Seib Abdushukur siede dietro ad una grande scrivania. La sua corporatura è robusta, la barba scura è lunga e ben curata. Sulla testa indossa un turbante bianco, il corpo è avvolto in un lungo mantello nero che lascia intravedere solo i piedi nudi. Sul muro dietro di lui campeggia una grande bandiera bianca con scritte nere che recitano la shahadah, il giuramento di fede alla religione islamica. Intorno a lui siedono numerosi giovani mujahiddeen, tutti con le barbe lunghe, vesti larghe e kalashnikov tra le braccia con il dito appoggiato sul grilletto, pronti a intervenire in ogni momento. “Siamo qui per applicare il diritto islamico, che è perfetto e completo per ogni esigenza degli esseri umani”, dice Abdulshukur. Lui è il presidente della corte d’appello di Ghazni, roccaforte dei talebani tre ore a sud di Kabul, non lontano dal confine con il Pakistan. Fino ad agosto del 2021 era un tribunale del precedente governo filoccidentale. Da quando le truppe della Nato hanno lasciato il Paese i talebani l’hanno trasformata in una corte dove viene applicata la sharia, legge fondamentale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
Uno dopo l’altro entrano nella stanza dei piccoli gruppi di persone. Sedutisi di fronte a Abdulshukur gli espongono le proprie questioni. Il presidente della corte d’appello li ascolta e poi esprime un parere in conformità con i principi della sharia. Essa prevede il taglio della mano per i ladri, la lapidazione per gli adulteri. Misure così rigide non sono però mai state messe in pratica negli ultimi mesi, a differenza di quanto avveniva sotto il loro primo governo (1996-2001). “Ciò risponde a un obiettivo preciso dei talebani”, spiega Lutfurrahman Aftab, che insegna storia islamica presso l’Università Mili di Kabul. “Da quando sono tornati al potere stanno fronteggiando una situazione molto difficile legata all’isolamento internazionale, alla crisi economica e ai continui attentati dell’Isis K. Per sbloccarla stanno adottando nuove politiche più permissive. Un volto troppo crudele li isolerebbe ancora di più e rischierebbe di allontanarli da fette crescenti di popolazione”.
Gli effetti di queste nuove politiche si vedono nelle strade di Kabul. Alcuni uomini vestono all’occidentale, con jeans e camicie. Diverse donne camminano da sole, alcune indossano il velo integrale azzurro che copre loro tutto il volto ma tante altre hanno semplicemente un foulard appoggiato sul capo che lascia intravedere abbondanti ciocche di capelli, in stile iraniano. Nei negozi di parrucchieri vengono esposte scatole di prodotti femminili che mostrano ragazze con il volto scoperto. Alcuni ragazzi sprezzanti del pericolo ascoltano la musica nelle case e nelle auto. Tutte cose proibite dall’ideologia talebana che nel periodo precedente sarebbero state immediatamente punite.
Per le strade si nota una diffusa povertà. Costantemente si incrociano gruppi di senzatetto che bivaccano sui marciapiedi a fumare oppio. Interminabili gruppi di bambini si attaccano alle maniche delle giacche dei passanti chiedendo qualche soldo. Da quando le truppe occidentali si sono ritirate, l’Afghanistan sta vivendo una crisi economica senza precedenti. Il 22,8 per cento degli abitanti sta fronteggiando livelli di insicurezza alimentare potenzialmente letali. Tra questi 8,7 milioni vivono una carestia, la fase più acuta di una crisi alimentare. L’arrivo dei talebani ha comportato la scomparsa da un giorno all’altro di milioni di dollari di aiuti provenienti dall’occidente. Gli Stati Uniti hanno congelato i depositi bancari dello Stato afghano per evitare che cadano nelle mani dei mujahiddeen. Poi hanno isolato il Paese dal sistema finanziario internazionale. Le banche incontrano grandi difficoltà nell’effettuare transazioni internazionali, famiglie e imprese faticano a prelevare i propri risparmi e le aziende non riescono a trasferire i soldi all’estero per pagare gli importi. I commerci internazionali sono quindi crollati, con conseguenze catastrofiche per un’economia fondata sulle importazioni. L’assenza di liquidità impedisce allo Stato di pagare gli stipendi pubblici, che non sono più stati erogati dallo scorso agosto.
Per fronteggiare la crisi il nuovo governo afghano ha disperatamente bisogno di rompere l’isolamento internazionale. Mentre sul piano interno non stanno applicando alcune delle più dure regole previste dalla sharia, su quello internazionale provano a intavolare dialogo con tutti, anche con chi formalmente è nemico. Lo spiega Waliullah Shaheen, presidente del Centro di Studi Strategici del ministero degli esteri dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, una sorta di think-tank statale che si occupa della politica estera dei talebani: “Tutti vogliono parlare con noi anche se non lo dicono apertamente. Con Cina, Russia e Turchia il dialogo procede rapidamente. I governi occidentali hanno bisogno di più tempo perché devono abituare a questa idea le loro opinioni pubbliche, a cui hanno raccontato per vent’anni che siamo terroristi. E’ solo una questione di tempo. Non hanno alternative. Siamo gli unici a controllare il territorio e gli unici a potere garantire che l’Isis K non crei uno stato territoriale in Afghanistan”. Ex giornalista di Al Jazeera, Shaheen a dicembre ha rappresentato l’Emirato alla conferenza internazionale sull’Afghanistan di Islamabad. “C’erano americani, inglesi, tedeschi, italiani, rappresentanti della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite” dice.
L’Emirato vuole essere riconosciuto come un legittimo Stato islamico fondato sulla cultura afghana e non su quella occidentale. Continua Shaheen: “L’affermazione della democrazia è un processo che richiede molto tempo per il quale la nostra società non è pronta. Il nostro popolo è molto attaccato alla nostra religione e alla nostra cultura, non è possibile imporci un altro tipo di sistema con le bombe. Se l’Occidente lo capisse potremmo diventare buoni amici. Siamo un movimento nazionale, non vogliamo esportare il jihad fuori dall’Afghanistan. Anzi, stiamo combattendo l’Isis anche per voi”. Il riferimento è alla violenta campagna repressiva che i talebani conducono contro le cellule di Daesh, cosa richiesta loro dagli Stati Uniti in occasione dell’accordo del 2018, quando vennero poste le basi per la ritirata delle truppe della Nato.
Secondo l’analista geopolitico americano Andrew Spannaus gli Stati Uniti hanno di fatto già riconosciuti i talebani come interlocutori da anni. “Washington voleva lasciare l’Afghanistan mantenendo un controllo indiretto su parti del Paese, soprattutto la regione di Kabul, attraverso il precedente governo filoccidentale. Non era previsto che questo crollasse così rapidamente. Ciò non ha tuttavia alterato il piano generale americano: ovvero quello di ritirarsi per fare crescere le frizioni tra Cina e Russia. Gli statunitensi sperano che Mosca e Pechino occupino lo spazio che hanno lasciato in Afghanistan e finiscano per scontrarsi o comunque per farsi concorrenza”.
In effetti da quando gli Stati Uniti se ne sono andati, Cina e Russia hanno iniziato a penetrare nel Paese. Shaheen conferma che i cinesi stanno promettendo ingenti investimenti in cambio della repressione da parte dei talebani delle cellule dell’Isis composte da cittadini cinesi di etnia uigura che vivono nel Paese. La Russia, invece, considera l’Afghanistan parte dello spazio post-sovietico e quindi della propria area d’influenza naturale. Secondo Yury Krupnow, presidente dell’Istituto per la Demografia, le Migrazioni e lo Sviluppo Regionale della Federazione Russa, “Mosca è pronta a seguire i passi diplomatici di riconoscimento formale dell’Emirato. Stiamo già lavorando con il governo talebano fornendo aiuti umanitari alla popolazione. Non chiediamo il permesso alla comunità internazionale perché è impossibile ricevere un’unica risposta, dato che tutte le principali potenze hanno posizioni diverse sull’Afghanistan”. Priorità russa è che l’Afghanistan diventi un Paese stabile per essere inglobato nell’area di influenza geopolitica del Cremlino e amministrato da un forte governo che includa tutte tribù e i gruppi etnici del paese. Secondo Kruonov l’inclusione e il rispetto dei diritti umani sono i requisiti a cui i talebani devono attenersi perché il loro governo venga riconosciuto. “Dobbiamo prendere atto che ci vorrà molto tempo perché la democrazia arrivi in Afghanistan. Non bisogna esportarla con la violenza come hanno provato a fare gli americani ma intervenire subito con aiuti umanitari e favorendo la partecipazione di tutti i principali gruppi etnici nell’Emirato”.
La società afghana è composta da circa 50 diversi gruppi etnici che parlano 30 lingue diverse. I talebani sono espressione dei pashtun, il gruppo principale a sua volta suddiviso in molteplici tribù. A seguito delle pressioni internazionali l’Emirato Islamico ha annunciato di essere pronto ad accettare nel governo i rappresentanti degli altri principali gruppi, a partire dagli Hazara, popolazione di lingua persiana e di religione sciita e per questo considerata longa manus dell’Iran nel Paese. Nella corte d’appello di Ghazni, per esempio, Abdushukur ordina la liberazione di prigionieri di etnia Hazara incarcerati durante il precedente governo per motivi che ritiene essere non validi. “Vedi, la sharia è giusta per tutti”, dice Osama, talebano armato di Kalashnikov che supervisiona la liberazione dei prigionieri.
Ad essere allineato alle richieste russe di inclusione e di stabilità in Afghanistan c’è anche l’Iran. “L’obiettivo di lungo periodo di Tehran è che in Afghanistan viga un regime stabile ed inclusivo in cui la Repubblica Islamica difenda i propri interessi attraverso gli Hazara” spiega Abdolrazool Disvallar, professore associato all’Università Cattolica di Milano e allo European University Institute di Firenze nonché della scuola della rivista Limes. Essendo l’Iran direttamente confinante con l’Afghanistan, Tehran ha bisogno di stabilità per gestire alcune grandi problematiche che la colpiscono direttamente tra cui la massiccia immigrazione illegale, il traffico di oppio e la presenza dell’Isis. “Non è escluso che in futuro l’Iran riconosca l’Emirato Islamico o che comunque collabori con lui in maniera attiva” continua Disvallar. “Perché questo avvenga i talebani devono soddisfare quattro condizioni: l’inclusione di tutti i principali gruppi etnici nel processo decisionale; la disponibilità dei talebani a collaborare in modo pragmatico sui problemi comuni, come la sicurezza lungo i confini e la gestione delle risorse idriche condivise; la protezione degli Hazara, che è molto sentita dall’opinione pubblica persiana; il divieto di permettere la penetrazione nel Paese di potenze ostili all’Iran, come l’Arabia Saudita. Se Riad riuscisse ad avere delle basi in Afghanistan, sarebbe una grave minaccia”.
Mentre le grandi potenze competono per spartirsi il teatro afghano, il futuro geopolitico del Paese resta fragile ed incerto. Lo stesso vale per il destino della popolazione. Nel corso degli ultimi cinque mesi le strade di Kabul si sono riempite di mercati dell’usato. Ovunque ci si imbatte in bancarelle improvvisate che vendono prodotti domestici di cui le famiglie cercano di disfarsi. L’obiettivo è mettere via qualche soldo per fuggire all’estero oppure per pagare un viaggio di sola andata ad un figlio. Un popolo in fuga per diversi motivi: dalle conseguenze devastanti di vent’anni di guerra; dai talebani; dagli attentati dell’Isis K; ma soprattutto da una crisi economica che colpisce tutti senza distinzioni. Dalla quale non si vede via d’uscita.
Pezzo interessante: sono settimane, anzi mesi, che dell’Afghanistan abbiamo smesso di parlare. Però c’è una quesitone fondamentale che sembra “scotomizzata”: è enorme ma qui invisibile, fatto salvo per quel cenno al foulard “all’iraniana”. E’ la vita delle donne in questo Afghanistan. E le prospettive per loro nei diversi scenari. Possibile non “vederle”?