In Turchia, mentre da oltre 20 giorni è in corso la lunga Marcia per la Giustizia che ha visto migliaia di persone partire da Ankara per raggiungere ora Istanbul, continuano giorno dopo giorno le intimidazioni, gli attacchi e gli arresti contro giornalisti, intellettuali, attivisti dei diritti umani. La mattina del 5 luglio, la polizia ha fatto irruzione in un workshop sulla tutela dei difensori dei diritti umani che si stava svolgendo in un albergo sull’isola di Büyükada, al largo di Istanbul. La polizia ha quindi fermato almeno dodici persone, tra cui la direttrice della sezione turca di Amnesty International, İdil Eser, e due formatori stranieri. Dei fermi si è saputo soltanto in serata e fino al pomeriggio successivo non è stato chiaro né il luogo dove erano stati portati, né tantomeno il numero esatto delle persone coinvolte.* Infatti, in nome della legislazione d’emergenza dettata dallo stato di eccezione che vige in Turchia dal tentativo di golpe di un anno fa, è stato impedito agli avvocati di parlare con i propri assistiti e si è dovuto attendere il termine di ventiquattr’ore. Portati in cinque commissariati diversi, i dieci attivisti fermati sono accusati di fiancheggiamento ad attività terroristiche mentre la stampa turca filogovernativa – come i quotidiani Akşam e Sabah – ha riportato la notizia che gli attivisti al momento del blitz erano intenti a guardare una carta geografica della Turchia per cui la deduzione, secondo i giornalisti, che stavano organizzando un piano per gettare il paese nel caos. Un tipo di discorso, questo, che in parte tocca le corde ipersensibili di quanti si lasciano alla retorica, ben alimentata dal governo, del paese perennemente sotto attacco di nemici interni ed esterni. Una retorica che in occasione dell’anniversario dal tentato golpe sta per rinnovarsi con un apparato consolidato di simboli, immagini, parole.
Amnesty International ha immediatamente condannato l’accaduto, dichiarando che l’arresto di difensori dei diritti umani nel corso di un abituale workshop di formazione “è un grottesco abuso di potere che evidenzia la situazione precaria in cui si trovano gli attivisti dei diritti umani nel paese” e ha chiesto il rilascio immediato e senza condizioni di tutti.
Questi arresti avvengono a un mese esatto dall’arresto di Taner Kılıç, il presidente di Amnesty International Turchia, noto avvocato impegnato per i diritti umani accusato di far parte della rete legata alla figura religiosa di Fethullah Gülen, accusata del mancato golpe e considerata dal governo turco una pericolosa organizzazione terroristica. L’unica prova contro di lui finora resa nota sarebbe l’utilizzo di un’applicazione, Bylock, nota per essere stata usata come strumento di comunicazione sicura tra i gülenisti. Un’accusa ricorrente che ha giustificato centinaia di arresti e dimissioni forzate. Come evidenzia, infatti, in modo dettagliato un rapporto pubblicato dalla stessa Amnesty International, si registra in Turchia i licenziamenti che hanno colpito oltre 100mila impiegati del settore pubblico sono raramente suffragati da prove sostanziali e si rivelano il frutto di procedure arbitrarie e discriminatorie. Il rapporto, dal titolo “No End in Sight” e dedicato nello specifico ai licenziamenti imposti nel settore pubblico ordinati come misure d’emergenza dal governo all’indomani del mancato golpe del 15 luglio, si basa su 61 interviste, di cui 33 con persone licenziate in ambiti diversi: insegnanti, poliziotti, medici, militari, magistrati, accademici, impiegati amministrativi che di punto in bianco hanno perso il proprio lavoro, il più delle volte senza alcun preavviso e alcuna successiva motivazione. Oltre a loro, per redigere il rapporto, sono stati intervistate dirigenti del ministero della Salute e della Giustizia, rappresentanti di sindacati e di ong, avvocati. Con i decreti d’urgenza sono stati infatti chiusi anche mezzi di informazione, associazioni, fondazioni. Si calcola che nel corso dell’ultimo anno sono circa 47mila persone trattenute in custodia cautelare, 150 i giornalisti attualmente in carcere, 156 gli organi di informazione chiusi in modo definitivo e 375 organizzazioni non governative.
Ciò che emerge dal rapporto, oltre al numero significativo di persone coinvolte e la debolezza degli argomenti imputati, è l’impatto violento che hanno avuto questi licenziamenti sulla vita quotidiana di chi ha perso il lavoro. Accusati di terrorismo, sono stati espulsi del tutto dall’amministrazione pubblica, dovendo rinunciare in molti casi a esercitare la propria professione. Per molti è impossibile trovare un altro impiego per il timore legato all’accusa di cui sono macchiati. Privi di tutti i benefici che erano loro garantiti dal proprio lavoro, molte di queste persone si ritrovano in una condizione estrema di precarietà, impossibilitati anche dal cercare un’alternativa all’estera perché privati del passaporto, e di fatto potendo contare solo sulle reti delle persone più prossime.
I licenziamenti di massa, avvenuti come conseguenza di decreti d’urgenza che hanno immediato effetto esecutivo, sono avvenuti sulla base di presunte connessioni dei soggetti coinvolti con organizzazioni terroristiche. L’assenza di prove specifiche rende impossibile il ricorso all’appello, tra l’altro già particolarmente difficoltoso a causa della procedura attuata che va in contrasto con il sistema giudiziario turco. Al momento della pubblicazione del rapporto nessun tribunale aveva accolto richieste di appello perché non nella propria giurisdizione. Per cui è stata nominata una commissione ad hoc, che però per i suoi legami diretti con l’ufficio di governo e con i ministeri della Giustizia e dell’Interno, non garantisce affatto, come sottolinea Amnesty international, la necessaria indipendenza e l’equità di giudizio e andrebbe immediata sostituita. La condizione in cui si ritrovano le decine di migliaia di persone che sono state licenziate è in piena contraddizione del rispetto dei diritti umani così come sono garantiti da una serie di convenzioni internazionali di cui anche la Turchia è firmataria: la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.
Il grave deterioramento del rispetto dei diritti umani in Turchia è anche al centro dell’ultimo rapporto del Parlamento europeo sul paese, testo adottato lo scorso 6 luglio con una netta maggioranza. Nel rapporto, presentato dall’europarlamentare Kati Piri, si prende atto del peggioramento delle condizioni che garantiscono lo stato di diritto e il rispetto della libertà di espressione e, pur condannando il tentato golpe, si dichiara che “le misure adottate sono sproporzionate in particolare perché i fermi, gli arresti, i licenziamenti, la confisca di beni colpiscono non solo i membri o sostenitori del movimento Gülen, ma anche più in generale oppositori e partiti politici d’opposizione”. Nonostante si sottolinei, inoltre, come la cooperazione economica e in ambiti come la lotta al terrorismo, l’energia, la migrazione tra la Turchia e l’UE sia un importante investimento per la stabilità e la prosperità di entrambe le parti, e si chieda un maggiore allineamento del governo turco alla politica estera dell’Unione, tuttavia si reitera il congelamento del processo di adesione già espresso lo scorso novembre e si prevede la sospensione immediata dei negoziati d’adesione nel caso in cui venga attuata senza alcuna modifica la riforma costituzionale. La riforma, del resto, come si evidenzia nel rapporto, è stata approvata il 16 aprile con un referendum che non è stato accompagnato né da una campagna equa e adeguatamente informata né tantomeno da risultati chiari e incontestabilmente legittimi, considerate le irregolarità e le frodi riportate dall’OSCE.
La reazione dura dei politici turchi non è tardata. Il primo ministro Binali Yıldırım l’ha definita priva di valore mentre il ministro per gli Affari europei Ömer Çelik, riferendosi alla sospensione delle negoziazioni in caso di riforma costituzionale, ha aspramente criticato gli europarlamentari, affermando che non hanno il diritto a fare appelli simili e che la riforma sarà attuata senza cambiamenti.
I rapporti tra Unione europea e Turchia attraversano da lungo tempo una fase difficile e complicata, che si muove sulla contraddizione dettata dall’importanza geostrategica del paese e l’impossibilità di non considerare l’aggravamento delle condizioni dei diritti umani che pesa su tutta la società turca.
Intanto nel paese la quotidianità è scandita da fermi e arresti eppure non si fermano le iniziative di solidarietà e di protesta, nonché le manifestazioni per il ripristino delle condizioni fondamentali dello stato di diritto, come dimostrano anche le enormi dimensioni che ha assunto nel suo percorso la Marcia per la Giustizia. Il 19 luglio scade lo stato di emergenza iniziato il 20 luglio dello scorso anno e rinnovato di tre mesi in tre mesi. Non è difficile credere che sarà rinnovato, considerato che il presidente della repubblica Erdoğan e il governo non ritengono ancora eliminato del tutto il pericolo di un nuovo attacco di destabilizzazione. E senza dubbio le celebrazioni previste in occasione della ‘Giornata della democrazia e dell’unità nazionale’ – come è stato definito il 15 luglio – con la retorica sul sacrificio e il martirio da un lato, e sulla forza e l’orgoglio nazionale dall’altro, non rappresenteranno che l’occasione per una nuova affermazione delle basi discorsive e della politica di governo.
*Aggiornamento 18.7.2017: Il processo contro i dieci attivisti dei diritti umani si è concluso ieri con l’arresto per sei di loro tra cui la direttrice di Amnesty International, Idil Eser e i due educatori stranieri, lo svedese Ali Garawi e il tedesco Peter Steudtner. Gli altri sono: Özlem Dalkıran (Helsinki Citizens Assembly), Günal Kurşun e Veli Acu (Human Rights Agenda Association),
Gli altri quattro attivisti – Nalan Erkem (Helsinki Citizens Assembly), İlknur Üstün (Women’s Coalition), Nejat Taştan (Association for Monitoring Equal Rights), Şeyhmuz Özbekli (Rights Initiative) – sono stati rilasciati ma con obbligo di firma e revoca del passaporto.
Processati con l’accusa di affiliazione a organizzazione terroristica, il mandato d’arresto è stato motivato dall’accusa di aver organizzato una riunione senza autorizzazione e di aver discusso sulla sicurezza digitale.
Foto: un’immagine della Marcia della Giustizia