Nella complessità della vita e della religione, uno dei primi compiti di un imam è quello di semplificare. In maniera semplice, sana e onesta, l’imam dovrebbe tentare di restituire quella linearità, quella chiarezza e quella luce che la vita e la religione hanno in origine ma che l’uomo, con la sua superficialità, altera. Oggi più che mai, la realtà in cui viviamo appare difficile e, in questo senso, falsificata: falsi profeti abusano della religione; falsi maestri strumentalizzano e politicizzano la dottrina, manipolandola fino ad invertire l’educazione religiosa. Così, orientare i fedeli verso la verità, illuminare, distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, diventano tra loro sinonimi e costituiscono il dovere di chi guida la preghiera – prete, rabbino o imam che sia. Perché promuovere il bene proibendo il male, come insegna il Corano, o sciogliere i nodi, come direbbero invece i maestri sufi, sono prescrizioni comuni a cristiani, ebrei e musulmani.
Alle origini dell’irruzione del sacro
Prima dell’avvento delle rivelazioni dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, le nostre tre comunità religiose hanno avuto a che fare con un periodo di decadenza della società, caratterizzato da paganesimo, idolatria e ipocrisia. È il “periodo dell’ignoranza” o “jâhiliyya”, come la chiamano i sapienti musulmani, secondo i quali, quando il profeta si è manifestato non ha portato solo la luce della profezia e la verità ma anche la conoscenza, proprio perché si viveva in un periodo di oscurità e ignoranza. Un periodo però che a guardar bene si presta bene al paragone storico con la decadenza dei faraoni che avevano imprigionato nella schiavitù il popolo ebraico; o con il paganesimo idolatrico che aveva invertito il culto dell’Antica Roma da parte dei romani; o ancora con il paganesimo degli idolatri arabi che avevano trasformato la Mecca in un mercato.
Le varie religioni si somigliano quindi nell’associare l’irruzione del sacro della rivelazione con la necessità di rovesciare una situazione di barbarie. All’epoca c’era bisogno di riportare la conoscenza, fare luce nelle tenebre e ribaltare la decadenza di costumi che stava caratterizzando la società. In questo senso, sì, la situazione richiedeva uno scontro, uno sforzo. Il jihad etimologicamente è questo: uno sforzo, da intendersi però come l’unico combattimento che i religiosi debbono saper promuovere in se stessi, ovvero quello per far prevalere il bene sul male.
Essere testimoni e interpreti del bene in noi stessi e con l’altro, essere in dialogo con l’altro – che sia della stessa famiglia o di un’altra famiglia, della stessa fede o di un’altra fede o anche con chi non voglia essere coerente con una dimensione religiosa – è la grande sfida che ci si pone di fronte e che non possiamo rifiutare. Specialmente nel momento in cui gli ignoranti, gli ipocriti, gli idolatri, i pagani, tendono ad associare a se stessi il bene e all’altro il male, dando adito allo scontro di una religione contro l’altra, di una cultura contro l’altra: Occidente contro Oriente, liberal contro tradizionalisti, e via dicendo. Questa, che per i politologi è bieca propaganda politica diventa infatti, agli occhi del teologo, una strumentalizzazione, una manipolazione e una snaturalizzazione inaccettabile della religione e del sacro.
Allo stesso modo, anche alcune conversioni a cui assistiamo oggi, all’interno dell’Islam, risultano essere delle false conversioni. Convertirsi a un’ideologia islamista rischia di essere l’apologia di una forma, in quanto non si cerca più la verità o il bene, inteso anche come bene comune, ma si idolatra una forma e, soprattutto, non si crede più in Dio ma in una religione. Così, di fronte allo slogan di alcuni Fratelli Musulmani – “Islam is the solution” – non solo vengono alla mente le soluzioni globali di nazista memoria, ma, proprio come avveniva coi totalitarismi, ci si trova davanti ad una manipolazione dei concetti di vita e di morte. Proporre l’islam come unica soluzione, nella vita come nella morte, significa manipolare dottrinalmente e usare ideologicamente i concetti di vita e di morte stessi. E questo non ha nulla a che fare con la conversione che, come spiega bene il termine corrispettivo utilizzato in arabo, “tawba”, è “pentimento” e “ricerca di una purificazione”.
Il valore vero del dialogo
Le degenerazioni che abbiamo visto in altri tempi storici, sembrano riemergere oggi – in maniera edulcorata, ma teologicamente molto simile – in certe forme di estremismo fanatico: lo vediamo nel processo di relativismo culturale dell’Occidente e nel confessionalismo pseudo-califfale a cui assistiamo in Oriente. Ma è proprio di fronte a queste distorsioni che il dialogo diventa, in maniera ancora più decisa, la soluzione. È fondamentale, in questa situazione, che credenti, guide spirituali, teologi e sapienti dialoghino insieme, in maniera interdisciplinare e andando a toccare i vari campi della vita civile.
Attraverso il dialogo, noi scopriamo le radici dell’altro e al tempo stesso riscopriamo le nostre, giungendo così a un’universalità che ci apre – non solo a quella che i sociologi chiamano integrazione – ma all’ospitalità in termini sacri e alla fratellanza. È questa fratellanza, da intendersi come un vero e proprio compagnonaggio spirituale, che ci permette di instaurare un dialogo che va oltre i salotti e finisce, più concretamente, nella collaborazione, nella promozione di una azione di argine alle degenerazioni e nella costruzione di una mentalità autentica, per noi e per le nuove generazioni. Solo così potremo restituire all’uomo e alla donna coerenza e onestà nei confronti di quei principi di fede che Ebraismo, Cristianesimo e Islam o Induismo, Taoismo e Buddismo hanno declinato in maniera diversa, ma che sono, in realtà, universali.
Intervento dell’imam Yahya Pallavicini a “L’Islam oggi: dialogo o scontro?”, organizzato dalla Diocesi di Roma (11 aprile 2015).
In foto, lo Shaykh ‘Abd al-Wahid Pallavicini e Papa Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 (via www.coreis.it)