ISTANBUL – Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato che la Turchia tornerà al voto il 1° novembre. Rompendo una prassi istituzionale che avrebbe voluto il conferimento dell’incarico al leader del secondo partito più votato, in seguito della rimessione dell’incarico esplorativo da parte del premier Ahmet Davutoglu, Erdogan ha ufficializzato l’intenzione di riportare il Paese alle urne nel più breve tempo possibile.
Si apre così una nuova fase, che chiude un mese che in Turchia sarà ricordato come uno dei più caotici degli ultimi anni. Ciò che colpisce e la molteplicità dei fronti aperti e delle situazioni in bilico, ognuna a suo modo capace di incrementare la tensione nel paese ed esacerbare problemi preesistenti.
L’Isis e i brigatisti rossi
Pochi giorni fa da Raqqa è arrivato in Turchia un video messaggio che, per la prima volta in turco, invita a “riconquistare Istanbul”, accusa Erdogan di aver venduto “metà paese agli Usa e metà agli atei” curdi del Pkk e incita ad abbandonare “gli errori della laicità di Ataturk e riabbracciare la s’aria”. Gli arresti continuano,i sequestri di armi anche, la tensione rimane alta nel paese, paradossalmente negli stessi giorni in cui l’ex premier iracheno Nuri al Maliki accusa apertamente Ankara di aver aiutato l’Isis nella conquista di Mosul.
A gettare altra benzina sul fuoco i leninisti del Dhck-p, praticamente l’unico gruppo brigatista di estrema sinistra ancora attivo in occidente, anche perché, a giudicare dalla carta di identità di molti degli ultimi arrestati, l’unico in grado di garantirsi un ricambio generazionale. Decimato ma non eradicato tra la metà degli anni ‘70 e ’90, il gruppo non compie attentati sanguinosi, tuttavia sceglie i propri obiettivi tra quelli che fanno più rumore: l’ambasciata Usa ad Ankara nel febbraio 2013 (un morto), l’attacco a palazzo Dolmabahce lo scorso dicembre, la stazione di polizia di Sultanahmet a gennaio, il sequestro e l’omicidio di un magistrato a fine marzo, fino a giungere ai recentissimi attacchi al consolato Usa di Istanbul e la sparatoria a palazzo Dolmabahce, che hanno avuto luogo negli ultimi 10 giorni.
Il fronte curdo e la politica interna
Ma il fronte sul quale sono in corso le manovre più importanti rimane il fronte curdo, l’unico strettamente intrecciato alla incerta situazione politica del paese. Il partito della giustizia e dello sviluppo di Erdogan (Akp) ha di fatto perso la maggioranza assoluta dopo che i filo curdi dell’Hdp, superando la soglia del 10%, sono entrati in Parlamento.
Con la conferma data venerdì da parte di Erdogan della data del 1° novembre, già indicata dall’Authority turca per le elezioni (Ysk), come election day, il presidente non ha perso occasione di tornare ad attaccare l’Hdp. “La nostra intenzione era quella di fare una coalizione come fratelli, ma i tragici fatti occorsi nell’ultimo mese ci impongono di trovare una soluzione che rafforzi la democrazia” ha detto Erdogan, che ha poi definito il conflitto in corso con il Pkk “la continuazione delle tensioni già esplose gli scorsi 6,7 e 8 Ottobre”, quando violenti scontri ebbero luogo nelle provincie del paese in maggioranza curda, in seguito a manifestazioni contro la passività del governo rispetto all’assedio dell’Isis alla città curda di Kobane. Eventi rispetto ai quali il leader filo curdo Demirtas e la sua vice sono indagati con l’accusa di“istigazione alla violenza e al terrorismo”. Dietro la violenza di quei tragici giorni, durante i quali morirono più di 40 persone, secondo Erdogan ci sarebbe infatti “il segretario di un partito attualmente in parlamento”. Lo stesso partito che, nel caso non dovesse superare la soglia del 10 % alle prossime elezioni, permetterebbe all’Akp di Erdogan di riguadagnare la maggioranza assoluta dei seggi e portare a termine il progetto di presidenzialismo cui il presidente anela da tempo.
E a giudicare dagli ultimi eventi si direbbe che sono già iniziate la manovre per la formazione di un governo ad interim che traghetti il Paese verso nuove elezioni, in modo che il partito filo curdo dell’Hdp sia escluso dalla spartizione dei dicasteri.
Ieri infatti, il premier uscente Ahmet Davutoglu ha convocato i leader dei repubblicani del Chp e dei nazionalisti dell’Mhp, proponendo loro la formazione di una coalizione dei 3 partiti che governi fino alle prossime elezioni.
L’obiettivo è quello di estromettere dai ministeri con portafoglio o escludere del tutto, i curdi dell’Hdp, che con il loro 13%, avrebbero diritto a far parte di un governo ad interim in base a quanto stabilito dalla Costituzione (art.114).
Ora si attende la reazione di repubblicani e nazionalisti, ma l’ipotesi appare difficilmente percorribile. I primi già dalla vigilia della rimessione dell’incarico da parte di Davutoglu nelle mani di Erdogan, chiedevano a gran voce che un mandato esplorativo venisse conferito,come da prassi istituzionale, al loro leader Kemal Kilicdaroglu.
Alla rottura della prassi istituzionale il partito ha fatto sapere, tramite il vice segretario Haluk Koc, che la partecipazione ad un governo ad interim con l’Akp era “fuori discussione”. Stessa posizione era stata presa dai nazionalisti del Mhp nei giorni scorsi.
In base a quella che sarebbe stata la ripartizione proporzionale, sarebbero andati dieci ministeri all’Akp, sei al Chp e tre a testa a Mhp e Hdp.
Con la rinuncia di Chp e Mhp i posti loro riservati andrebbero a tecnici, mentre l’Hdp si era visto stoppare da Davutoglu, il quale, secondo quanto rivelato in un’intervista rilasciata dal portavoce filo curdo Ayhan Bilgen, avrebbe voluto scegliere lui i nomi. “Rispetti le procedure” lo ha ammonito Bilgen, definendo “probabile” l’eventualità che Davutoglu tentasse di giocare la carta del governo a 3 teste, escludendo i curdi.
L’intera questione ruota, ancora una volta, attorno a una mozione firmata il 2 ottobre 2014 e che consente il lancio di operazioni militari “contro il terrore” al confine siriano, ma sopratutto al confine iracheno contro il Pkk. La mozione scadrà il prossimo 2 ottobre e l’Akp teme che i ministri filo curdi ne ostacolino il rinnovo.
Rispetto all’evoluzione del conflitto con il Pkk ci si aspettano decisioni dall’incontro che il Consiglio Superiore di Difesa Nazionale terrà il 2 settembre.
Nel caso non dovesse concretizzarsi l’ipotesi del governo a 3 partiti, l’Akp ha in mente di aggirare l’ostacolo giocandosi la carta del governo a 22, premier più 21 ministri. Si escluderebbe la attuale formula del governo a 26, evitando la nomina dei 4 vice premier, uno dei quali spetterebbe di diritto ai filo curdi. Nel consiglio superiore di difesa infatti, oltre al premier, in qualità di membri politici siedono i 4 vice premier e i ministri di Esteri, Interni, Difesa e Giustizia e l’Akp vuole evitare in tutte le maniere che un membro dell’Hdp possa stoppare la linea interventista del Consiglio.
Secondo il portale Hurriyet, se questa manovra non dovesse riuscire, l’Akp cercherà di posticipare a novembre la riunione del consiglio di sicurezza nazionale, a dopo le elezioni.
Il Pkk e il Pyd
Il 19 Agosto i ribelli separatisti hanno messo a segno l’attentato più sanguinoso dell’ultimo mese: 8 morti a Siirte con una bomba. Numeri alla mano, a partire dal 20 luglio, giorno dall’attentato di Suruc nel quale 34 attivisti curdi morirono a seguito dell’esplosione di una bomba, negli ultimi 30 giorni hanno perso la vita 54 membri delle forze di sicurezza turche, 64 civili e all’incirca 34 miliziani del Pkk all’interno dei confini turchi. Mentre , secondo fonti di intelligence citate dall’agenzia di stato Anadolu, i miliziani colpiti da operazioni militari sarebbero 771, 430 morti a seguito di raid aerei nelle montagne irachene, 261 rimasti sul terreno dopo le operazioni militari di terra. Questi ultimi dati, seppur impossibili da verificare, rendono l’idea da un lato dell’intensità dell’attacco sferrato contro il Pkk, che contrasta con i 35 i miliziani dell’Isis colpiti dall’aeronautica di Ankara, dall’altro del messaggio lanciato al Paese dall’Akp in vista delle nuove elezioni. “La situazione è grave, non votate i curdi e fateci governare”.
In un’intervista rilasciata al quotidiano inglese Daily Telegraph, uno dei leader del Pkk, Cemil Bayik, ha lanciato chiari segnali agli Stati Uniti rispetto al ruolo che questi potrebbero assumere nel conflitto. “Il Pkk vorrebbe che gli Usa mediassero per la fine del conflitto con l’esercito turco”. Questa via è, per il dirigente curdo, “l’unico modo per porre fine ai raid aerei ed evitare che la situazione degeneri”, anche perché, secondo Bayik “ogni bomba contro i curdi è un favore all’Isis e senza i curdi anche gli Usa farebbero molta più fatica nella lotta al califfato”.
Ankara però non è impegnata dai curdi solo sul fronte interno. Preoccupato dall’avanzata dei curdi siriani al confine sud del Paese Erdogan già a giugno aveva dichiarato che “mai e poi mai la Turchia avrebbe permesso la creazione di uno stato curdo ai propri confini”. Così da Ankara è arrivato un secco “no grazie” all’ipotesi di una collaborazione con i curdi siriani del Pyd, alleati degli Usa nella lotta all’Isis e protagonisti della riconquista di Kobane e Tel Abyad negli scorsi mesi.
In base a quanto rivelato da fonti diplomatiche al quotidiano Hurriyet, la Turchia avrebbe scartato l’ipotesi di creare una collaborazione permanente tra i servizi segreti di Ankara con quelli del Pyd, che controlla buona parte del confine sud del Paese.
L’inviato speciale di Washington Brett McGurk, ha dichiarato in un’intervista rilasciata la scorsa settimana a Hurriyet, che gli Usa possono contare su “molteplici canali con i curdi siriani”, con i quali sono “in contatto costante” in un regime di collaborazione “assolutamente efficace”.All’indomani di queste dichiarazioni e considerata l’intesa trovata da Ankara e Washington nell’ambito della lotta allo stato islamico e l’utilizzo della base aerea di Incirlik, in Turchia ci si è chiesti se e in quale misura i curdi siriani sarebbero potuti essere considerati “alleati” di un partito cui Ankara da sempre guarda come l’ala siriana del Pkk.
In base a quanto dichiarato dalle fonti diplomatiche citate da Hurriyet, l’opzione sarebbe esclusa in quanto la Turchia ritiene le proprie risorse di intelligence “capaci di fornire tutte le informazioni utili provenienti dalla regione”. Allo stesso tempo, Ankara ha fugato i dubbi sull’amministrazione della free zone, l’area cuscinetto creata al confine siriano tra le città di Jarablus e Marea. “Chiunque ma non il Pyd” ha ribadito il ministro degli esteri Ahmet Cavusoglu.Ennesima conferma che l’occupazione di quell’area è stata soltanto la maniera per impedire che il Pyd guadagnasse altro terreno sull’Isis, ricongiungendo così il proprio territorio con la provincia di Afrin, a maggioranza curda, e continuando così a cavalcare il sogno di uno stato curdo che si affacciasse sul mediterraneo.