Tra esodi e reinsediamenti: le sfide
post-conflitto nel Nagorno Karabakh

Pochi giorni fa centinaia di rifugiati del Nagorno Karabakh sono scesi in piazza a Yerevan per chiedere al governo armeno di ampliare i programmi di aiuto, e per cercare garanzie di sicurezza internazionali che possano un domani prefigurare un loro ritorno a casa. Nel corso della manifestazione è stata letta una dichiarazione che ha messo in luce le difficoltà abitative dei cittadini dell’Artsakh, critici verso le istituzioni armene che non avrebbero messo a punto un piano di accoglienza più efficace.

Il piano provvisorio tracciato dal vice primo ministro Tigran Khachatrian nel mese di febbraio prevede il finanziamento pubblico per l’acquisto o la costruzione di nuove case per i rifugiati con un contributo di 3 milioni di dram, pari a circa 7.400 dollari, a persona. Troppo poco, per i rappresentanti dei cittadini del Karabakh che hanno respinto questa soluzione, affermando che con quei fondi si può trovare un alloggio solo in villaggi remoti e lontani dalle opportunità di lavoro.

 

I numeri dell’International Crisis Group

Secondo il rapporto dell’International Crisis Group, sono 100mila gli armeni che hanno lasciato il Nagorno Karabakh dopo l’offensiva lampo dell’Azerbaijan, che il 19 settembre scorso ha portato alla fine dell’enclave autonoma. Quasi l’80 per cento dell’intera popolazione si è riversata nella vicina Armenia, che oggi si trova a fronteggiare il più grande esodo di massa, sul suo territorio, della storia recente.

Il governo armeno ha registrato tutti i rifugiati e, con le risorse a disposizione, ha provato a cercare soluzioni abitative nelle città piuttosto che realizzare dei campi profughi. Ogni adulto ha ricevuto il corrispettivo di 250 dollari al momento dell’ingresso in Armenia, e poi ha continuato a percepire un sussidio mensile di 125 dollari per l’affitto e le prime necessità (lo stipendio medio in Armenia è di 668 dollari al mese). Per far fronte alle spese e riuscire a sopravvivere con questo piccolo sostegno finanziario, alcune famiglie hanno scelto di condividere lo stesso alloggio, ma il futuro per loro resta incerto, dato che non è chiaro per quanto tempo Yerevan potrà continuare a corrispondere i pagamenti, visto che la fase emergenziale di intervento prevedeva un’erogazione di fondi fino alla fine di marzo.

Gli aiuti stanno mettendo alla prova il bilancio di un piccolo Stato di tre milioni di abitanti, un quarto dei quali viveva al di sotto della soglia di povertà già prima della crisi del Nagorno Karabakh. Oggi un abitante su trenta è un rifugiato dell’Artsakh, un numero di persone pari ai residenti della seconda città del paese, Gyumri.

Il sostegno ai rifugiati è una grande sfida economico-sociale: in mancanza di un supporto adeguato e duraturo, il tasso di povertà crescerebbe fino a creare attriti nella popolazione, nonostante la grande solidarietà manifestata finora dagli armeni; allo stesso tempo, un investimento troppo oneroso per le casse pubbliche finirebbe col penalizzare altri servizi.

 

L’emergenza abitativa

Anche se inizialmente le autorità armene avevano cercato di smistare le famiglie fra i diversi centri urbani del paese, la maggior parte dei rifugiati ha poi deciso di stabilirsi nella capitale, nonostante gli affitti più alti, per avere più possibilità di trovare un lavoro. Oggi gli armeni del Nagorno Karabakh che vivono a Yerevan sono circa 50mila, e un altro 30 per cento si è stabilito nei dintorni. Masis, ad esempio, a 17 km da Yerevan, ospita 11 mila rifugiati (quasi il 10 per cento dell’intera popolazione del Karabakh prima dell’ultima offensiva azera), e ha adibito ad alloggi anche gli uffici pubblici perché le case disponibili sono state tutte affittate.

Il piano di più ampio respiro prevede la costruzione di nuovi appartamenti, e si pensa a delle partnership con aziende e donatori privati, anche se i costi restano molto alti (almeno 20mila dollari per famiglia per realizzare un piccolo appartamento nelle cittadine intorno alla capitale).

Per trovare opzioni più economiche, come hanno sottolineato i rifugiati scesi in piazza, bisogna spostarsi nei centri più piccoli delle zone scarsamente popolate. Le case più a buon mercato si trovano a Vardenis, al confine con l’Azerbaijan, dove si può acquistare con 5mila dollari. Ma nessuno intende trasferirsi lì, per paura di ritrovarsi di nuovo in mezzo a scontri armati, e per le possibilità occupazionali prossime allo zero. Un funzionario della città ha raccontato ai ricercatori dell’International Crisis Group, di rifugiati scendevano dagli autobus a metà strada quando venivano a sapere che erano diretti a Vardenis, che alla fine ne ha ospitati solo 800, i più poveri, un decimo di quelli previsti dal Governo.

 

L’emergenza lavorativa

Sul fronte dell’occupazione, le autorità armene hanno avviato sin da subito un progetto di sostegno al lavoro offrendo un rimborso iniziale alle aziende che assumono i rifugiati, nella speranza di far avviare contratti regolari e di lungo periodo. Secondo i dati ufficiali, oltre 5mila armeni del Karabakh hanno trovato un lavoro nel corso di questi sei mesi, ma è difficile prevedere in che percentuale saranno stabilizzati. Se è vero che l’economia dell’Armenia è cresciuta negli ultimi cinque anni, la ricerca di inserimento di ulteriori migliaia di persone nel mercato del lavoro potrebbe nuovamente alzare i livelli di disoccupazione generale dall’attuale 11 per cento fino al 15-17 per cento.

Fra i rifugiati del Karabakh ci sono circa 30mila bambini e 18mila over 65, oltre a diverse migliaia di persone con disabilità causate da decenni di conflitto che difficilmente saranno in condizioni di trovare un lavoro (dati Unhcr). Dunque il piano di inserimento di lungo periodo dovrà tenere conto dei più vulnerabili.

 

Gli aiuti internazionali

Dal mese di settembre 2023 l’Unione Europea ha fornito oltre 12 milioni di euro in aiuti umanitari per i rifugiati del Karabakh. All’inizio di quest’anno ha investito ulteriori 5,5 milioni di euro per l’accesso ai bisogni primari, l’assistenza sanitaria, la ricerca dell’alloggio.

Dalla guerra del 2020 a oggi, la Commissione europea ha stanziato in totale 38,4 milioni di euro per fornire supporto fra beni alimentari, prodotti per l’igiene, istruzione in emergenza, sostegno sanitario e psicosociale, attrezzature mediche, azioni di sminamento nelle aree direttamente interessate dal conflitto.

Yerevan ha anche chiesto un prestito alla Banca Mondiale, e nel frattempo si sono mosse le organizzazioni della diaspora armena di Europa e Stati Uniti per cercare di raccogliere ulteriori fondi. L’Unhcr ha stimato che l’Armenia avrebbe bisogno di 97 milioni di dollari per coprire i costi dell’assistenza ai rifugiati, almeno fino alla fine di marzo. Ma 60 organizzazioni locali e di tutto il mondo, insieme, hanno raggiunto appena il 40 per cento di questo importo.

 

La normalizzazione dei rapporti fra Armenia e Azerbaijan

Il governo dell’Azerbaijan ha da subito dichiarato che gli armeni del Karabakh sono liberi di tornare alle loro case se accettano il governo di Baku come proprio; un’opzione non percorribile per tutti coloro che hanno lasciato la propria terra dopo l’esperienza dell’autoproclamato governo autonomo e decenni di conflitto latente con esplosioni di violenza culminate nell’offensiva del 19 settembre.

La normalizzazione dei rapporti fra Azerbaijan e Armenia resta comunque l’unica strada per scongiurare nuove instabilità. I principali ostacoli al raggiungimento di un accordo sono rappresentati da una definizione condivisa dei confini e dallo sblocco dei collegamenti di trasporto. Baku studia la rotta per il ripristino di una via tra l’Azerbaijan e la sua enclave di Nakhchivan, inizialmente ipotizzata attraverso l’Iran, poi nuovamente dall’Armenia. E intanto chiede a Yerevan di rinunciare formalmente a qualsiasi pretesa territoriale. Per il momento i rifugiati non vedono nessuna possibilità di rientro, a meno di avere garanzie internazionali per la propria sicurezza.

 

Il “Grande ritorno” degli azeri

Nel frattempo l’Azerbaijan sta portando avanti un programma di reinsediamento di cittadini azeri in Nagorno Karabakh, che finora, secondo i numeri diffusi da AzerTac, l’agenzia di stampa nazionale azera, ha portato al trasferimento di 1.360 famiglie, per un totale di oltre 5.400 persone.

Si tratta di ex sfollati azeri che avevano lasciato l’enclave dopo la prima guerra degli anni Novanta, o dei loro figli e nipoti, che ora sono tornati nelle città di Fuzuli (527 famiglie), Lachin (431), Aghali (175), Talish (20) e Zabukh (207).

Questo processo di trasferimento, definito “Grande ritorno” dal governo di Aliyev, era già cominciato nel 2020, nei 300 insediamenti riconquistati durante la seconda guerra del Nagorno Karabakh. Il completamento della prima fase di rientri è previsto entro la fine del 2026, e consentirà a 34.500 famiglie di trasferirsi, grazie a uno stanziamento di fondi di 3,1 miliardi di dollari da investire in progetti di ricostruzione.

 

 

Immagine di copertina: una folla di residenti armeni e rifugiati del Nagorno Karabakh sfila a Freedom Square, nella capitale armena Yerevan il 20 marzo 2024, per chiedere migliori condizioni abitative per coloro che sono fuggiti dall’enclave, conquistata dall’Azerbaijian. Foto di Anthony Pizzoferrato/Middle East Images via AFP.

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