Migliora la sicurezza in Tunisia a due anni dagli attentati del 2015. Rimane però il pericoloso rientro dei tunisini partiti per la jihad.
Dal novembre 2015, la Tunisia è in stato d’emergenza a seguito dell’attacco ad un convoglio della Guardia presidenziale a Tunisi. Lo stesso anno, altre due azioni terroristiche stavolta contro turisti stranieri, al Museo del Bardo di Tunisi e alla spiaggia di Sousse, con un bilancio di almeno 60 morti.
Un allarme terrorismo che affonda le radici negli anni del governo guidato dal partito islamista Ennahdha secondo Alaya Allani, ricercatore in islamismo e salafismo nella regione MENA. Proprio quel periodo ha visto un proliferare di moschee integraliste, imam fanatici, e associazioni caritative finanziate da paesi del Golfo per reclutare giovani combattenti.
Una vera infrastruttura salafita jihadista che si è formata sotto gli occhi dello Stato. Al punto che nel maggio 2012, a Kairouan si è tenuto un convegno organizzato dal gruppo Ansar Al-Charia, con a capo Abou Ayad, a cui hanno partecipato 5.000 salafiti cantinelando ‘Obama, Obama, siamo tutti Osama!’ e sventolando bandiere nere.
A questo, continua il ricercatore, si è aggiunta la crisi in Libia con un conseguente smantellamento delle strutture di sicurezza dello Stato, e una penetrabilità delle frontiere che ha permesso l’infiltrazione di terroristi e armi nei confini tunisini.
Risultato: ben 50 operazioni terroristiche sul territorio tra il 2011 e il 2015.
Dal 2016, la Tunisia si batte per garantire la sicurezza del paese grazie a una più forte strategia del governo, e a misure anti-terrorismo rafforzate compresi i servizi di intelligence e la cooperazione internazionale.
Negli ultimi due anni, le azioni si sono ridotte a cinque e una decina sono state sventate, 1.500 tunisini sono stati arrestati in cellule dormienti, ed è stata recentemente istituita una commissione parlamentare incaricata di indagare sulla formazione di reti jihadiste in Tunisia, informa Allani.
Sicurezza che va a passo con lo stato d’emergenza, prolungato dal 2015 e riconfermato il 16 febbraio scorso per altri tre mesi. Uno ‘’slogan’’, quello della sicurezza nazionale, usato come pretesto per reprimere i movimenti sociali e soffocarne l’azione collettiva, a detta di Ben Amor Romdhane, addetto alla comunicazione presso il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES).
Tra febbraio e marzo di quest’anno, più di 300 giovani tunisini sono finiti in tribunale per appartenenza a movimenti sociali e partecipazione a sit-in, manifestazioni o scioperi, fa sapere Romdhane. Molti i lavoratori precari e i disoccupati arrestati nei posti di lavoro, per strada o negli spazi pubblici. Giovani che hanno delle rivendicazioni sociali ed economiche.
Per il FTDES la sicurezza tunisina parte dalla garanzia di opportunità di lavoro, un’economia funzionante, una ripresa del turismo, e che non sia basata esclusivamente su un approccio militare. Secondo uno studio pubblicato dal Forum a dicembre del 2016, il 55% dei giovani tunisini vogliono espatriare.
Il governo, tuttavia, trova nello stato d’emergenza un modo per legittimare la limitazione di libertà e le violazioni di diritti umani dietro la lotta al terrorismo.
Un rapporto di Amnesty International dello scorso 13 febbraio mostra che, negli ultimi due anni, le autorità tunisine hanno fatto ricorso ai vecchi metodi brutali, alla tortura, agli arresti arbitrari e alle perquisizioni senza mandato, spesso durante raid notturni.
L’organizzazione di difesa dei diritti denuncia provvedimenti ‘’sproporzionati’’ e ‘’arbitrari’’ come ad esempio il divieto a 5.000 persone di viaggiare all’estero con la motivazione di impedire di unirsi ai gruppi armati nella regione MENA, gli arresti domiciliari o il divieto di frequentare determinate zone a 138 persone.
Un delicato equilibrio da gestire quello tra sicurezza e salvaguardia di diritti e libertà.
Si tratta perlopiù di violazioni commesse per mano di alcuni ufficiali o agenti, precisa Moez Ali, presidente dell’Unione dei tunisini indipendenti per la libertà (Util). Individui che non si sono adattati al nuovo contesto del dopo-rivoluzione, adottano ancora le pratiche del vecchio sistema perpetrando abusi di potere, Ali aggiunge.
Uno studio condotto dall’ Util ha rivelato che tra i fattori di spinta per i tunisini che si arruolano tra i foreign fighters vi è la violenza subita dai giovani nelle stazioni di polizia nelle zone marginalizzate del paese, che fomenterebbe odio contro le istituzioni di stato.
La Tunisia sembra per ora riesca a contenere l’emergenza terrorismo, e si prepara alla stagione estiva per rilanciare il turismo, settore chiave per l’economia nazionale. La situazione resta, tuttavia, a rischio come spiega Mazen Cherif, direttore del Centro Tunisino in studi di sicurezza internazionale, che parla di almeno 1.000 jihadisti negli ultimi due anni, di cui la stragrande maggioranza liberi e in attesa della prossima chiamata, e più di 40.000 potenzialmente pronti a partire.
Cherif sottolinea che la risposta al terrorismo debba essere non solo in chiave militare ma anche socio-economica, educativa, culturale, religiosa.
A preoccupare è il ritorno di 5.000 jihadisti tunisini partiti per la Siria e l’Iraq, unitamente alla mancanza di un modello di sviluppo per il paese e l’attuale congiuntura economica.