Articolo pubblicato su Arab Media Report
Recep Tayyip Erdogan, presidente e padrone della Turchia, non è uno che dimentica. A distanza di un anno ha portato a termine la sua vendetta, mettendo le manette a quei giornalisti che il 17 dicembre 2013 svelarono gli scandali di corruzione nei quali Erdogan era coinvolto.
Quel giorno la stampa, o meglio quella parte della stampa che si riconosce in Fethullah Gulen, il carismatico leader religioso che dal 1999 vive in esilio in negli Stati Uniti, aveva dato notizia di una vasta rete di corruzione che comprendeva molti membri del partito al potere l’Akp (Adalet ve Kalkinma Partisi, partito della giustizia e sviluppo). Due ministri si erano dovuti dimettere, ma lo scandalo aveva toccato lo stesso Erdogan, allora primo ministro, con la pubblicazione di una serie di telefonate tra lui e il figlio in cui si parlava di fondi neri da occultare fuori dalla Turchia. Il premier aveva gridato al colpo di stato, al terrorismo, alla menzogna.
In pochi giorni erano stati cacciati 200 magistrati e 7mila tra dirigenti, ufficiali e agenti di polizia (magistratura e polizia erano notoriamente molto vicine a Gulen e al suo movimento Hizmet, Servizio). Non solo il parlamento aveva approvato una legge che praticamente metteva in mano al poter politico l’Hisyk, il Consiglio superiore della magistratura turco, asservendo tutto il sistema giudiziario alla volontà del governo.
Poi c’erano state le elezioni amministrative, vinte mani basse dall’Akp, Erdogan era stato eletto presidente della repubblica, affidando la carica di primo ministro al fedelissimo Ahmet Davtoglu.
Da quel momento la Turchia ha subito un vero e proprio sconvolgimento. Sempre più leggi a favore dell’Islam, sempre maggiori aperture a una visione musulmana della vita civile. Poi ci sono stati gli sconvolgimenti del mondo arabo in cui Erdogan voleva giocare un ruolo da primo attore. Sconvolgimenti che hanno deluso le aspettative turche con il crollo di quelli che Erdogan considerava i suoi alleati. I Fratelli musulmani in Egitto (e il ridimensionamento di Ennahda in Tunisia) e i guerriglieri moderati in Siria. Noto è l’atteggiamento ambiguo di Ankara nei confronti dei combattenti curdi che in Siria e Iraq si oppongono ai fondamentalisti dell’Isis. Noto è anche il divieto agli aerei Usa di usare la base aerea di Incirlik per i loro raid su Siria e Iraq.
E sabato 13 dicembre Erdogan ha portato a termine la sua vendetta: il procuratore generale di Istanbul ha emesso 32 mandati di cattura per terrorismo nei confronti di giornalisti e uomini dei servizi segreti. Trentuno di loro, tra cui il direttore del quotidiano Zaman (vicino a Gulen) Ekrem Dumanli, il capo della tv gulenista Hidayet Karaca, l’ex capo dei servizi segreti di Istanbul Tufan Urguder, sono finiti in cella. Si sospetta che il destinatario del trentaduesimo mandato sia lo stesso Fetullah Gulen.
Una strana storia questa, Gulen fu uno dei principali sostenitori di Erdogan e dell’Akp quando questi presero il potere. Poi, a poco a poco, l’attivismo e la deriva sempre più autoritaria di Erdogan causarono un allontanamento tra i due, fino a sfociare in uno scontro aperto. Dopo aver chiuso la rete di scuole che faceva capo a Gulen, Erdogan ha colpito polizia e magistratura. Ora è la volta dei media. Il che non è una novità.
Anni orsono il potente gruppo Dogan, di ispirazione laica, fu ridotto a malpartito da una indagine del fisco che accusò lo stesso Dogan e le sue imprese di una colossale evasione fiscale. Alla fine Dogan dovette cedere e allineare le sue testate cartacee e televisive ai voleri dell’Akp. Ora è toccato ai rivali islamici, perché Gulen non è un laico, è un musulmano molto seguito in tutto il mondo, fautore di un islam moderato e moderno, aperto al mondo. Troppo, evidentemente, per il radicale e assolutista Erdogan, che, dicono in tanti, somiglia sempre più a Vladimir Putin.
Gli somiglia anche nel mondo dell’economia, come Putin è alla testa degli oligarchi russi, così Erdogan è legato a filo doppio con i costruttori, tra cui anche stranieri. I suoi faraonici progetti. Un nuovo grande aeroporto, lo scavo di un immenso canale parallelo al Bosforo, la costruzione di centinaia di grattacieli a Istanbul e in altre città sono lì a dimostrarlo. Erdogan però, forte del consenso elettorale e dei passati risultati in economia, non deflette di un passo. Anzi no, un ripensamento lo ha avuto, la concessione della base di Incirlik ai voli di guerra americani. Un segnale preciso a Washington: se voi mi lasciate agire come voglio ne avrete dei vantaggi.
Inutile dire che questi ultimi arresti hanno avuto una eco immensa non solo in Turchia. Laici turchi, Unione europea, Stati Uniti hanno messo in guardia Erdogan. Ma crediamo che tutte queste prese di posizione non serviranno a nulla. Ha ragione lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk: “Adesso ho davvero paura di vivere nel mio paese. Non ho mai visto nulla del genere”. Nemmeno noi, in un paese che si dice democratico e che aspirava a divenire il primo membro musulmano dell’Unione europea.
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