La «diversità umana» è il tema che ha attraversato tutta la vita e la vastissima produzione di Tzvetan Todorov, uno scrittore che univa la grazia e la modestia ad una vastissima cultura, che amava trasmettere al pubblico e non soltanto coltivare tra accademici. «Diversità» e dunque dialogo e permanente riproporsi delle domande sugli «altri» e sul «noi». Chi sono i barbari? Riecco l’antico quesito di Montaigne.
Fuggito dalla Bulgaria comunista e approdato a Parigi, Todorov vi si afferma subito nella critica letteraria, nella filosofia e antropologia, negli studi sul linguaggio; lavora con Roland Barthes, si avvicina allo strutturalismo ma, rispetto a questa corrente, è attratto dalle grandi domande morali e dalla varietà delle risposte che vi danno le diverse culture umane. Dunque sposta il centro del suo interesse su una forma di «umanismo» che gli piaceva definire «ben temperato». Che cosa significhi si capirà presto quando si manifesta quella che è forse la sua vocazione principale, quella di storico delle idee. È in questa chiave che affronta il tema che lo fa conoscere a un pubblico più vasto «La conquista dell’America. Il problema dell’altro» (Einaudi 1984).
L’opera non è una ricerca storiografica nuova, ma una indagine sulle idee dei conquistatori, un’analisi delle loro motivazioni, sulla mente del «noi» e sulle idee che avevano degli «altri». Protagonisti del libro sono questi «noi», i molti e diversi «noi», ciascuno con i suoi connotati culturali, ciascuno imbarcato in una diversa forma di «conquista». Per Colombo quella che è in gioco è la prospettiva di una «vittoria universale del Cristianesimo». Il gigantesco paradosso di Colombo non è solo quello geografico di «buscar el levante por el ponente», ma quello filosofico di un monista che spalanca le porte al pluralismo, di una mentalità incorreggibilmente centrata sulla sua cultura che aprirà lo sguardo europeo su altri mondi.
L’«universalismo» mostra qui una incrinatura coloniale e di dominio su cui Todorov tornerà ripetutamente, individuando una severa aporia del pensiero illuministico, su cui aveva già scritto pagine celebri Isaiah Berlin. Ma altri «noi» entrano nel gioco della Conquista: Hernàn Cortès, che è il capo militare, studia gli Indi meglio non solo di Colombo, ma persino di Bartolomè de Las Casas (che ne diventerà il difensore) e lo fa per usare la conoscenza in funzione strategica, per dominarli, che è il suo obiettivo. Altri come Bernardino de Sahagun approfondiscono lo studio dei nativi, dei loro costumi e della loro religione, con un atteggiamento analitico, ma con l’obiettivo esplicito di estirpare l’idolatria. Altri ancora come Cabeza de Vaca, vivono avventurosamente dall’interno entrambe le culture, la propria e quell’altra, trovandosi in un vero sofferto conflitto con se stessi quando si viene alle armi. Infine Las Casas, colui che prende le parti dei nativi, prova per la loro sorte pietà e amore, si impegna in una battaglia per modificare le leggi e imporre il rispetto dei loro diritti, perché riconosce loro una cultura con la stessa dignità di quella del «noi» europeo. Las Casas smaschera e denuncia gli aspetti ingiusti, atroci e sanguinari dell’occupazione spagnola e ne attacca la legittimità. Anche davanti agli aspetti più cruenti della civiltà dei nativi adotta uno sguardo che oggi possiamo definire antropologico o prospettivista.
La giustificazione dei sacrifici umani è un passaggio cruciale delle discussioni sul giudizio morale e sul relativismo, per Todorov, come era stato anche per Montaigne. Lo scrittore bulgaro si serve di questa chiave per smascherare l’etnocentrismo che è in agguato dietro ogni professione di universalismo. E si spinge fino a individuare un limite di «universalismo inconsapevole» che si annida nell’autore degli Essais, quando gli sfuggono valutazioni su «verità» e «ragione» che certo un autentico relativista contemporaneo non accetterebbe mai (in Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, 1989). Ma certo, data la precoce epoca in cui il sindaco di Bordeaux ha affacciato i suoi pensieri, la seconda metà del ‘500, cinque secoli prima di Nietzsche e di Wittgenstein, Todorov gli riconosce il titolo di valido nemico dell’etnocentrismo.
Negli ultimi anni questa discussione – relativismo contro universalismo – è ritornata negli scritti di Todorov, con evidente riferimento polemico al dopo-11 settembre e ai teorici dei conflitti di civiltà. Riprendendo la riflessione sull’Illuminismo francese e sui rischi di un giudizio morale generalizzante che muova da una cultura verso un’altra, decretando «superiorità», e immaginando che dietro a questo giudizio si affacci facilmente il dominio militare o economico, Todorov non intende però arrendersi all’opzioni nichilista: il fatto che ciascun soggetto sia parte di una cultura e ne sia molto condizionato non impedisce di impegnarci ad attraversare mentalmente le frontiere e a liberarci da una possibile prigionia. A partire da ciascuna cultura è possibile aspirare a valori di civiltà nel nome dell’unità del genere umano, che è un fatto incontestabile tanto quanto la sua diversità culturale. Nelle discussioni roventi che hanno attraversato in questi anni l’Europa e gli Stati Uniti, Todorov si è schierato (in La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, 2009) con grande determinazione contro coloro che hanno invocato l’abbandono dell’Islam come soluzione politica individuando nelle pagine di Oriana Fallaci, di Robert Redeker, e di altri polemisti anti-islamici il vizio che ripropone il «noi» etnocentrico, con il suo ben noto orgoglio, contro la «barbarie degli altri». È l’antico problema della specie umana, quello che con Michail Bachtim, l’autore russo a lui caro, Todorov chiamava il vizio del «monologismo», grande nemico di una possibile pacifica «polifonia». Ancora nel libro recente del 2012 (I nemici intimi della democrazia) Todorov invita a cercare il problema dentro di noi non fuori tra i «barbari».