Da Reset-Dialogues on Civilizations
Queste dovevano essere le settimane del negoziato tra Kiev e i ribelli filorussi. Ma tutto è finito, già prima di iniziare. Quel che è peggio è che nell’est dell’ex repubblica sovietica i combattimenti hanno avuto un’accelerazione violentissima. «Fermate dei bus, mercati, scuole, asili, ospedali e aree residenziali sono divenuti normali campi di battaglia nelle regioni di Donetsk e Lugansk», ha puntualizzato Zeid Ra’ad Al Hussein, l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, ricordando il tipo di guerra che ormai si combatte in Ucraina. Alla jugoslava, viene da dire. Ed è forse per questo che Angela Merkel e Francois Hollande hanno deciso di andare prima e Kiev e poi a Mosca, per riaprire una finestra di dialogo ed evitare il disastro totale.
La tentazione dell’escalation
Il già critico scenario è appesantito dalle prospettive di ulteriore militarizzazione. Aleksandr Zakharchenko, numero uno della Repubblica popolare di Donetsk, che assieme alla Repubblica popolare di Lugansk compone la Nuova Russia, l’entità secessionista ucraina, ha annunciato una grossa mobilitazione. Si parla di centomila uomini, anche se il numero appare davvero improbabile. Si sta reclutando anche dall’altra parte della barricata, a Kiev. Il governo vuole rafforzare le prime linee e recuperare il terreno perso negli scontri delle ultime settimane. Ma deve fare i conti con le diserzioni, fenomeno in evidente crescita.
Il difficile momento di Kiev sta portando l’amministrazione Obama (ma anche la Nato) a meditare seriamente sull’invio di aiuti militari. Su questo è stata appena sollecitata dalla Brookings Institution, una cui analisi invita proprio a sostenere militarmente Kiev “con armamenti letali ma non offensivi”. La stessa convinzione di Timothy Garton Ash. Lo storico britannico, influente opinionista del Guardian, ha esortato l’Occidente a rompere gli indugi e fornire moderni armamenti all’Ucraina di modo che possa difendersi dall’aggressione della Russia. Perché la tesi è proprio questa: la guerra in Ucraina non la combattono due fazioni, bensì due stati, dato che i ribelli del Donbass non sono che un’emanazione di Mosca.
Da parte sua la Russia sostiene che l’esercito ucraino è una legione straniera della Nato e che la rivoluzione della Maidan, iniziata nel novembre del 2013 e culminata con la fuga di Yanukovich lo scorso febbraio, è stata pilotata dall’Occidente. C’è poi uno stuolo di mezzibusti, opinionisti, analisti e pensatori di corte che alza ancora di più i toni. Sergei Markov, politologo, propone il rovesciamento del governo ucraino e l’occupazione di Odessa e Kharkiv. Sono rimaste sotto il controllo di Kiev, ma sono attraversate da tensioni. Il rogo impunito di Odessa è una delle ferite aperte di questa crisi. Kharkiv, quando iniziò la crisi, è stata teatro di duri confronti tra sostenitori e detrattori della Maidan.
Quale negoziato?
Qualcuno considera l’ennesimo innalzamento degli scontri e della tensione internazionale come un modo per alzare la posta e guadagnare punti negoziali nel momento in cui ci si siederà a discutere. È lecito però nutrire dubbi sia sul quando, sia soprattutto sul come. La sintesi tra Kiev e i filorussi, come tra l’Occidente e Mosca, è difficile. La Russia vuole un’Ucraina federale e neutrale, ma Kiev fatica a pensarsi tale. Teme da una parte che l’evoluzione federale dei rapporti centro-periferia dia vita a uno stato nello stato, tenuto conto non soltanto del modo spiccio con cui i filorussi hanno preso e gestiscono il potere a Donetsk e Lugansk, ma anche del caso della Crimea: afferrata e portata a casa dai russi come fosse un soprammobile. Dall’altra parte, e proprio sulla scorta di questo, Kiev è dell’avviso che tornare alla neutralità, fino a poco tempo fa sancita costituzionalmente, esporrebbe il paese al revisionismo russo, cui si imputa la rottura degli accordi sanciti con il memorandum di Budapest del 1994. Allora, nella capitale ungherese, si stabilì (firmatari i russi, gli americani e i britannici) che l’Ucraina avrebbe rinunciato al suo arsenale nucleare in cambio di garanzie sull’integrità territoriale, anche se non furono configurate soluzioni legali nette. Ma tant’è.
L’altra opzione negoziale è quella di un’Ucraina decentrata amministrativamente e libera di scegliersi le alleanze che più le aggradano (il che non significa automatica adesione alla Nato). Schema che non incontra il favore dei filorussi e del Cremlino. Sul primo punto si rimarca che l’offensiva militare dei governativi ha guastato del tutto i rapporti centro-periferia, rendendo necessario un ripensamento radicale dell’architettura dello stato. Quando al secondo, entra in gioco l’ipotesi che la Nato coopti prima o poi Kiev, cambiando ulteriormente gli equilibri nell’Europa orientale. A svantaggio di Mosca, s’intende.
Queste recriminazioni non sono prive di senso. Le operazioni militari dell’esercito regolare, affiancati dai battaglioni paramilitari, sono state durissime. La popolazione civile non è stata protetta adeguatamente. Né il governo ha fatto granché affinché l’est, dopo la caduta di Yanukovich, non si sentisse stretto alle corde. Anzi, più volte s’è avuta l’impressione che la costruzione dell’Ucraina post-sovietica, legittima aspirazione della rivoluzione della Maidan, passasse attraverso forme nevrotiche di rivincita espresse da una parte del paese sull’altra. Quanto alla Russia, che piaccia o meno e al di là dei mezzi usati, è fuori discussione che, in quanto potenza, voglia opporsi alla compressione del cortile di casa, di cui l’Ucraina è la zolla più importante.
Senza troppi giri di parole: siamo all’incartamento. Una condizione che va oltre il perimetro degli stessi negoziati. È quasi esistenziale. Kiev è al verde. Senza i battaglioni paramilitari non riuscirebbe a sostenere la guerra. Ma i battaglioni sono finanziati dagli oligarchi, che così facendo tengono sotto ricatto il governo, timorosi delle infusioni massicce di riforme economiche che il Fondo monetario internazionale e l’Unione europea hanno chiesto in cambio della concessione di prestiti. Che intanto lievitano: il salvataggio dell’Ucraina si sta rivelando più salato del previsto.
Il Cremlino lavora ai fianchi il vicino, con l’intenzione di dimostrare che è uno stato del tutto fallito e suggerire così agli euro-americani che Kiev non vale tutto questo ardore. Ma il prezzo da pagare è altissimo, in termini economici. Nel breve periodo è sostenibile, più in là nel tempo chissà. A ogni modo Washington e Bruxelles tengono duro: nessuna ritirata. Ma anche qui il costo dell’impegno si impenna. Gli americani meditano di imboccare la strada incerta e pericolosa degli aiuti militari. L’Europa, tra sanzioni e relative contro-sanzioni russe sull’agroalimentare, ha mandato in fumo tanti affari e perso quote di mercato.
Addio Eurussia
Le letture sull’approccio di Bruxelles alla crisi ucraina sono contrastanti. C’è chi lo bolla come un’ennesima prova di nanismo politico e chi al contrario vede nella decisione di insistere con le sanzioni alla Russia – diverse capitali le hanno criticate, salvo poi votarle – la volontà di affermare il diritto a offrire inclusione a paesi terzi, in linea con la missione dell’allargamento.
Il tempo dirà se è vera la prima o la seconda teoria, se c’è un po’ dell’una e dell’altra insieme. Ma già da ora una conclusione si può azzardare. La crisi ucraina ha demolito quell’idea, coltivata in certi ambienti del vecchio continente, secondo cui l’Europa e la Russia sarebbero complementari, come destinate a creare qualcosa di più strutturato di una semplice benché intensa relazione di mercato. Questa lettura non ha tenuto nella debita considerazione l’asset dei diritti e dei valori. I legami forti s’instaurano anche grazie a questo ingrediente.
La Russia non ne è ricca. Anzi, da quando Putin è al potere (2000) la sfera dei diritti è stata limata progressivamente. Il Cremlino ha dato ai russi migliori condizioni di vita, ma ha preteso in cambio che su libertà civili e politiche non si levassero troppe obiezioni. Non solo. Con Putin la Russia ha vissuto una trasformazione di cultura politica che l’ha portata a ripudiare i paradigmi liberali assorbiti confusamente durante l’era Eltsin e a virare verso una visione conservatrice della società e del mondo. Parlare di complementarietà diventa difficile, davanti a questi aspetti.
Ma questa miopia è anche alla base dell’approccio europeo alla faccenda ucraina. Non avendo capito la marcia intrapresa dalla Russia s’è come creduto che la storia avesse un andamento lineare e che il modello economico e democratico europeo fosse esportabile ovunque, con i consueti schemi e senza incontrare opposizioni. S’è visto invece che Putin ha fatto ciò che ha fatto. Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la Russia come unico freno allo sviluppo di rapporti più solidi tra Europa e Ucraina. L’ex repubblica sovietica è sì vittima della geografia, ma nel corso del tempo ha più volte dimostrato di essere refrattaria a ogni stimolo riformista e di non essere capace di spostare il proprio baricentro politico accortamente, giocando di furbizia sia con gli europei che con i russi, senza evitare scosse devastanti. Così anche questa volta è stato.
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