Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il mondo ha scoperto il popolo yazidi nell’agosto del 2014. Lo scoprì quando lo Stato Islamico, appena proclamato dal “califfo” al-Baghdadi, attaccò con violenza brutale Sinjar, nel nord ovest dell’Iraq. Omicidi, rapimenti, stupri che portarono alla fuga di massa della comunità sul monte Sinjar. E se il presidente statunitense Obama sfruttò a dovere quell’assedio per lanciare i primi raid sull’Iraq, ad aprire il corridoio umanitario che permise a migliaia di persone di mettersi in salvo furono le Ypg siriane, le unità di difesa popolari kurde sostenute da combattenti del Pkk. Alla liberazione del monte Sinjar parteciparono anche i peshmerga, i combattenti kurdo-iracheni che poco prima però avevano abbandonato la zona a causa dell’avanzata islamista.
Oggi, a quasi due anni di distanza segnati da ulteriori abusi, dalla scomparsa di migliaia di donne e dalla scoperta di fossi comuni, sembrava che le Nazioni Unite avessero imboccato la via giusta per intervenire legalmente, almeno in teoria. Ci si aspettava che, dopo le dichiarazioni del Palazzo di Vetro che definivano “genocidio” quello commesso dall’Isis contro la popolazione yazidi, si fornissero gli strumenti per agire. Così non è stato, denuncia Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia e oggi membro della Commissione internazionale indipendente sulla Siria (istituita nel 2011 dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite)
A monte stava il rapporto di 45 pagine sui crimini commessi dagli uomini di al-Baghdadi contro gli yazidi e che, sperava la Commissione, avrebbe mosso un moto di sdegno negli Stati membri e quindi condotto ad un intervento del Consiglio di Sicurezza: «Quello in corso è un genocidio», aveva detto il presidente della Commissione, Paulo Pinheiro. «La scala di atrocità commesse, la loro natura e la deliberata e sistematica persecuzione di civili perché parte di un determinato gruppo – si legge nel rapporto – sono stati i fattori con cui la Commissione ha potuto individuare l’intento genocida. [Tra questi] l’imposizione di condizioni di vita che conducono a morte lenta e di misure che impediscono la nascita di nuovi yazidi, come la separazione degli uomini dalle donne e il trasferimento dei bambini yazidi».
Invece, denuncia Del Ponte, la reazione del Consiglio dei Diritti Umani non è stata adeguata ostacolando al momento la possibilità di «procedere penalmente contro gli autori di questo crimine terribile». Perché, aggiunge, senza un’inchiesta formale da parte di un procuratore è impossibile agire. E il rapporto della Commissione rischia di restare lettera morta, seppure si fondi sulle testimonianze dei sopravvissuti e sulla consapevolezza che l’obiettivo dell’Isis sia la definitiva cancellazione della comunità costringendo gli uomini alla conversione e trasformando le donne in schiave sessuali e i bambini in combattenti
Testimonianze che hanno aperto una finestra sul dramma devastante del popolo yazidi. Strupri, torture, schiavitù sessuale, rapimenti, conversioni forzate: questa la quotidianità per migliaia di yazidi. Lo è ancora per circa 3.200 persone, ancora ostaggio dello Stato Islamico. Tutto giustificato dall’ideologia manichea e fascista del “califfato” che vede nella fede yazidi una forma di paganesimo da estirpare con la forza bruta. Una religione antica di secoli, particolarissima perché intreccio unico di fede e etnia: gli yazidi appartengono al ceppo kurdo ma seguono un credo di tipo sincretico, che mescola cioè elementi religiosi e culturali diversi. Derivazione di zoroastrismo, cristianesimo ed islam, lo yazidismo è una confessione monoteista che prende elementi dalle diverse fedi e li mescola. Centrale è la venerazione dei sette angeli e in particolare dell’Angelo Pavone.
Così è stata violentata una comunità di 800mila persone, quella irachena, che si aggiungono ad altre 200mila circa sparse nel resto del mondo, per lo più in Germania. Ne restano 450mila, dopo le uccisioni e la fuga di massa: «O ci facciamo mangiare o fuggiamo in Germania», aggiunge Ziad Shangar, yazidi che sta già pianificando di prendere il mare verso l’Europa.
Chi è riuscito a fuggire, a sopravvivere alle barbarie jihadiste, è oggi uno sfollato. Moltissimi hanno raggiunto il Kurdistan iracheno e vivono in campi profughi allestiti dal governo di Erbil o dalla Chiesa cattolica. Tanti altri sono nascosti nelle montagne: hanno paura di tornare a Sinjar, nonostante sia stata liberata quest’anno. È il caso del santuario di Lalish, il più antico per la fede yazidi, la loro “Mecca”. È qui che quello che resta di quella comunità piange il dramma del proprio popolo: «In cinque anni non ci saranno più yazidi», dice Najim Aleas Abdi a al-Jazeera. Najim è un comandante militare, si è unito alle fila dei peshmerga nella battaglia all’Isis.
L’unica speranza di salvare gli yazidi è riconoscerne il genocidio. Ovvero, salvaguardare le prove delle stragi compiute dalle gang islamiste. Per questo Human Rights Watch ha chiesto a Baghdad e Erbil di proteggere le fosse comuni (almeno 25) trovate nel nord ovest iracheno, abbandonate e a rischio di scomparire. Serve denaro per preservarle e uomini che ne garantiscano la sicurezza: «La giustizia per le vittime yazidi degli omicidi di massa dell’Isis dipende dalla salvaguardia dei luoghi di sepoltura sul monte Sinjar – ha detto Joe Stork, vice direttore di Hrw per il Medio Oriente – Le autorità kurde dovrebbero proteggere le prove da un ulteriore degrado, dovuto al tempo o agli animali».
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