Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nei prossimi giorni, il sigillo della fiducia da parte del partito islamista Ennahda consentirà al primo governo post-transizione della giovane democrazia tunisina di ottenere la maggioranza in Parlamento. La volontà del partito di trovare un accordo per partecipare al governo insieme ai rivali è stata molto apprezzata, e interpretata come un discostarsi dall’atteggiamento fondamentalista militante che caratterizza altri partiti islamisti della regione. Nell’immediato, però, il grande partito laico del Nidaa Tounes si sta accingendo a siglare un pesante compromesso politico.
Quasi tutti i suoi ministri chiave e leader parlamentari si sono in passato fortemente opposti all’ipotesi di una qualsiasi coalizione con Ennahda. Le motivazioni erano chiare e senza possibilità di appello: Ennahda aveva perso le elezioni, era un movimento religioso che aveva deciso di immischiarsi in politica e nel periodo del suo governo di transizione, tra il 2011 e il 2014, aveva affossato l’economia del Paese. Sia i coordinamenti regionali del Nidaa Tounes che 70 dei suoi 89 parlamentari hanno detto no a un’alleanza, e fuori dalla sede del partito hanno anche avuto luogo delle piccole manifestazioni di protesta.
Stabilire se la sorprendente decisione da parte di Nidaa Tounes di tendere comunque la mano a Ennahda in cerca di una conciliazione rappresenti un gesto di ottimismo o una manovra opportunistica dipende dal punto di vista da cui la si guarda. È un tentativo di dar vita a una nuova cultura politica in grado di trascendere il vecchio modello improntato all’esclusione? O è piuttosto l’aritmetica parlamentare dei 69 voti di Ennahda a far ingoiare la pillola amara, soprattutto visto e considerato che il premio arriva in cambio di concessioni relativamente modeste?
Recentemente intervistato a Cartagine, il leader del Nidaa Tounes Mondher Belhadj Ali ha dichiarato che la frattura cruciale nella politica tunisina non è quella che contrappone il Nidaa alla Nahda. “Con loro possiamo intrattenere anche ottimi rapporti. Non andranno di certo a finire in galera sotto il nostro governo”, ha spiegato. “I veri nemici del paese sono piuttosto la povertà, l’analfabetismo e il mancato sviluppo economico”. Tali opinioni rispecchiano una tolleranza tutta nuova nei confronti di Ennahda in quanto avversario politico, per quanto si tratti di un avversario politico che appartiene al fronte diametralmente opposto a quello dei centri del potere.
Ecco perché la simbolica concessione con cui il governo si prepara questa settimana ad accogliere Ennahda come partner legittimo e democratico assume un significato particolare. Di fatto, in quanto accadrà, il valore maggiore ce l’ha la tappa storica più che l’effettiva condivisione dei poteri: gli islamisti sono infatti estromessi dalle cerchie politiche interne al governo. Tuttavia, non si configurerà nemmeno come un’alleanza silenziosa. Ennahda è infatti formalmente membro della coalizione, con quattro portafogli sui 32 membri dell’esecutivo. Il portavoce del partito, il trentanovenne Zied Laadhari, che ha studiato in parte in Francia e in parte negli Stati Uniti, è stato nominato Ministro del Lavoro con ulteriori tre deleghe (finanze, sviluppo internazionale e sanità).
Questa scelta di inclusione rappresenta l’ennesimo segnale del fatto che Nidaa Tounes non intende tenere per sé tutto il potere esecutivo, pur avendo vinto sia le elezioni parlamentari che quelle presidenziali. Il partito ha scelto come Primo Ministro, per esempio, il tecnico Habib Essid, e ha nominato ministri della Giustizia e della Difesa due rappresentanti nopartisan. In ciò si riflette una certa nostalgia per l’epoca d’oro dei primi anni di Bourguiba, quando la democrazia tunisina somigliava più a un semipresidenzialismo alla francese che non all’autocrazia mediorientale in cui si sarebbe di lì a poco trasformata. In uno scenario ideale, un presidente a elezione diretta che goda della maggioranza in Parlamento – come Habib Bourguiba o Charles de Gaulle – è tranquillamente nelle condizioni di gestire sia gli affari di Stato che il governo.
L’aspirazione a garantire una stabilità dello Stato tunisino è il principale alibi addotto dal partito per giustificare la scelta di riciclare alcuni personaggi dell’ex regime. Al Nidaa Tounes non servono rivoluzionarie epurazioni – è il senso del loro discorso – perché solo la vecchia generazione che ha conosciuto Bourguiba gode del prestigio e dell’esperienza necessari a suggellare la transizione alla democrazia sotto gli auspici di una forte leadership presidenziale. L’autorevole giurista e leader della rivoluzione Yadh Ben Achour ha osservato in occasione di un convegno organizzato a Tunisi la scorsa settimana da Reset DOC come al netto di tutto tra i fattori che maggiormente hanno contribuito a salvare il Paese dalla catastrofe ci sia stata la capacità della Tunisia di resistere alle spinte robespierriane. La Tunisia sta vivendo un paradosso, ha spiegato Ben Achour, perché a realizzare gli ideali della rivoluzione sono in questo frangente chiamati personaggi afferenti all’ancien regime.
È così che vengono accolti con orgoglio al potere individui che hanno avuto incarichi di governo sotto Bourguiba (1957-1987), a cominciare dallo stesso ottantanovenne Béji Caïd Essebsi che il popolo ha eletto presidente, il quale è stato quattro volte ministro nonché consigliere personale del padre fondatore della Tunisia moderna. Anche il nuovo viceministro alla Sicurezza nazionale è stato in passato a capo della Guardia presidenziale sia di Bourguiba che di Ben Ali. I vecchi lealisti si stanno quindi assumendo l’impegno, così come i quattro membri dell’esecutivo di Ennahda, di difendere la costituzione tunisina gestendo congiuntamente e in accordo gli affari del Paese.
Quando Marocco e Algeria hanno censurato un numero di gennaio del settimanale francese Canard Enchaîné che conteneva alcune vignette sul profeta, le autorità tunisine hanno invece lasciato che la rivista restasse disponibile nelle edicole del Paese. La fama di cui la Tunisia gode in termini di difesa delle libertà democratiche, però, mal si concilia con un altro elemento che la distingue dagli altri Paesi della regione. Malgrado l’esigua popolazione, la Tunisia è stata il Paese che ha inviato il più ampio contingente militare di tutti – tremila soldati – per dare man forte agli estremisti islamici in Siria e Iraq. Ed è la nazione di origine del membro dell’ISIS che il 27 gennaio ha fatto esplodere un’autobomba nel corso di un attentato a un hotel libico nel quale hanno perso la vita nove persone. Alla luce di tutto ciò, il governo di coalizione è concepito allo scopo da una parte di tenere insieme il fronte repubblicano dei tunisini che hanno giurato lealtà allo stato di diritto e dall’altra di tenere a bada i due demoni nazionali dell’islamismo militante e dell’anti-islamismo radicale.
Ora che dalla transizione democratica si passerà alla pratica quotidiana della politica di coalizione, ci sono già tutti i segnali delle problematiche di ordine religioso che si verranno a creare. Nello specifico, sicuramente sarà oggetto di accese contestazioni il controllo delle moschee, degli imam e delle trasmissioni radiotelevisive.
A fine gennaio, il ministro degli Affari religiosi ha rimpiazzato l’imam della storica moschea Zitouna che da quasi tre anni – grazie alla complicità di Ennahda – eludeva il controllo del governo. L’esecutivo ha riaffermato la propria autorità ministeriale su tutte le moschee e ha minacciato di intraprendere “azioni legali contro chiunque avesse avuto l’ardire di contestare le scelte della sua amministrazione”.
A Ennahda è oggi richiesto di accettare altre eredità di epoca prerivoluzionaria per rassicurare i suoi alleati laici. Il nuovo ministro degli Affari religiosi è un ex Gran Mufti che Ennahda aveva rimosso e sostituito nel 2013. Era stato nominato nel 2008 dall’ex presidente Ben Ali ma si era ben presto fatto riconoscere per l’attivismo contro i fenomeni delle milizie stranieri e delle fatwa all’estero nonché per l’appoggio ai finanziamenti statali alle TV religiose.
Sempre sulla stessa linea, una delle ultime azioni intraprese dall’organo indipendente per la regolamentazione del settore audiovisivo che ha supervisionato la fase di transizione democratica in Tunisia è stata, a fine gennaio, la chiusura di tre stazioni radio e cinque canali televisivi, tra cui MFM Radio e Zitouna TV, che facevano da megafono alle dichiarazioni politiche dei leader di Ennahda. Ennahda e il sindacato nazionale dei dirigenti media lo hanno definito un pesante attacco alle libertà di stampa garantite dalla rivoluzione.
Ora che entrerà a far parte dell’apparato statale, Ennahda avrà molte meno possibilità di criticare scelte politiche del genere. Lo stesso dicasi, del resto, per la frangia più strenuamente anti-islamista del Nidaa Tounes, messa di fronte al fait accompli delle nozze forzate con Ennahda. Finché rospi del genere saranno equamente distribuiti ad accompagnare d’altro canto un compromesso di portata epocale, la scelta fatta di comune accordo dalla Tunisia di minimizzare qualsiasi polarizzazione della sua società resterà l’invidia di tutto il Nordafrica, nonché un insieme di circostanze difficili da replicare altrove.
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Jonathan Laurence è professore associato di Scienze Politiche al Boston College, senior fellow non residente in Politica Estera della Brookings Institution e membro del comitato consultivo di Reset DOC. Ha scritto The Emancipation of Europe’s Muslims (“L’emancipazione dei musulmani europei”, Princeton 2012).
Traduzione di Chiara Rizzo
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