Da Reset-Dialogues on Civilizations
L’irruzione delle forze di polizia, l’11 Novembre scorso, negli uffici di stampa della Feza Publications Inc., rappresenta soltanto l’ultimo colpo alla stampa e all’opposizione messi in atto dal governo Erdoğan, nel periodo precedente e successivo alle contestate elezioni del 1 Novembre. L’accusa rivolta al gruppo associato all’impero mediatico di Fetullah Gulen, é quella di aver stampato, nel quartiere generale di Istanbul, delle versioni “libere” dei quotidiani Bugün e Millet, dal nome appunto “Bugün libero” e “Millet libero”. Le redazioni dei due quotidiani erano state prese d’assedio da una trentina di poliziotti in borghese, durante le proteste del 28 Ottobre, nella settimana delle elezioni generali.
L’indomani, i caporedattori dei due giornali, sono stati estromessi dal giornale e sostituiti da un’amministrazione straordinaria guidata da figure allineate al partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), fondato da Recep Tayyip Erdoğan nel 2002 e da allora ininterrottamente al potere. Lo stesso trattamento è stato riservato ai giornalisti contrari a questo avvicendamento. L’attacco ai giornali di proprietà di Fetullah Gulen non è che l’ennesimo braccio di ferro tra l’attuale presidente della Repubblica e l’uomo d’affari fondatore del movimento islamico Hizmet (il servizio), diventato il suo peggior nemico tra il 2012 e il 2013, in seguito agli scandali di corruzione che hanno coinvolto 4 ministri, parlamentari e familiari vicini all’AKP.
“Un atto di censura del genere, a ridosso delle elezioni, è sembrato a molti un atto suicida da parte di Erdoğan” racconta Mustafa Edip Yılmaz, caporedattore esteri del giornale Zaman, quotidiano principale del gruppo mediatico Feza Publications Inc. “Per un attimo ci è parso che il presidente avesse perso il controllo delle proprie azioni, preoccupato com’era che il paese potesse sfuggirli di mano, se non avesse raggiunto la maggioranza assoluta”.
I risultati elettorali hanno dimostrato invece il contrario, con l’AKP che ha sfiorato la soglia del 50% dei voti, guadagnando le preferenze delle frange più nazionaliste, approfittando del clima di terrore seguito agli attacchi di Suruç e Ankara e alla nuova guerra al Partito dei Lavoratori curdi (PKK). L’irruzione negli studi dell’Ipek Hoya Holding, sede dei giornali Bugün e Millet, non è da considerarsi un evento isolato, bensì un semplice episodio della nuova serie di attacchi ai giornalisti all’opposizione, che in Turchia da anni non costituiscono una novità. Le voci di dissenso sulla questione curda, sul genocidio degli armeni, sulla politica estera dell’AKP, nonché sulle ramificazioni del potere di Gulen, sono da almeno un decennio le cause principali delle violazioni alla libertà di espressione. L’intensità degli attacchi ai giornalisti è cresciuta rapidamente in seguito allo smacco subito da Erdoğan alle elezioni di Giugno, con la perdita della maggioranza assoluta in Parlamento. Ad inizio Settembre, la sede del giornale Hurriyet, è stata assaltata più volte da manifestanti filo governativi. Un mese dopo, uno dei giornalisti più rappresentavi del quotidiano, Ahmet Akan, è stato brutalmente picchiato davanti alla sua abitazione. Il giorno successivo alle ultime elezioni, due redattori del magazine Nokta sono stati arrestati per la controversa cover pubblicata dal settimanale: “2 Novembre: Comincia la guerra civile in Turchia”.
Al di là di questi episodi più eclatanti, la guerra alla stampa libera viene condotta soprattutto nei tribunali, dove centinaia di giornalisti devono rispondere ad accuse di collaborazione con il PKK, diffamazione e insulti al presidente della Repubblica. Onur Erem, reporter del giornale Birgün, sta per finire in tribunale per aver scritto un pezzo in cui descrive come alle parole “ladro e assassino”, nel motore di ricerca Google in lingua turca, segua la parola “Erdoğan”. Berkant Gültekin, caporedattore dello stesso giornale, noto in Turchia per la sua fiera opposizione all’AKP, deve difendersi da una decina di condanne per conto del suo quotidiano, che all’indomani delle elezioni ha titolato: “Una cosa è chiara, resisteremo”. “Sto per essere processato per tradimento alla nazione” racconta Berkant, per “aver scritto che i servizi segreti turchi hanno trasferito armi ai jihadisti in Siria. Il governo vuole silenziarci mandando il nostro giornale in bancarotta, ma noi resisteremo, perché la nostra è una battaglia per la democrazia”. L’accusa di insulto al presidente della Repubblica può portare ad una pena massima di 7 anni e mezzo di reclusione. Un giornalista può evitare la galera se la condanna è inferiore ai 5 anni, con il pagamento di una cauzione. “L’unico modo per dire la verità in Turchia è di pagare per farlo” racconta ancora Berkant. Ma il pagamento delle cauzioni non sono l’unica causa di bancarotta per i giornali minori, che da mesi non possono altresì contare sugli annunci governativi obbligatori, che il governo ha deciso di non spartire con i mezzi di stampa più scomodi, privando alcune redazioni del denaro necessario a pagare i salari ai propri giornalisti. Berkant e colleghi non ricevono lo stipendio già da tre mesi.
Secondo Mustafa Edip Yılmaz, “Il governo ha superato la linea rossa. Non accetta più nessuna forma di critica e opposizione. Alcuni dei giornalisti del nostro giornale si sono licenziati a causa delle continue pressioni e della precarietà del loro futuro. Hanno rinunciato a raccontare la verità per il bene delle loro famiglie” racconta il giornalista di Zaman, che da un paio d’anni ha fatto proprio lo slogan “i media liberi non possono essere taciuti”, per anni sbandierato principalmente dai media curdi. Secondo Reporters Senza Frontiere, la Turchia è scivolata al 149 posto su 180 del World Press Freedom Index, al di sotto del Messico e del Bangladesh. Tra il 19 e il 21 Ottobre, le maggiori organizzazioni internazionali per la libertà di espressione si sono radunate d’emergenza ad Istanbul, per analizzare il livello di libertà del giornalismo in Turchia. I punti principali emersi al congresso sono l’abuso delle leggi anti-terrorismo, la pressante censura online, il blocco di siti web di agenzie e giornali alternativi, l’abuso delle accuse di collaborazione con il PKK, come nel caso del corrispondente di VICE News Mohammed Rasool, ancora detenuto dopo l’arresto del 27 Agosto. Le organizzazioni per la libertà di espressione hanno inoltre chiesto maggior chiarezza sul caso della giornalista inglese Jacky Sutton, trovata impiccata con i lacci delle scarpe all’aeroporto di Istanbul, prima di prendere un volo per Erbil. Le autorità turche hanno parlato di suicidio, una versione rifiutata in tronco dai colleghi e dagli amici della giornalista. Tre dei quattro partiti principali hanno partecipato al congresso per la libertà di espressione. Il grande assente è stato proprio l’AKP, che di fatto, tra le elezioni di Giugno e Novembre, nell’ossessione di ottenere la maggioranza assoluta, ha svelato al mondo la sua vera faccia. La presunta democrazia islamica moderata a vocazione neoliberista è stata smascherata dal crescente autoritarismo e dalle attitudini dispotiche assunte dal governo di Erdoğan, guidato dal progetto di creare uno Stato a sistema presidenziale incentrato sulla sua persona. Un regime costruito sullo sfruttamento della paura dell’altro, molto più occupato ad annientare l’opposizione politica, che a creare un clima di armonia interna, e di rispetto delle diversità, tale da rassicurare i propri cittadini sul futuro del loro paese. Ma per l’Europa traumatizzata dagli attacchi di Parigi, Erdoğan rimane l’interlocutore di riferimento per coordinare il contenimento del flusso dei migranti e la lotta al terrorismo, argomenti in discussione proprio in queste ore al vertice del G20 di Antalya, nel sud della Turchia.
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