Da Reset-Dialogues on Civilizations
Un corpo riverso a terra. Una pistola gettata accanto ai suoi piedi. Un’immobilità che genera sgomento. L’assassinio di Tahir Elçi, avvenuto il 28 novembre a Diyarbakir, a molti ha ricordato l’uccisione di Hrant Dink, giornalista armeno sparato per strada, nel 2007, sotto la redazione del giornale bilingue da lui fondato Agos.
Hrant Dink era stato una figura chiave per la questione armena in Turchia e per avviare un dialogo proficuo tra la comunità armena e la società turca. Tahir Elçi, avvocato curdo e presidente degli avvocati di Diyarbakir, era invece noto per il suo grande impegno per la difesa dei diritti umani, e per essersi battuto per anni come avvocato per chiedere giustizia delle esecuzioni sommarie, delle sparizioni e degli incendi appiccati nei villaggi curdi durante gli anni Novanta. Figura pubblica, non esitava a prendere posizioni nette in modo aperto, come quando in una trasmissione della Cnn turca, lo scorso 14 ottobre, aveva dichiarato che il Pkk non era un’organizzazione terroristica ma un movimento politico armato. Oltre al linciaggio mediatico, quella affermazione gli era costata una denuncia immediata per propaganda terroristica, l’arresto qualche giorno dopo e infine la liberazione con obbligo di firma. Anche la Cnn era stata costretta a pagare una penale salatissima.
Tahir Elçi era impegnato in processi molto complessi come quello del massacro di Roboski/Uludere, avvenuto nel dicembre 2011, in cui persero la vita 34 persone, per lo più adolescenti, mentre attraversavano il confine turco-iracheno per contrabbando e bombardati da F16 dell’aviazione militare perché ritenuti guerriglieri del Pkk. Ma oltre alle sue battaglie che intraprendeva come avvocato, in nome della giustizia e a difesa delle vittime, Tahir Elçi era una persona molto stimata nell’ambiente della società civile, soprattutto perché si spendeva senza sosta per una ripresa del processo di pace, per stemperare le tensioni, divenute sempre più aspre, tra lo Stato e i curdi. Ribadiva la necessità di ristabilire le basi per un processo democratico di dialogo e di rispetto. Così poco prima che fosse colpito da un proiettile, aveva dichiarato, in una conferenza stampa a Diyarbakir: “non vogliamo armi, scontri, operazioni in quest’area”, un’area storica, culla di civiltà, e aveva poi indicato i pilastri crivellati dai proiettili del “Minareto a quattro piedi”, che lui stesso aveva definito il gioiello della città e simbolo della cultura cittadina, e accanto al quale avrebbe perso la vita.
Uno scontro a fuoco tra polizia e guerriglieri del Pkk in cui potrebbe essere rimasto accidentalmente colpito l’avvocato, anche secondo il primo ministro Ahmet Davutoğlu che oltre a ricordare i due poliziotti rimasti vittima della sparatoria, ha anche sottolineato come il vero responsabile di tale scontro non è che il Pkk, la cui ripresa delle ostilità non permette di vivere in tranquillità. La vittima non è solo Tahir Elçi, ha ricordato, ma l’intera Turchia, sotto attacco dei separatisti. In modo analogo il Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan che, appresa la notizia, ha dichiarato che i fatti accaduti dimostrano quanto sia nel giusto la Turchia nella determinazione con cui intraprende la lotta al terrorismo.
La morte dell’avvocato è stata quindi interpretata come la prova ulteriore della necessità di persistere in una lotta decisa contro i terroristi che minano l’unità nazionale. Un argomento che per il partito al governo Akp è stato centrale nel corso della campagna elettorale, in particolare nel periodo intercorso tra il voto di giugno e quello definitivo del 1° novembre. Un periodo segnato da due gravi attentati, il primo a Suruç a luglio, dove hanno perso la vita 32 giovani e il secondo, ancora più grave, a Ankara ad ottobre. Ma anche mesi in cui si è inasprita gravemente la situazione nel sud-est dell’Anatolia, anche dopo che l’esercito turco, coinvolto nella coalizione anti-Isis, ha preso a bombardare le basi del Pkk. Mesi difficili, tesissimi, in cui la stampa è stata ripetutamente attaccata dal governo.
Contro il governo e lo Stato si sono sollevate moltissime voci di protesta dopo l’omicidio di Elçi. Manifestazioni molto partecipate si sono svolte a Diyarbakir ma anche a Istanbul, dove la polizia è intervenuta con i lacrimogeni contro quanti considerano il governo dell’Akp il mandante di questo omicidio. I partiti d’opposizione hanno tutti condannato il tragico evento e l’Hdp, formazione della sinistra progressista filo-curda, ha parlato di attentato. Ed è in questo clima pesante si è svolta anche la seduta parlamentare in cui il governo di Davutoğlu presentava il programma della sua nuova legislatura. Attacchi durissimi in cui un deputato del Chp ha accusato il governo di avere le mani sporche di sangue, ricordando le armi che i servizi segreti turchi avrebbero avuto intenzione di recapitare all’Isis.
Fino a qualche ora prima dell’assassinio dell’avvocato Elçi era questa, in realtà, la notizia di cui si era ritornati a discutere in Turchia. E di fatto ancora non si erano calmate altre manifestazioni di protesta, sollevatesi alla notizia dell’arresto di due rinomati giornalisti turchi dello storico quotidiano Cumhuriyet, il direttore Can Dündar e Erdem Gül, capo della redazione di Ankara. I due giornalisti sono stati arrestati al termine del processo, tenutosi il 25 novembre, in cui sono stati accusati di spionaggio politico e militare, di divulgazione di notizie sensibili per la sicurezza del paese e di propaganda terroristica. Il processo contro di loro era stato intentato quando il 29 maggio, una settimana prima delle elezioni politiche, il quotidiano Cumhuriyet aveva pubblicato le fotografie che provavano un trasporto illegale di armi da parte del Mit, i servizi segreti turchi, avvenuto nel gennaio 2014. Le immagini – tratte da un video – mostravano dei camion apparentemente carichi di medicine per la popolazione turcomanna che, a un’ispezione della gendarmeria nella provincia di Adana, non lontano dal confine siriano, si rivelavano pieni di armi e munizioni. Uno scoop che aveva immediatamente irritato Erdoğan. Le sue parole nei confronti di Can Dündar erano parse da subito una minaccia: “immagino che la persona che ha svelato questa notizia pagherà un prezzo molto caro. Non la lascerò andare facilmente”. Aveva quindi chiesto l’ergastolo.
Le minacce nei confronti dei giornalisti sono all’ordine del giorno in Turchia come denunciano molte organizzazioni per la difesa della libertà di stampa. Le intimidazioni nei confronti dei giornalisti sono però soltanto una delle forme che, secondo le stesse organizzazioni, ha assunto il controllo sui media nel paese. Si aggiungono gli arresti, le intercettazioni, le dimissioni forzate.
L’aggravamento della situazione per la libertà di stampa e di espressione è andato peggiorando negli ultimi tempi. Non lo denuncia solo Reporter senza frontiere che nell’ultimo rapporto pubblicato sulla Turchia spiega come la censura negli ultimi tempi abbia anche compromesso il processo di pace con i curdi. L’Unione europea nell’ultimo rapporto sullo stato di avanzamento del paese prende atto della regressione nel campo dei diritti e in particolare del rispetto della libertà di stampa e di espressione. L’Ue, che da sempre si è mostrata sensibile sul tema nei confronti della Turchia, è stata però attaccata da alcuni giornalisti turchi per aver ritardato la pubblicazione del rapporto di qualche settimana, di fatto diventando di pubblico dominio solo a elezioni ultimate. Secondo le critiche, infatti, il rapporto avrebbe assestato un colpo alla propaganda dell’Akp alla vigilia del voto ma la prospettiva di un accordo per la questione dei rifugiati con il presidente Erdoğan avrebbe spinto al rinvio.
All’indomani dell’arresto dei due giornalisti, Dündar e Gül, si è tenuto un importante vertice tra la Turchia e l’Unione europea in cui è stato definito un accordo su più punti sulla migrazione. Un accordo in cui la Turchia si attesta come partner strategico per il controllo delle frontiere e il rimpatrio dei migranti. In questo incontro, come è stato anche sottolineato dalla stampa turca, non si è affrontato il tema del restringimento delle libertà in Turchia e la situazione critica per i media. Nonostante i due giornalisti dal carcere abbiano rivolto direttamente ai leader Ue una lettera. In questa auspicavano che la volontà di risolvere la crisi dei migranti non pregiudicasse l’impegno dell’Ue per i diritti umani, per la libertà di stampa e di espressione, valori fondamentali del mondo occidentale. Secondo il portavoce del segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjorn Jagland se ne parlerà nel prossimo incontro tra il ministro della Giustizia e il Consiglio d’Europa che si terrà a Ankara il 17 dicembre. Nel frattempo si spera non arrivino altre cattive notizie dalla Turchia, visto che, come sottolinea l’editorialista del quotidiano Hürriyet, Nuray Mert, solo in una settimana il paese è stato testimone di tre eventi preoccupanti: l’abbattimento del jet russo, l’arresto dei giornalisti e l’assassinio di Tahir Elçi.
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Nella foto: un’immagine dai funerali di Tahir Elçi