate fino allo scorso marzo, fino a quando al Hiraak non è entrato nel gruppo di riconciliazione nazionale. Ora ne fa parte, ma minaccia di boicottare il processo di pacificazione nonostante le affermazioni forzatamente ottimistiche di Hadi; un ottimismo che serve a rassicurare i donors stranieri, Usa in primis, dai cui aiuti dipende il Paese. Dall’inizio della transizione, gli Stati Unti hanno donato al governo infatti un totale di 600 milioni di dollari.

Dal 2011 a oggi, dunque, la situazione del Paese resta instabile non solo politicamente a causa delle spinte secessioniste del sud, ma anche dal punto di vista della sicurezza, con la presenza di Al Qaeda nella Penisola Arabica che non mostra segni di cedimento nonostante gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni abbiano condotto imponenti attacchi di droni (causando vittime anche tra i civili). E solo pochi giorni fa un dipendente dell’ambasciata tedesca a Sanaa è stato ucciso a colpi di arma a da fuoco, mentre un operatore dell’Unicef sequestrato. Eppure non sono questi i problemi più gravi dello Yemen.

Una povertà cronica

Si è chiusa a Roma, alla Fao, proprio la scorsa settimana la 40sima sessione del Committee on World Food Security incentrato sui problemi della sicurezza alimentare, durante il quale il direttore esecutivo del World Food Programme, Ertharin Cousin, è tornata a chiedere sostegno per combattere la malnutrizione nel Paese. Lo Yemen infatti affronta da anni una grave crisi umanitaria che lo rende il Paese più povero di tutta l’area, dopo l’Afghanistan, con quasi la metà della popolazione (gli ultimi dati disponibili, aggiornati al 2005 parlano del 46,6%) che vive con meno di due dollari al giorno e che non può accedere né al cibo né all’acqua. A settembre il World Food Program ha parlato chiaro: su venticinque milioni di persone dieci subiscono la fame e la sete. Il livello della malnutrizione infantile è il più alto al mondo: un milione di bambini ne soffre in modo grave, mentre due milioni di quelli sotto i cinque anni sono affetti da ritardi della crescita a causa della mancanza di cibo. Tredici milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile.

Eppure i dati del 2013 parlano addirittura di un miglioramento rispetto al recente passato e di una regressione ai livelli precedenti la crisi alimentare del 2007/2008 che ha messo k.o. intere nazioni.

Quella yemenita è una delle tante crisi dimenticate. Ma non si tratta solo di acqua, cibo e di condizioni igienico-sanitarie precarie, ma anche della possibilità di poter provvedere a sé in modo autonomo senza dipendere più dagli aiuti.

Nel sud, ad esempio, la presenza delle mine antiuomo rende difficile la coltivazione e il ritorno degli yemeniti che avevano abbandonato la zona a causa della lotta contro il nord. Nell’estate appena trascorso Medici Senza Frontiere ha denunciato continui interventi, molti dei quali sui bambini, a causa dell’esplosione delle mine disseminate sul terreno. E questo è ancora più grave se si considera che l’agricoltura è la principale fonte di reddito per metà della popolazione, con un 35% di disoccupati.

C’è poi il dramma degli sfollati che in questi lunghi anni di guerra nord-sud, a causa delle violenze tribali e dell’instabilità del dopo Saleh, sono arrivati a superare i 500mila. Meno della metà dei quali sono rientrati nelle loro comunità di origine, ma continuano comunque ad aver bisogno di aiuto e di accoglienza nella maggior parte dei casi presso famiglie, stanze in affitto e in rifugi. In alcuni casi, come già denunciato dall’UNHCR, in caverne.

Anche in questo campo le organizzazioni internazionali riconoscono gli sforzi delle autorità yemenite, ma a fronte di una politica di assistenza che ha ridotto nell’ultimo semestre il numero degli sfollati, resta però il problema dei migranti e richiedenti asilo, rimpatriati dall’Arabia Saudita e fermi nei campi. È facile intuire che un Paese con un tale indice di povertà fatichi più di altri nel offrire accoglienza. Solo nei primi sei mesi del 2013, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha registrato l’arrivo di 46 mila tra migranti e rifugiati, confermando una preoccupante tendenza alla crescita iniziata sei anni fa, da quanto è arrivato in Yemen circa mezzo milione di persone. Il Mar Rosso, infatti, è un ponte naturale verso la penisola Araba e lo Yemen è l’approdo più immediato per i flussi provenienti dalle zone martoriate dell’Africa. La Somalia, da sola, tra il 2010 e il 2012 ha subito una violenta carestia che ha causato la more di 260mila persone e proprio da lì sono arrivate per anni le ondate più massicce, tanto che per la legislazione yemenita i somali ricevono automaticamente lo status di rifugiato. Nello Yemen non giungono però solo dalla Somalia, e negli ultimi due anni si è percepito un’inversione di tendenza che vede il primato degli etiopi in fuga dal proprio Paese, seguiti poi in misura minore migranti dall’Eritrea, Sudan e dallo Gibuti.

E sebbene per l’UNHCR il fenomeno venga gestito relativamente bene, simili flussi portano con sé tutte le problematiche legate al traffico di essere umani, allo sfruttamento e agli abusi e alle morti in mare, un dramma che qui in Italia conosciamo bene.

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Nella foto: una donna yemenita riceve un sussidio dall’organizzazione umanitaria Oxfam

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