Da Reset-Dialogues on Civilizations
Tre anni fa il Sud Sudan si apprestava a diventare lo stato più giovane del mondo. Juba, la capitale di quella che sarebbe stata la cinquantaquattresima nazione africana, si organizzava per presentarsi con il suo aspetto migliore. Intere zone erano state riqualificate per ospitare le celebrazioni e le parate militari e migliaia di sud sudanesi residenti al nord facevano le valigie per tornare e contribuire alla costruzione del loro paese. Le perplessità e i problemi irrisolti che accompagnavano il Sud Sudan verso l’appuntamento con l’indipendenza da Khartoum, sancita da un referendum a gennaio del 2011, non offuscavano l’entusiasmo per un futuro di libertà e di pace. Ma le cose sono andate in modo diverso. Quello che il 9 luglio celebrerà il terzo anniversario dell’indipendenza è un paese sull’orlo della guerra civile e della catastrofe umanitaria.
Gli scontri tra i sostenitori del presidente Salva Kiir e i ribelli legati all’ex vicepresidente Riek Machar, che infiammano il paese da metà dicembre, hanno fatto almeno diecimila morti e hanno costretto un milione di persone ad abbandonare le proprie case. L’impatto della crisi ha spinto gli stati dell’Africa orientale a paventare la minaccia di sanzioni se le due parti non si fossero impegnate a trovare una soluzione pacifica. Il 10 giungo il premier etiope Hailemariam Desalegn ha annunciato, in seguito all’incontro tra i leader dei due schieramenti, il raggiungimento di un accordo per porre fine ai combattimenti e formare un governo di transizione entro sessanta giorni. Ma questo probabilmente non basterà ad allontanare lo spettro della carestia evocato dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che il mese scorso ha avvertito che “se il conflitto va avanti, metà dei dodici milioni di abitanti del Sud Sudan saranno sfollati dentro il paese, profughi all’estero, soffriranno la fame o saranno morti entro la fine dell’anno”.
Le cause strutturali della debolezza del Sud Sudan, come l’assenza quasi totale di infrastrutture e la dipendenza dai vicini per ogni rifornimento, hanno minato le fondamenta del nuovo stato e la classe politica non ha saputo fare i conti con l’eredità della guerra civile tra nord e sud che devastò il Sudan tra il 1983 e il 2005 e lasciò un milione e mezzo di morti. Le rivalità etniche, che tradizionalmente hanno alimentato la conflittualità locale, sono state esacerbate dall’erosione delle risorse che, oltre a compromettere la pace tra i diversi gruppi, ha scatenato anche gli appetiti degli investitori stranieri e la corruzione e la sete di potere dei politici locali.
La cattiva gestione delle risorse naturali e soprattutto dei ricchi giacimenti di petrolio, unita all’assenza di una chiara visione economica e politica, alla debolezza delle istituzioni e ai crescenti problemi interni al partito di governo, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Splm), in poco tempo hanno cancellato l’euforia dell’indipendenza, che ha lasciato il posto a un sentimento di alienazione e frustrazione. Per preservare i propri interessi, molti politici hanno fatto leva sulle appartenenze etniche e regionali e così la distribuzione della ricchezza e l’accesso al potere politico ed economico sono stati ridefiniti sul calco di antiche divisioni.
La lotta per il potere all’interno dell’Splm che ha innescato il conflitto risale all’inizio del 2013, quando l’allora vicepresidente Riek Machar ha cominciato a sfidare l’egemonia del presidente Salva Kiir, che a sua volta ha accusato l’ex alleato di aver ordito un colpo di stato contro di lui. Sin dai primi scontri del 15 dicembre scorso, il conflitto ha assunto una connotazione tribale e le forze di sicurezza si sono divise sulla base dell’appartenenza alle due etnie principali: i dinka con Kiir e i nuer con Machar. Da allora la violenza ha investito tutto il paese e le due forze si sono avvicendate nel controllo di diverse zone, scatenando un ciclo di vendette e omicidi tra le comunità. La citta di Bor, nello stato orientale di Jonglei, è passata di mano quattro volte. A metà aprile un gruppo di uomini armati ha attaccato una base dell’Onu dove si erano rifugiati cinquantamila civili, in maggioranza nuer, e ha ucciso una cinquantina di persone. Qualche giorno prima le forze di opposizione avevano sferrato un attacco su Bentiu, nello stato settentrionale di Unity, uccidendo centinaia di uomini, donne e bambini, che avevano cercato riparo all’interno di una moschea, di una chiesa e di un ospedale, sulla base della loro appartenenza etnica.
Il fallimento degli accordi del 23 gennaio e del 9 maggio ha portato a una nuova ondata di violenza contro i civili e l’Onu ha accusato entrambe le fazioni di compiere “crimini contro l’umanità”. In un documento intitolato “Nowhere safe: civilians under attack in South Sudan”, Amnesty International ha denunciato che i gruppi rivali hanno “deliberatamente ucciso civili; giustiziato i prigionieri; rapito e violentato donne e ragazze; detenuto civili in modo arbitrario; dato alle fiamme le case, danneggiato o distrutto strutture mediche e razziato proprietà pubbliche e private, oltre a magazzini e centri per la distribuzione degli aiuti”. Secondo alcune organizzazioni mediche, inoltre, un focolaio di colera nella capitale Juba ha già fatto 23 vittime, mentre altre 670 persone sono state ricoverate.
I donatori internazionali riuniti a Oslo hanno promesso di destinare seicento milioni di dollari di aiuti al paese per scongiurare una carestia che potrebbe essere la più grave dopo quella che nel 1984 colpì l’Etiopia e uccise centinaia di migliaia di persone. La mancata semina dei terreni a causa delle violenze e le forti piogge potrebbero condannare alla fame i tre milioni e mezzo di persone che già non riescono a soddisfare i propri bisogni alimentari. La crisi, inoltre, ha ridotto di un terzo la produzione di petrolio, che è scesa da 245mila a 160mila barili al giorno. Gli impianti petroliferi nello stato di Unity sono chiusi da dicembre, mentre l’Upper Nile è l’unico stato che ancora estrae il greggio, ma la produzione è crollata del 35 per cento.
Nonostante la crisi, il governo del paese più dipendente dal greggio al mondo continua a rassicurare le compagnie petrolifere straniere, soprattutto cinesi, indiane e malaysiane, che gli affari andranno avanti. Non a caso i combattimenti si sono concentrati in particolare nei territori attorno agli impianti petroliferi, soprattutto nell’Upper Nile, e Riek Machar ha usato la strategia di attaccare o prendere il controllo dei pozzi per ricattare il governo e rafforzare la propria posizione al tavolo delle trattative. D’altro canto sono in molti a temere che il governo possa usare gli introiti generati dai contratti con le compagnie straniere per comprare armi o sostegno militare. Per questo Global Witness, un’ong specializzata in conflitti per le risorse naturali, ha chiesto una moratoria sugli accordi per l’estrazione fino a quando non sarà sventato il rischio che il petrolio sia usato per perpetuare il conflitto e la corruzione.
La lotta per l’accaparramento delle risorse naturali è un’eredità che il paese si trascina sin dai tempi del colonialismo britannico ed è stata una delle cause della guerra civile ventennale tra Khartoum e Juba. Le dispute per trovare un accordo per la gestione dell’industria del petrolio sono proseguite anche in seguito alla firma degli accordi di pace nel 2005 e hanno tenuto sempre acceso il conflitto tra il sud ricco di giacimenti ma povero di infrastrutture e il nord dove si trova la maggior parte delle raffinerie, degli oleodotti e dei porti. Ancora oggi il Sud Sudan rischia di vedere il proprio futuro affondare in una palude di petrolio. La festa per l’indipendenza è durata poco.
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