Il 17 marzo è stata scritta una pagina nera per i diritti umani in Turchia, con due eventi inquietanti: la richiesta di chiusura dell’HDP, che è ora al vaglio della Corte costituzionale, e la privazione del seggio parlamentare per Ömer Faruk Gergerlioğlu, uno dei più prestigiosi attivisti per i diritti umani del paese già vittima della persecuzione post tentato golpe del 2016.
Sembra la versione moderna del sogno antico dei primordi della Repubblica di una “Turchia senza curdi”. In realtà tale concezione andrebbe estesa a tutte le minoranze.
Nazionalismo da lontano
La prima Costituzione repubblicana del 1924 (Teşkilat-i Esasiye Kanunu) stabilì che si era “Turchi”, senza distinzione di religione e di razza, “in considerazione della comunanza di patria” (articolo 88).
In verità, il fattore religioso avrebbe continuato a costituire l’aspetto fondamentale nella questione delle minoranze in tutta l’area vicino orientale. Le minoranze, specialmente quelle escluse dal Trattato di Losanna (24 luglio 1923), si videro, così, bandite e negate, costrette a celare la propria identità non turchizzata, la propria lingua nelle scuole, nei media e, più in generale, nelle istituzioni pubbliche.
In generale, tutte le minoranze furono sottoposte a politiche di omogeneizzazione imposte dall’alto: del gruppo turcofono dominante, tutte le popolazioni anatoliche avrebbero dovuto adottare la lingua, la cultura, la religione, ecc.
In questo senso, i testi scolastici sono impostati tuttora nel senso di proporre gli stereotipi negativi relativi alle minoranze, in maniera fortemente discriminatoria.
Si tende ad azzerare le differenze nel nome di una forte turchizzazione e sunnizzazione con le parole d’ordine del Tekçılık, e cioè del Tek Devlet (un solo stato); Tek Vatan (una sola patria); Tek Millet (una sola nazione); Tek Bayrak (una sola bandiera).
Sono questi i quattro principi cardine, ispiratori del nazionalismo turco e che sono stati ripresi dal presidente Erdoğan che ha iniziato la sua carriera politica da conservatore con un’identità islamista, ma che negli ultimi anni, con l’obiettivo di ottenere il consenso della destra nazionalista del MHP, ha iniziato a utilizzare un registro retorico fortemente nazionalista.
Il Presidente non fa che riadattare questi slogan per rimarcare qualcosa di diverso: non a caso queste quattro espressioni cardine del nazionalismo turco sono da lui rappresentate con il saluto della Rabia (gesto delle quattro dita della mano adottato dalla Fratellanza musulmana di Mohammed Morsi, repressa nel sangue dal colpo di Stato in Egitto del 3 luglio 2013).
E dunque quando dice “Millet”, cioè Nazione, intende in realtà la “ummah”, ovvero la comunità islamica nella sua interezza. Quindi, anche se non lo dice esplicitamente, la sua retorica è pervasa da elementi islamici. Per questo motivo, questa commistione tra nazionalismo e islamismo rappresenta un problema fortemente divisivo perché la Costituzione turca, già nei suoi primi articoli, parla di secolarismo e di Stato di diritto.
Tracce autobiografiche
Perché Erdoğan accetta di correre il rischio di passare alla storia come capo di un governo che chiude un partito come aveva fatto il potere kemalista e golpista nel corso della storia repubblicana contro i partiti islamisti?
Perché lascia che gli oppositori possano finire in galera e che siano interdetti dalla vita politica per almeno cinque anni come era accaduto a lui?
Il capo dello stato era giunto al potere nel 2002 promettendo di porre fine a tali pratiche antidemocratiche.
L’ascesa di Erdoğan nella politica turca iniziò nel 1994 quando fu eletto sindaco di İstanbul, ma un importante punto di svolta fu la sua prigionia per aver recitato alcuni versi di una poesia di Ziya Gökalp durante una manifestazione a Siirt nel 1997. Gökalp è stato un grande poeta nazionalista del primo ‘900, principale ideologo del movimento dei Giovani Turchi e del primo kemalismo.
La poesia letta da Erdoğan era intitolata Aşker Duası (La preghiera del soldato), era stata scritta in occasione delle Guerre balcaniche in lode dei soldati ottomani al fronte.
Ad onor del vero Erdoğan aggiunse alla poesia di Gökalp dei versi con forti accenti islamisti non presenti nell’opera originale del poeta turco. I versi incriminati recitavano così: «Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati». Erdoğan fu riconosciuto colpevole di «incitamento all’odio religioso» e fu condannato a dieci mesi di reclusione, poi ridotti a quattro. La condanna subita non danneggiò la reputazione di Erdoğan, come i suoi accusatori speravano, anzi: ne rafforzò l’immagine di «uomo del popolo», perseguitato dalla classe dirigente kemalista con accuse pretestuose.
Erdoğan fu quindi rimosso dal suo incarico di sindaco e fu nominato come fiduciario il suo vice.
In prigione, era conosciuto come “Şiir okuyan adam” (“L’uomo che legge le poesie”) e ciò aprì la strada alla fondazione del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) e alla sua ascesa al potere.
E più recentemente il partito di Erdoğan fu oggetto di un tentativo di chiusura: il 14 marzo 2008 la suprema Corte d’Appello chiese all’Alta Corte la chiusura dell’AKP.
Schiacciato a destra
Questo Erdoğan appartiene ormai ad un altro tempo.
Ora il leader turco vede mese dopo mese i suoi consensi diminuire e, come è noto, dal 2018 non ha la maggioranza assoluta in Parlamento e dunque ha bisogno del suo prezioso alleato di estrema destra al quale ha offerto su un piatto d’argento la testa dell’HDP. Condizione questa, infatti, imposta al presidente turco dal leader del Partito del movimento nazionalista (MHP).
Bahçeli ora sembra il “leader ombra” della Turchia, dopo aver “intrappolato” Erdoğan in un angolo con accanto gruppi di potere politico- affaristici, corrotti e vicini a ideologi dell’estremismo di destra-nazionalista, come quella dei Lupi Grigi con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale.
Il leader turco appare sempre più allo sbando, in piena difficoltà, soprattutto per la grave crisi economica che sta attraversando la Turchia.
Logorato e indebolito da diciotto anni di potere, ora è anche alle prese con una faida interna al suo partito che ha vissuto già due scissioni con la fuoriuscita di leader storici e fondatori e non sembra più in grado di concepire e dettare una sua agenda e una sua strategia.
Ecco perché si affida oltre che al MHP anche al piccolo partito anti NATO Vatan Partisi (Partito della Patria) e a circoli del nazionalismo estremo, a quelli islamisti e agli eurasisti che guardano alla Russia e alla Cina, tutte correnti che, seppur elettoralmente marginali, hanno non poca influenza nella società turca dal momento che, dopo il tentato golpe del 2016, sono tornate ad occupare posizioni di rilievo in particolare nelle Forze armate e controllano gangli vitali delle istituzioni del paese.
Erdoğan sembra convinto, col suo alleato Bahçeli, che potrà arrestare la sua emorragia di consensi coltivando l’elettorato di estrema destra nazionalista e quello dell’islamismo più radicale ed eliminando dalla scena politica ed elettorale il più insidioso partito d’opposizione.
Arma a doppio taglio
Se l’HDP dovesse essere chiuso, sarebbe l’ottavo partito filocurdo ad essere messo al bando per il suo presunto coinvolgimento in attività “terroristiche”.
Il potere di chiudere un partito politico spetta alla Corte costituzionale che dovrà decidere con la maggioranza dei due terzi.
Dalla sua fondazione nel 1963, l’Alta Corte ha chiuso ventisei partiti, ma già prima della sua costituzione diciotto formazioni politiche erano state chiuse dai tribunali militari ed altre per decisione del Consiglio dei ministri e di tribunali locali.
Ma la chiusura dell’HDP con l’arresto dei suoi parlamentari e dirigenti potrebbe rivelarsi una mossa suicida per l’alleanza di governo che cerca di liberarsi dalle sabbie mobili in cui sta sprofondando per la costante perdita di consensi provocata soprattutto dalla crisi economica senza precedenti che sta vivendo il paese, da quando l’AKP è al governo.
Assieme alla richiesta di dichiarare fuorilegge l’HDP, è stata presentata quella del divieto di esercitare politica per i suoi 687 membri e sono scattati subito raid della polizia in alcune loro sedi come quelle di Istanbul, Ankara, Eskişehir e Adana.
Si vuol dunque impedire che i dirigenti dell’HDP ancora in libertà formino un altro partito. L’Alleanza popolare costituita dall’AKP e dal MHP, infatti, sa che l’HDP ha già pronto un altro partito, pienamente operante, e che è il Partito democratico delle Regioni (DBP), pronto dunque a presentarsi alle elezioni.
Persecuzione politica
I curdi sono abituati ad essere messi fuorilegge, hanno sempre saputo che quando la loro presenza sarebbe diventata scomoda per il regime, quest’ultimo avrebbe chiuso il loro partito come è accaduto ben sette volte.
E dunque quando fondano una organizzazione politica, contemporaneamente ne aprono una di riserva perché la legge sui partiti in Turchia richiede che una forza politica per operare abbia sedi aperte e registrate in almeno 41 province, cioè nella maggior parte del paese.
E l’interdizione dalla vita politica di 687 dirigenti di questo partito servirà proprio a impedire che vi possano essere in libertà esponenti politici pronti a trasferirsi nel nuovo contenitore politico.
Ci troviamo di fronte ad una vera e propria persecuzione politica perché l’HDP è un partito di sinistra ambientalista, con particolare attenzione ai diritti umani, sociali e politici, delle minoranze etniche e religiose, dei diritti delle donne e di quelli LGBTI.
Era nato con l’intento di estendere la propria influenza oltre i confini ristretti del sudest anatolico a maggioranza curda. Dunque non più regionale, ma capace di raccogliere il consenso di tutto il paese, di unire quella sinistra turca delusa dai partiti tradizionali.
Il suo leader curdo e fondatore, Selahattin Demirtaş, si era impegnato in una operazione di importanza rivoluzionaria e inimmaginabile in Turchia fino a qualche anno prima: traghettare la galassia del movimento curdo e quella per i diritti umani sul terreno della lotta politica civile e pacifica.
Demirtaş sta pagando duramente questa svolta ed è dietro le sbarre dal 4 novembre 2016: da allora è recluso nel penitenziario di massima sicurezza di Edirne in una cella di tipo F, nonostante la sentenza perentoria della CEDU che ne ha chiesto l’immediata liberazione perché la sua detenzione è stata decisa per motivi palesemente politici.
Sul leader curdo ora pendono le accuse di “propaganda e appartenenza a un’organizzazione terroristica”, secondo la famigerata legge antiterrorismo del codice penale turco (TCK) per “aver elogiato il PKK e il suo fondatore Abdullah Öcalan” per 93 volte durante i suoi comizi.
Da quando è stato fondato, nell’ottobre del 2012, l’HDP ha rappresentato per l’AKP un elevato fattore di rischio per il raggiungimento della maggioranza assoluta in Parlamento nelle elezioni che si sono da allora susseguite. Per questo l’HDP ha visto decimare la sua classe dirigente: tredici parlamentari arrestati, oltre cento sindaci defenestrati, molti dei quali finiti dietro le sbarre assieme a oltre ventimila tra dirigenti e militanti.
E ora è stato anche aperto un fascicolo contro altri nove deputati di questo partito, tra cui la copresidente Pervin Buldan, che rischiano di perdere l’immunità parlamentare e di finire dietro le sbarre.
L’attuale presidente dell’HDP, Mithat Sancar, ha definito la repressione in atto contro il suo partito come “un colpo di stato politico“, simile a quello già avvenuto il 2 marzo del 1994 quando alcuni deputati curdi eletti tra le file dell’allora Partito socialdemocratico (SHP) persero lo status di parlamentare e furono arrestati; tra gli altri, Leyla Zana, premio Sakharov nel 1995, colpevole di aver giurato in Parlamento in lingua curda e Ahmet Türk figura carismatica del movimento curdo. La polizia entrò in Parlamento e li arrestò.
Un colpo di stato politico, sostiene Sancar, come quello avvenuto il 4 novembre 2016, quando furono arrestati i copresidenti e parlamentari dell’HDP.
Ma nonostante ciò per Erdoğan potrebbe comunque essere difficile uscire vincitore da eventuali elezioni anticipate.
Rischio-boomerang
Questa volta infatti la criminalizzazione e la repressione degli esponenti politici dell’HDP non sta raccogliendo consensi al di fuori della ristretta cerchia dell’alleanza di governo.
Se una grande maggioranza del partito anticurdo di Bahçeli sostiene la chiusura dell’HDP, nell’AKP di Erdoğan vi sono diffuse voci di dissenso e, al di fuori di questo schieramento, questa pratica mutuata dai regimi del passato è quasi unanimemente condannata.
Contrari sono, oltre al maggior partito d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (CHP) di Kemal Kılıçdaroğlu; Meral Akşener, sua alleata con l’İYİ Parti (Il Buon Partito), il leader del Partito del Futuro (Gelecek Partisi), dell’ex primo ministro Ahmet Davutoğlu; il leader del Partito della democrazia e del progresso (DEVA), dell’ex vice primo ministro, Ali Babacan, e il leader del piccolo partito islamista, Saadet Partisi, di Temel Karamollaoğlu.
Contrario è anche l’ex capo di stato Abdullah Gül, fondatore assieme a Erdoğan dell’AKP, ma ora fuoriuscito anch’egli dal partito e ispiratore del DEVA.
Se dovesse essere chiuso l’HDP, si potrebbe creare uno scenario simile a quello a cui abbiamo assistito nelle elezioni locali del 31 marzo 2019 quando il partito di Erdoğan subì una sconfitta bruciante in tutti i grandi centri urbani del paese grazie anche ad una intelligente ed efficace alleanza elettorale: quella tra il CHP e l’İYİ Parti che vedeva l’HDP praticare la “desistenza” con la rinuncia a presentare propri candidati nei grandi centri urbani, dirottando tutti i suoi elettori sul Partito repubblicano del popolo.
Con buona pace di Erdoğan, questa desistenza potrebbe essere una carta vincente se praticata anche nel sudest anatolico.
Foto: Sostenitori dell’HDP in piazza per il Nowruz, il capodanno persiano – Istanbul, 20/3/2021 (Yasin AKGUL / AFP)
ALMENO QUARANTA COMBATTENTI CURDI ASSASSINATI DAI GAS ASFISSIANTI UTILIZZATI DA ANKARA NEL 2021
Gianni Sartori
Anche se talvolta viene spontaneo porsela, qualsiasi domanda, qualsiasi perplessità (del genere: ma ne varrà davvero la pena? Come possono sperare di sconfiggere un tale avversario…?) sarebbe fuori luogo.
Nella resistenza curda – almeno per chi possiede un minimo di memoria storica – sopravvive e si alimenta quella che un filosofo francese, parlando della lotta di liberazione del popolo algerino, definì “dignità umana”. Quella residua almeno.
Possiamo simpatizzare o dissentire, per esempio, dal progetto del Confederalismo democratico. Possiamo mantenere qualche riserva sulle strategie e alleanze adottate in Rojava.
Ma possiamo soltanto inchinarci di fronte al sacrificio dei militanti curdi che, difendendo il loro popolo, la loro Terra, in realtà difendono l’Umanità. Quella delle vittime, degli oppressi e sfruttati. Le minoranze, gli esclusi, le donne, i proletari, i popoli indigeni…
Contro i curdi – e contro quello che rappresentano – anche quest’anno la Turchia non ha esitato a scatenare la guerra chimica. Per quanto ufficialmente proibita dalle Convenzioni internazionali a cui, se pur in teoria, perfino Ankara aderisce.
Almeno quaranta guerrigliere e guerriglieri curdi sono rimasti uccisi in tali vili attacchi – autentici crimini di guerra – nelle zone di Gare, Zap, Metîna e Avaşîn.
L’invasione turca del Bashur, nelle “zone di difesa di Medya”,cominciava il 24 aprile 2021. Probabilmente la più estesa, intensa e brutale tra le operazioni transfrontaliere dell’esercito turco nel Kurdistan iracheno, ma non certo la prima.
E anche questa volta, da subito, aveva incontrato una strenua Resistenza.
La Resistenza di Şehîd-Munzur
Già nella notte del 23 aprile era apparso evidente che uno dei principali obiettivi delle truppe turche era il monte Şehîd-Munzur che si innalza in posizione strategica nella regione di Manreşo di Avaşîn. La strenua resistenza, di oltre dieci giorni, incontrata dagli invasori nellazona di Manreso aveva presto vanificato il progetto turco di completare in breve tempo l’operazione contro Zap, Avaşîn e Metîna (nonostante le postazioni curde venissero sottoposte a intensi bombardamenti, sia da terra che dall’aria). Come ritorsione i soldati turchi non si fecero scrupolo di utilizzare mezzi indegni. Stando all’esterno dei tunnel, dove si guardavano bene dall’entrare, gridavano di arrendersi perché “non vi succederà niente”. Ma ricevendo in risposta soltanto le pallottole e le granate dei guerriglieri. E a questo punto (come documentarono le immagini girate dalle HPG) i turchi utilizzavano i gas tossici e asfissianti.
Purtroppo il prezzo pagato dai partigiani curdi era stato alto. Tra i caduti, provenienti da ogni angolo del Kurdistan, il comandante Serhat Giravî (Kamuran Alpsar) e i guerriglieri Inen Ruken Zagros (Seer Bingöl), Sarya Diyar (Bişeng Hezer), Canfeda Hesekê (Şehbaz İzzettin Seydo), Xebat Aso (Ubeyt Mevludi), Zafer Tolhildan (Muhammed Abdulkadir Hüseyin) e Kamuran Amed (Mustafa Şimşek / Amed).
Stando alle notizie fornite dalle agenzie curde, questo gruppo in particolare avrebbe resistito, combattendo nei tunnel già invasi dai gas, per altri tre giorni.
La resistenza di Zendûra e Aris Faris
Altra strenua resistenza quella incontrata dai turchi nella notte del 24 aprile sul fronte di Metîna.
Inoltre HPG e YJA, al comando di Rêber Zana (Ilhan Tokdemir), mantennero le posizioni dall’11 al 13 giugno sul monte Zendûra dove morirono sei guerriglieri. E per almeno cinque di loro il decesso era dovuto sicuramente ai gas asfissianti.
Un mese prima, tra il 6 e l’8 maggio, furiosi combattimenti – con notevoli perdite da parte turca nonostante la sproporzione delle forze in campo – e attacchi con armi chimiche (da parte dell’esercito di Ankara ovviamente) avvennero nella zona di Aria Faris (regione di Avaşîn). Cinque guerriglieri che avevano deciso di continuare a combattere all’interno dei tunnel erano morti asfissiati: Amara Cûdî (Cihan Kapar), Diyana Maria (Dîcle Omer Ahmet), Jîn Yılmaz (Bahar Nas), Rûbar Marufî (Şervan Özkan) e Sarya Çiya (Sarya Mahmut)
La Resistenza di Girê Sor
A Girê Sor, il 7 luglio era morto Baz Gever (Fırat Şahin), altra vittima della guerra chimica. Qui, non riuscendo a infrangere le linee curde (nonostante la superiorità numerica e tecnologica), il 3 settembre i turchi fecero uso nuovamente dei gas causando la morte di altri tre guerriglieri. Botan Özgür (Celal Özcan), Zinarîn Welat (Rama Şemdîn) e Delal Qamişlo (Hîva Mamo) sono stati ricordati dalle HPG in un comunicato per la loro “epica resistenza”.
Altro attacco chimico, sempre a Girê Sor, il 15 settembre con tragiche conseguenze per altri tre guerriglieri: Argeş Botan (Hasan Emcür), Özgür Bagok (Fatma Balica) e Serhildan Mordem (Serdar Dinç).
La Resistenza di Werxelê
A entrare nella Storia, oltre alla resistenza curda in Girê Sor, quella di Werxelê. Dopo mesi di fallimentari attacchi aerei, i turchi avevano fatto ricorso a tonnellate di TNT sganciate dagli elicotteri e fatte poi brillare all’imbocco dei tunnel. Ma non essendo riusciti a sloggiare i guerriglieri nemmeno così, si erano nuovamente rivolti ai gas asfissianti. Pare di “nuova generazione”. Con effetti devastanti, secondo le HPG, su ogni essere vivente della zona colpita.
Risale al 5 ottobre la morte sul fronte di Werxelê, per asfissia o intossicazione dai gas, di altri cinque combattenti per la libertà curdi:
Cumali Çorum (Zeynel Erocağı), Çavrê Kamuran (Süheyla Kırmızıtaş), Dilvîn Dalaho (Rêzan Deraferîn), Amara Cûdî (Rojîn Ramazan) e Mahir Kop (Çetin Çelik).
Riassumendo.
I militanti curdi uccisi dai gas asfissianti in Bashur (Kurdistan entro i confini iracheni) nel 20121 appartenevano alle Forze di Difesa Popolare (HPG – Hêzên Parastina Gel,) e alle Unità di Difesa delle Donne Libere (YJA Star- Yekîtiya Jinên Azad Star).
Sei di loro hanno perso la vita in febbraio nel corso del tentativo (sostanzialmente fallito) di invasione di Gare.
Gli altri 34 durante la guerra durata oltre sei mesi nelle regioni di Zap, Avaşîn e Metîna.
Gianni Sartori