Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sono diventati tristemente noti in tutto il mondo, giusto un mese fa, i profughi del campo di Yarmouk. E hanno dovuto ‘ringraziare’ l’Isis per quella finestra mediatica che si è aperta sulla tragedia del campo. Oggi non se ne parla quasi più, ma il dramma è lo stesso.
Il primo comunicato dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’impiego dei rifugiati palestinesi del Vicino Oriente, è di fine 2012. L’ultimo del 2 maggio scorso. Ma è dal 18 marzo che le Nazioni Unite non hanno accesso completo al campo. Tre anni e mezzo nel corso dei quali la vita nel campo profughi di Yarmouk è stata trasformata in un inferno non solo a causa delle ultime atrocità di Daesh.
“Immagini spaventose” e report su “attacchi aerei sul centro di Yarmouk”; “combattimenti nella parte sud” e primi tentativi di fuga delle famiglie: era il 16 dicembre 2012 e già allora le Nazioni Unite e il segretario generale dell’UNRWA Filippo Grandi chiedevano di lasciare fuori dal conflitto siriano i 525mila rifugiati palestinesi in tutta la Siria. Più di un anno fa, poi, quella disperazione ha fatto il giro del mondo con fotografie e video sempre dell’Onu: una marea umana in fila per il cibo in mezzo a vere e proprie montagne di macerie; detriti di quelle che un tempo erano state le loro abitazioni. Era il febbraio del 2014. Ma l’assedio della parte nord del campo era cominciato ancora prima per mano del regime di Assad.
È però nell’aprile 2015, un anno dopo, che tutti, a partire dai media, sembrano scoprire Yarmouk, quel girone infernale dove alla fame, alla sete e alle barbarie tipiche della guerra si sono aggiunti gli orrori dello Stato Islamico che, stando alle testimonianze raccolte dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, ne controllerebbe il 90%. Attualmente risultano essere 18mila le persone letteralmente intrappolate in quello che un tempo era tra i campi più organizzati e che ospitava 160mila abitanti. Yarmouk, sorto nel 1957 nei pressi di Damasco per accogliere molti dei rifugiati della guerra del 1948 contro Israele, ufficialmente non è mai stato un vero e proprio ‘campo profughi’ e quindi è parte della municipalità di Damasco in cui vivono e vivevano anche siriani. Circa 3500 sono bambini, ma in questa situazione l’età conta poco perché non esistono clausole di salvaguardia o assicurazioni sulla vita.
Qui, in pochi chilometri quadrati, si concentrano i vari schieramenti di quel che è rimasto della guerra civile siriana.
Lo Stato Islamico, il Fronte al Nusra, le milizie palestinesi Aknaf Beit al Maqdisi, vicine ai Fratelli Musulmani e a Hamas che sono state tra i primi a fronteggiare l’Isis assieme al Free Syrian Army, i palestinesi del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che sostengono, invece, il regime e le forze lealiste che bombardano da giorni il campo con barili bomba per sostenere le azioni sul campo contro l’Isis; al centro ci sono i civili. L’ultimo comunicato dell’UNRWA, datato 2 maggio, chiede al governo siriano proprio di sospendere gli attacchi aerei e l’uso di armi esplosive, con riferimento ai feroci combattimenti del 27 aprile scorso (altra data in questa cronologia della guerra). Facile immaginarsi quali siano le possibilità di mettersi al riparo da operazioni aeree indiscriminate (quelle stesse che vengono condotte nel resto del Paese) e da azioni a terra in un non-luogo dove gli edifici rimasti intatti sono ben pochi.
La battaglia che si combatte a Yarmouk, a solo 8 chilometri di distanza da Damasco, è una sorta di risiko siriano in cui si materializzano gli equilibri e le alleanze in gioco. Fra le quali quella con i palestinesi dell’Olp che dal mese scorso stanno cercando con il regime di affrontare la situazione del campo e di riunire le fazioni palestinesi nel campo. Una fragile alleanza che riflette la fragile coesione palestinese. Ricordiamo che la pacificazione fra Olp e Hamas risale solo a un anno fa e, ancor di più, che il FPLP-CG è sempre stato apertamente avverso all’Anp.
Non va dimenticato che i guai di Yarmouk sono cominciati proprio a causa del regime siriano e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di Ahmed Jibril, già nel 2012. Per capire è necessario fare un balzo indietro, fino ai rapporti privilegiati fra il fondatore del FPLP- CG e gli Assad, e fino al degenerare della guerra civile siriano che ha spinto Khaled Meshaal, il leader di Hamas, ad abbandonare Damasco per rifugiarsi nel Golfo, in Qatar, prendendo le distanze dal regime e dalla sua azione. I campi palestinesi in Siria sono da sempre gestiti da gruppi vicini al regime, questo ha fatto sì che con l’inasprirsi del conflitto nascessero malumori e insofferenze soprattutto fra i giovani sostenitori della rivoluzione, prima, e del Free Syrian Army, poi. Si spiega così lo spostamento della guerra anche dentro Yarmouk e il tentativo del regime di mantenere l’ordine tramite i luogotenenti del FPLP-CG. Ciò che è accaduto fuori dal campo è accaduto così al suo interno, con la penetrazione di al Nusra e di Isis. A questo si deve il blocco che è partito nel luglio 2013, interrotto solo per brevi periodi, che da quel momento ha impedito l’ingresso regolare degli operatori umanitari con rifornimenti di vario genere e che ha reso il campo una gabbia dove da tre anni mancano cibo, farmaci, latte, acqua e sicurezza. Del resto, per i palestinesi che lo abitano la via di fuga vorrebbe dire spostarsi in altri campi siriani (la Giordania e il Libano hanno chiuso loro la possibilità di accesso), e in Siria non esiste ormai un posto sicuro.
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