Sono scesi in piazza in migliaia domenica 14 gennaio in tutta la Tunisia per ricordare che sono passati sette anni dal giorno della fuga di Ben Ali e dall’inizio di un nuovo corso per la storia tunisina dopo 23 anni di autoritarismo. Canti, slogan, rivendicazioni vecchie e nuove si sono accavallate e confuse su viale Burghiba a Tunisi e molte altre città della nazione per poi unirsi in un’unica voce, quella di un popolo che non smette di lottare per chiedere giustizia sociale.
In piazza hanno sfilato tutti, sindacati, partiti e società civile, dall’Unione generale degli studenti al Forum nazionale progressista, dalle associazioni femminili agli artisti, dalle famiglie dei martiri e dei feriti della rivoluzione al sindacato dei lavoratori Ugtt, dal partito islamico Ennhadha ai partiti del governo di unità nazionale fino alla galassia delle sinistre con il Fronte popolare e Al Joumhouri in testa con lo striscione “La Tunisia recupera la sua rivoluzione”.
A sette anni dalle rivolte che hanno segnato l’inizio delle cosiddette primavere arabe, i tunisini hanno manifestato con i volti preoccupati, delusi e arrabbiati, sentimenti già espressi nel susseguirsi di violente proteste, atti vandalici e saccheggi cominciati l’8 gennaio in diversi angoli del Paese con il corredo di 803 arresti, 97 agenti di polizia feriti, 87 autoveicoli danneggiati, alcune caserme di polizia date alle fiamme e un morto a Tebourba. Ovviamente queste non sono manifestazioni comparabili a quelle che hanno portato alla cacciata di Ben Ali, che ha aperto un percorso democratico nel paese e ha risvegliato i sogni di una popolazione cresciuta nell’oppressione, ma nascono dalla stessa rabbia sociale e dal desiderio di difendere la dignità. I tunisini non hanno mai smesso di usare la piazza per manifestare dissenso, ma questa volta le proteste si sono caricate di più significati e, proprio l’avvicinarsi del 14 gennaio, “giorno della liberazione tunisina”, istituito festa nazionale, ha condotto i tunisini a fare un bilancio e a sentirsi strozzati dal carovita e sfiduciati verso la classe dirigente incapace di offrire soluzioni per aumentare l’occupazione e lo sviluppo economico.
I cittadini sono stati particolarmente scossi dalla nuova manovra finanziaria, entrata in vigore il primo gennaio, che prevede sensibili aumenti del carico fiscale su salari, imprese e consumi, tra cui il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità, dalla frutta e verdura alla benzina, ma il malcontento è ben più antico e radicato. La richiesta di lavoro e di una vita dignitosa erano già alla base delle rivolte esplose nel 2010. I tunisini, in particolare i giovani, non hanno mai avuto molte possibilità di accesso al mercato del lavoro e quando, con gli attentati terroristici del museo del Bardo (marzo 2015) e della spiaggia di Sousse (giugno 2015) anche il settore del turismo è stato affossato, i problemi sono cresciuti e le speranze si sono spente.
L’aggravamento della situazione economica, dunque, è dovuto a più aspetti e senza dubbio il crollo del turismo che rappresentava l’8% del prodotto interno lordo ne è uno, ma tra le cause principali oggi ci sono i vincoli imposti dal Fondo Monetario Internazionale per sanare il programma quadriennale di aiuto al paese (2,9 miliardi di dollari). Sono infatti questi vincoli che hanno portato all’approvazione della legge finanziaria 2018 che, sebbene si proponga di contenere i conti pubblici, andrà a gravare sulle fasce più deboli della popolazione e sul ceto medio, ovvero su quei soggetti che hanno già risentito della svalutazione del dinaro. La valuta nazionale ha perso circa il 10% del proprio valore rispetto all’euro tra il 2015 e il 2016 e oltre il 20% tra il 2016 e il 2017.
I tunisini, dunque, si sono mostrati stanchi e sofferenti e non hanno più voglia di aspettare un cambiamento. Lo chiedono subito. Il messaggio è arrivato ben chiaro dalla campagna Fech Nestannaou (“Cosa Aspettiamo” in dialetto tunisino), principalmente animata dal gruppo di opposizione Fronte Popolare.
“I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri – si legge in un appello della campagna -. Abbiamo sentito centinaia di promesse e migliaia di accordi e i vari governi ci hanno promesso lavoro, sviluppo, sanità, case, educazione, etc. Ma tutte queste promesse erano bugie e le squadre di governo dipendono in tutto e per tutto dai diktat esterni e fanno gli interessi delle potenze straniere e di alcuni ricchi nostrani, nonché degli esponenti vecchi e nuovi della corruzione. Siamo stanchi delle promesse menzognere, non si può più aspettare. Non possiamo più vivere senza lavoro, senza sicurezza sociale, senza sanità gratuita, senza istruzione gratuita e senza edilizia popolare. Non possiamo più vivere senza speranza di cambiamento”.
Con queste parole i promotori della campagna Fech Nestannaou hanno invitato i cittadini a manifestare. A loro si sono affiancati i sostenitori di un altro movimento legato al Fronte Popolare Manich Msameh (“Io non perdono”). Ciò che preoccupa questi gruppi è la quasi totale assenza di politiche per lo sviluppo e la ripresa del paese. Oltre alla riduzione dei prezzi dei beni di consumo di base, hanno chiesto l’annullamento delle privatizzazioni delle aziende pubbliche, sicurezza sociale e sanitaria per i disoccupati, l’assegnazione di case popolari alle famiglie a basso reddito, l’aumento dei sussidi alle famiglie indigenti e impiego per almeno un componente di ciascuna famiglia, una riforma progressiva della fiscalità e un piano nazionale strategico e globale di lotta alla corruzione.
Una risposta è arrivata sabato scorso dal governo di unità nazionale che ha annunciato una serie di misure a favore delle famiglie bisognose di circa 70 milioni di dinari (circa 23,5 milioni di euro). Il ministro tunisino degli Affari sociali Mohamed Trabelsi ha detto che “il governo potrà garantire un reddito minimo alle famiglie bisognose e l’assegno sociale aumenterà da 150 a 180 o 210 dinari (a seconda del numero di figli) e la gratuità delle cure per i disoccupati, l’istituzione di un fondo di garanzia per prestiti e agevolazioni per l’acquisto della prima casa e potrà raddoppiare le sovvenzioni per i bambini diversamente abili”.
Le proteste della scorsa settimana si sono svolte in vari centri, da Kasserine a Jendouba, da Thala a Gafsa, da Sidi Bouzid a Kebili, e in tutti si è denunciato, tra le altre cose, anche le disparità di condizioni di vita tra Nord e Sud del paese e tra l’area costiera e le zone interne e la poca attenzione arrivata dall’Unione Europea.
La conquista della libertà d’espressione e di maggiore tutela dei diritti umani, una nuova Costituzione, l’apertura del panorama politico a partiti che prima erano messi al bando, lo svolgimento di elezioni parlamentari e presidenziali che hanno permesso un’alternanza di potere, maggiore parità tra uomo e donna e l’ottenimento del Nobel per la pace grazie alla partecipazione alla vita pubblica della società civile non sono bastati per condurre la Tunisia a un equilibrio sociale.
Il cuore dei problemi resta l’economia. La miseria e le disperate condizioni in cui vivono i giovani sono state infatti anche la principale causa dell’enorme fuga nella radicalizzazione di moltissimi ragazzi che d’improvviso hanno scelto di cambiare vita e partire per la Siria e l’Iraq in nome del jihad, per poi tornare in Tunisia dopo la caduta dell’Isis e costringere il paese a rafforzare le misure di sicurezza e i controlli. Tra gli arresti nelle proteste della scorsa settimana il portavoce del ministero dell’Interno, Khalifa Chibani, ha comunicato la presenza anche di 16 estremisti.
Sette anni, dunque, forse sono pochi per un giungere a un profondo cambiamento. Del resto le rivoluzioni, a differenza delle rivolte che sono eventi chiusi, circoscritti e brevi, sono processi di trasformazione lunghi e complessi e la Tunisia, pur avendo fatto passi da gigante, è solo all’inizio del cammino.
Tra le poche speranze rimaste accese c’è l’attesa inaugurazione della Cittadella della cultura, immensa struttura statale che sarà dedicata alle attività culturali della nazione voluta dall’ex presidente Ben Ali nel 2003 e poi passata nelle mani dei governi che si sono susseguiti in questi anni, annunciata dal premier Youssef Chahed per il 20 marzo, giorno dell’Indipendenza tunisina da protettorato francese del 1956.
Oltre a ospitare tutti i festival e le fiere della nazione e offrire sale prove e spazi per far esibire gli artisti locali, la struttura punta a diventare un’attrazione turistica utile per incentivare il ritorno dei visitatori internazionali scoraggiati dal rischio di attentati e rafforza l’intenzione della società civile tunisina di combattere terrorismo e fanatismo non solo con azioni poliziesche e militari, ma anche attraverso azioni culturali.