Da Reset-Dialogues on Civilizations – IL CAIRO – Una squadra di goleador più neri di Pelé. Una classe di educazione artistica dove tante piccole veneri nere disegnano abiti che potrebbero indossare modelle in passerella. Musica a tutto volume che si confonde tra urla incontenibili di bambini vivaci. Secchi, alti, scalmanati, i pochi stanchi dormono su un banco riparandosi dal sole con i lunghi capelli ricci. Benvenuti a Sakkakini, un’enclave sud sudanese nella metropoli confusionaria del Cairo.
La campanella suona, le classi escono disordinatamente dalle loro aule. I bimbi corrono, ma pochi hanno voglia di rincasare, preferendo starsene a giocare nei cortili di questa scuola che i missionari comboniani hanno creato nel quartiere di Abassya per accogliere i sudanesi in arrivo al Cairo. “Negli anni sono cresciuti esponenzialmente e ci hanno spinto sempre più in alto. Ora noi missionari dormiamo in quella che in origine era la terrazza della casa” dice scherzando padre Cosimo, il fondatore della scuola. Da quando è arrivato al Cairo negli anni ‘70, il numero di sudanesi è aumentato vertiginosamente e per questo il missionario ha iniziato a costruire nuove aule al lato dell’omonima chiesa. Arabo migliore di un madrelingua, padre Cosimo ricorda che agli inizi degli anni ’80 la comunità sudanese al Cairo era costituita prevalentemente da studenti, provenienti dal Nord e dal Sud, che beneficiavano di borse di studio offerte dalle università egiziane. In seguito alla logorante guerra civile però, il deteriorarsi della situazione in Sudan ha fatto aumentare il numero di quanti si sono avvicinati alla foce del Nilo in ricerca di rifugio.
Da ospiti fraterni a rifugiati ghettizzati
Nell’ottobre 2011 erano circa quarantaquattro mila i rifugiati riconosciuti dalle Nazioni Unite in Egitto, quasi venticinque mila provenienti dal sud Sudan. Eppure fino al 1995 la parola rifugiati non era un attributo che il governo egiziano affiancava al nome di quei sudanesi considerati figli dello stesso Nilo. Dalla firma del trattato di Wadi el Nil del ’76 ai sudanesi era infatti permesso vivere in Egitto senza alcun visto. “La guerra civile ha sconvolto tutto. Non si tratta di un semplice conflitto tra un nord arabo musulmano e un Sud cristiano – animista” spiega padre Cosimo.
Anche se questa è la punta dell’iceberg più evidente a quanti guardano da lontano il Sudan, in realtà sono molte di più le cause che hanno fatto di questa guerra civile una matassa difficile da sbrogliare. A creare una divisione tra Nord e Sud sono state in primis le caratteristiche geo-climatiche del paese. Il nord è un’estesa area desertica delimitata dal decimo parallelo di latitudine nord che è stato legato per millenni alle civiltà che si sono susseguite nel bacino del Mediterraneo orientale e nella penisola arabica. Dall’antico Egitto allo sviluppo della civiltà arabo-musulmana, per circa cinque millenni quanti hanno regnato in Egitto hanno considerato la Nubia, questa zona che si estende da Assuan a Khartoum, il loro entroterra naturale. Il Sud rimase escluso da tutte queste dinamiche a causa di una barriera naturale costituita dai sadd, pantani e paludi di papiro che crescono sull’alto corso del Nilo. Solo verso la metà dell’800 gli egiziani alla ricerca delle sorgenti del Nilo riuscirono a superare il sadd, aprendo il Sud alla penetrazione di avventurieri, mercanti, missionari e schiavisti. Le due parti, che per secoli si erano anche trovate sui versanti opposti del traffico di schiavi, sono state successivamente amministrate separatamente dai colonizzatori britannici che vi sono rimasti fino al 1956.
“Fino a quando non servivano permessi per entrare al Cairo, una massa di sud sudanesi in fuga dalla guerra civile non ci ha pensato due volte prima di spostarsi nel fraterno Egitto” spiega Lorraine Currie, una donna che ha lavorato nella scuola di Sakkakini per diciotto anni. “Mia mamma ha scelto di partire per il Cairo quando è andato al potere Bashir nell’89” racconta Achol, un alunno di etnia dinka che ricorda la data in cui il governo islamista del nord impose la sharia anche sul Sud prevalentemente cristiano e di etnia non araba. “Aveva scelto l’Egitto perché un’amica le aveva raccontato che una volta arrivata qui l’avrebbero mandata in un altro paese e lei sperava di atterrare in Canada, lontano dagli arabi che vogliono imporre la loro cultura sulla nostra” aggiunge Achol. A coltivare le stesse speranze della mamma di questo giovane studente erano migliaia di sud sudanesi atterrati in Egitto. Distrutti dalla continua guerra e perseguitati per il loro credo e le loro idee, i sud sudanesi credevano che il Cairo potesse essere un trampolino di lancio per arrivare, grazie all’aiuto delle Nazioni Unite, in posti migliori.
In un primo momento, lo stato egiziano garantiva ai sudanesi che si rifugiavano sul suo territorio un trattamento molto simile a quello di cittadini e le Nazioni Unite non avevano quindi alcun ruolo. La situazione è cambiata però dopo l’attentato con il quale, nel ’95, un gruppo islamista sudanese cercò di uccidere l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak in visita ad Addis Abeba. Da allora, la relazione tra i figli del Nilo cambiò notevolmente.
Da quel giorno a ogni sudanese che vuole entrare in Egitto serve un visto e quanti chiedono che gli venga riconosciuto lo status di rifugiati devono rivolgersi alle Nazioni Unite. In aggiunta, il Cairo è sì un firmatario della Convenzione sullo stato dei rifugiati del 1951, ma ha posto alcune riserve al testo originale e di fatto ai rifugiati non sono garantiti importanti diritti socioeconomici. L’accesso al mondo del lavoro è regolato da leggi particolari e ai bambini viene di fatto negato il diritto alla pubblica istruzione. Tutto questo complica le dinamiche di inserimento nella società e i sud sudanesi sono spesso vittime del razzismo di quegli egiziani che li considerano delle mosche nere che rubano lavoro.
Nonostante questo, la riapertura della frontiera via terra tra i due paesi, la persecuzione religiosa in Sudan e il notevole ampliamento dei programmi di accoglienza per i rifugiati sostenuti dai governi di Stati Uniti, Canada e Australia hanno fatto aumentare negli ultimi sei anni il numero dei sud sudanesi che cerca riparo al Cairo.
Una collezione di disegni
“La nostra scuola è molto affollata. Sono più di mille gli studenti di quest’anno” spiega suor Anna Maria mentre prepara uno scatolone di libri da consegnare agli alunni. Dispense stampate al Cairo, ma provenienti direttamente da Khartoum. “Da un paio di anni siamo riusciti a ottenere dal Ministero dell’educazione sudanese i CD dei libri previsti dal loro programma e li stampiamo qui prima di distribuirli a studenti e insegnanti. Anche loro sono rigorosamente sudanesi.” Grazie a un sistema del tutto informale, il prezzo dei libri è ridotto all’osso. Circa cinque euro per il materiale del primo anno e venti per quello dell’ultimo, cifre spesso inaffrontabili per famiglie che non sono in grado di provvedere alle necessità basiche dei loro figli. “Gli studenti arrivano a scuola a stomaco vuoto e non riescono a concentrarsi. Per questo abbiamo deciso di provvedere alla colazione. Cerchiamo di garantire ad ogni ragazzo almeno un pasto al giorno” spiega padre Jamil, direttore della scuola. “Quando torno a casa non c’è la mamma, trovo solo mio papà incazzato nero davanti alla televisione” racconta Miriam, una bambina di dieci anni seduta sul marciapiede della scuola con il suo panino in mano.
Come la maggioranza delle mamme, quella di Miriam è una colf in una famiglia egiziana. Esce all’alba e torna al tramonto ed è l’unica che porta uno stipendio a casa. Per gli uomini è infatti praticamente impossibile trovare un lavoro. “Mia moglie decide ormai tutto, io non ho alcun ruolo in famiglia. I miei figli non mi rispettano e ho perso ogni autorità su di loro. Che padre è uno che non riesce a portare a casa un pezzo di pane e deve chiedere alla moglie anche i soldi per un caffè?” si chiede il papà di Miriam. Nelle famiglie dei rifugiati si sono infatti ribaltati i tradizionali equilibri e le donne sono le vere imprenditrici, quelle che hanno in coltello dalla parte del manico e dettano le regole in casa. “Sono io che decido quante volte fare l’amore con mio marito e lui non può permettersi di obbligarmi se non voglio. Gli uomini qui si comportano diversamente da come farebbero nelle nostre tribù. Hanno paura di alzare la voce o di metterci le mani addosso perché senza i nostri soldi sono in mezzo a una strada” dice orgogliosa una signora mentre cerca di raccogliere i panni buttati a terra dai quattro figli che vivono in una stanza di sette metri quadrati. Non ci sono letti e neanche materassi. Solo due tappetini da ginnastica gettati al lato della finestra senza infissi. “Vivere qui è tutta un’altra cosa” dice la primogenita che ringrazia di abitare dentro quattro pareti dove, diversamente dal suo villaggio di provenienza, arrivano acqua, luce e gas. “I proprietari ci fanno pagare un affitto molto più alto solo perché siamo stranieri, ma vivendo qui, attorno a sudanesi come noi, siamo quasi invisibili a quegli egiziani che non ci vogliono vedere” aggiunge un’alta signora mentre porta sua figlia dal dottore. “Malnutrizione, mancanza di calcio e TBC.” Questa la diagnosi che il dottore é ormai abituato a scrivere sulle cartelle cliniche dei bambini sud sudanesi che arrivano da lui.
“Poteva andarmi decisamente peggio” commenta la piccola Hazika che tornata a casa dalla visita fa vedere alla sua mamma un disegno che ha realizzato a scuola. Dieci corpi di bambini stesi a terra lungo il confine tra il Nord e il Sud di quei paesi che Hazika non ha mai visto, ma ha disegnato da quando è nata. Dieci bambini moribondi accerchiati da latrine puzzolenti tratteggiate ai bordi di tende del campo di Yida. “Sono morti di diarrea” dice Hazika che ha sentito la storia dei sessantaquattromila sud sudanesi che dallo scorso maggio hanno affollato questo campo cercando di tornare nel Sud.
Il 9 luglio 2011 il Sud Sudan è infatti diventato indipendente da Khartoum in una cerimonia che ha segnato un nuovo corso per il Sudan, uno stato che ha avuto una vita travagliata fin dal 1956 quando conquistò l’indipendenza dal Regno Unito diventando il paese più grande dell’Africa. Da quel luglio molti rifugiati sono impazienti di tornare nei dintorni di Juba, la capitale del neo stato che si aggiudica il primo posto nella classifica mondiale di decessi durante il parto. L’entusiasmo si mischia però all’incertezza di arrivare in un paese privo di infrastrutture, dove la maggioranza della popolazione vive cono meno di un dollaro al giorno e sette cittadini su dieci sono analfabeti. Anche se il Sud Sudan vive su enormi giacimenti minerali e ottime potenzialità agricole, queste opportunità sono largamente compromesse dalla corruzione. Il desiderio di far ritorno in patria combatte poi con il timore di arrivare in un paese dove ormai non si conosce più nessuno. Per giungere a Yida i sud sudanesi fanno un viaggio estenuante attraverso la fitta boscaglia e l’ancora contesa area di confine di Jau. Viaggiando a piedi con i pochi averi che si sono portati con loro dalla terra nella quale hanno vissuto per decenni, i nuovi arrivati sono spesso malnutriti. A dare l’allarme sono stati anche medici senza frontiere che a luglio hanno dichiarato che le malattie dovute alla scarsa qualità dell’acqua potrebbero essere ridotte se vi fossero latrine sufficienti e accesso ad acqua potabile.
Nella collezione di disegni di Hazika c’è ne è anche un altro dedicato ai suoi connazionali che cercano di fare ritorno in patria. Un torpedone colorato pieno zeppo di bambini con tutti i loro giocattoli e genitori con lavatrici e frigoriferi convertiti in valigie dove fare entrare tutto quello che ci si è comprato negli anni nel paese che li ha ospitati. A luglio erano quasi quarantamila i sud sudanesi che vivevano accampati nei dintorni di Khartoum pronti per partire. Le Nazioni Unite hanno comprato biglietti aerei ai sud sudanesi che dal Cairo, da Khartoum o da ogni località del mondo, vogliono tornare in patria, ma molte famiglie preferiscono un viaggio via terra per trasportare il maggior numero di beni. Gli autobus però scarseggiano e le strade in Sud Sudan sono ancora in pessime condizioni. Sono solo cinquanta i chilometri asfaltati e basta un temporale per ridurne molte in un pantano. Nel disegno di Hazika i passeggeri sono ormai arrivati al km 18, quella che per quanti cercano di far ritorno nell’amata patria è la prima meta da raggiungere. Una volta arrivati in questo punto, mancano solo 18 km per raggiungere il campo profughi di Jaman che accoglie circa trentamila persone che non sanno bene dove sono diretti.
Lentamente l’esodo verso il Sud continua, proprio mentre a Khartoum sembra essere arrivato il vento delle primavere arabe. Sul quaderno del compagno di banco di Hazika si trova uno schizzo a matita che rappresenta una tromba d’aria che, partendo dal Cairo, arriva a risucchiare anche il vecchio dittatore sudanese. A fare scoppiare il malcontento è stata, lo scorso 18 giugno, la notizia di un nuovo piano di austerità da parte del presidente Omar Al-Bashir. Questo ha annunciato la progressiva eliminazione delle sovvenzioni ai combustibili e un aumento delle imposte e dei dazi doganali sui prodotti di lusso. Con tale piano il presidente, anche ricercato della Corte Penale Internazionale dell’Aia per i crimini contro l’umanità perpetrati in Darfur, cerca disperatamente di aumentare i ricavi per restringere quel deficit di bilancio che è stato aggravato dalle perdite di entrate petrolifere registrate dopo la secessione del Sud Sudan. Da allora Khartoum deve infatti rinunciare a circa trecentocinquanta mila barili al giorno, tre quarti della vecchia produzione petrolifera concentrata soprattutto nel Sud.
A Sakkakini la scuola continua e l’unico dilemma che tormenta la direzione è la scelta della lingua con la quale fare lezione. Non ritenendosi arabi, i sud sudanesi hanno deciso di fare dell’inglese la loro lingua ufficiale e sembrerebbe quindi più appropriato insegnare in questa lingua visto che gli studenti torneranno nei dintorni di Juba o si sposteranno in paesi anglofoni. “Il problema è la riqualificazione degli insegnanti” spiega suor Annamaria. “Poi non è affatto detto che tutti facciano davvero ritorno nel Sud.”
A confermare questa teoria è Lawrence, un bimbo che fissa con aria smarrita una foto sbiadita del villaggio dei suoi genitori. “È tutto quello che so del Sud Sudan. Mio papà è partito da solo e ha detto che verrà a prenderci per tornare con lui, ma io voglio restare qui” dice questo tredicenne espertissimo di informatica che ama starsene rintanato nel laboratorio della scuola. “In Sud Sudan non troverà il computer, internet e tutta la musica che ascolta” dice la madre, anch’essa confusa sul da farsi. “Non voglio tornare a farmi mettere in piedi in testa a casa.”
Quando dall’aula computer si passa in quella di musica, si capisce però che gli alunni di Sakkakini l’Africa ce l’hanno nel sangue. Le bimbe ballano disinvolte facendo volare le treccine sulle gambe di quelle ragazze in jeans attillati che indossano orgogliose una maglietta cucita con stoffa tradizionale. Per resistere al caldo bevono litri di coca cola e appena vedono una macchina fotografica si mettono in posa per bucare l’obiettivo. I ragazzi invece suonano batteria, tastiera e percussioni, mischiando melodie tradizionali a ritornelli rap. Cuffie giganti, pantaloni con il cavallo alle ginocchia, magliette a cui sono state tagliate le maniche ed enormi occhiali da sole. È questa la moda seguita da quegli studenti che fino all’anno scorso speravano di poter atterrare ad Harlem. “Il mio sogno è arrivare a New York, abbracciare mio padre e i miei fratelli e iniziare a creare un gruppo rap con loro” si legge sul tema di Mohammed, un sud sudanese musulmano che ha quasi tutta la sua famiglia negli States. “Quando mio padre ha ottenuto il permesso per andare in America doveva decidere che moglie portare e ha preso la prima perché con lei aveva più figli. Quella vipera non ha voluto mettere il mio nome nella lista e io sono rimasto qua con la speranza di raggiungerli” conclude Mohammed con uno sguardo ormai rassegnato. Da quando il Sud è diventato indipendente i sud sudanesi non sono più considerati rifugiati e l’unico biglietto per il quale possono chiedere un aiuto alle Nazioni Unite è quello per Juba.
Nonostante tutti i problemi del Sud, quanti non vedono l’ora di fare ritorno in patria si apprestano a fare le valigie e vanno a salutare padre Cosimo che nella messa comunitaria della domenica benedice coloro che stanno per lasciare il Cario. Le donne della comunità abbracciano commosse la compagna in partenza, consegnandole un regalo. Uno scialle con l’immagine di Bakhita, la schiava nata in Darfur nel 1869 che dopo essere riscattata dalla famiglia del console italiano Calisto Legnani è arrivata in Italia, ha conosciuto la fede cristiana, diventando prima suora e poi santa. I figli restano invece confusi in un groviglio di sentimenti che non riescono a sciogliere. “Sono felice, ho paura, sono curiosa, emozionata e triste” dice nella stessa frase la piccola Zuna mentre una lacrima solca il suo viso sorridente. Un tripudio di musica, danze e colori sono la colonna sonora di quel rito che sembra un affollato concerto festoso.
Non tutti però sembrano toccati dall’evento e in un angolo della chiesa ci sono due ragazze che accendono timidamente una candela a Bakhita. Con voce fievole e mani giunte chiedono di passare quell’esame che, in arrivo direttamente da Khartoum, dovranno sostenere a breve. Lo fanno sui banchi di Sakkakini, i loro insegnanti lo imbustano e lo spediscono a Khartoum dove lo correggono per scrivere un giudizio che spesso arriva dopo giorni di intensa trepidazione. “Se lo passiamo possiamo provare ad entrare all’università” spiega la più preoccupata. “Potremmo continuare a studiare e pensare come trasformare la nostra collezione di schizzi su pezzi di carta in modellini su stoffa e, magari, in abiti veri.”
Vai a www.resetdoc.org