Cittadini per errore, cittadinanza ritirata: l’ultimo calvario dei beduini palestinesi in Israele si presenta sotto forma di pratiche burocratiche, di presunti errori commessi negli anni immediatamente successivi alla fondazione dello Stato ebraico e della loro “soluzione” attuale. Che nella pratica si sta traducendo da anni, in silenzio, nella revoca della cittadinanza a migliaia di beduini residenti nel deserto del Naqab.
Una situazione kafkiana: beduini palestinesi che si presentavano nei mesi scorsi negli uffici del Ministero dell’Interno per rinnovare la carta d’identità o il passaporto e ne uscivano apolidi. La denuncia arriva dall’associazione Adalah, organizzazione palestinese che tutela da anni la minoranza araba in Israele: sarebbero già migliaia i beduini privati della cittadinanza e altrettanti sono a rischio. Tanto a rischio che ora si nascondono: meglio evitare quegli uffici che nel giro di qualche minuto potrebbero fare di te un apolide.
I casi raccolti rivelano la completa arbitrarietà dell’attuale politica: «Cinque dei miei fratelli hanno avuto successo [la conferma della cittadinanza], altri tre di noi no», dice ad al Jazeera Sallam al Sahareen, 23 anni, residente nel villaggio di Bir Hadaj. C’è chi, come il 50enne Salim al Dantiri se l’è vista togliere sebbene da anni voti alle elezioni: «Sono un cittadino».
A monte, dicono funzionari del Ministero, sta un errore compiuto tra il 1948 e il 1952 quando Israele riconobbe la cittadinanza ai circa 200mila palestinesi che riuscirono a restare sulle proprie terre durante e dopo la Nakba, la “catastrofe”, l’espulsione forzata dell’80% della popolazione palestinese di allora. All’epoca, Tel Aviv riconobbe la cittadinanza anche ai 10mila beduini che – a differenza di altri 80mila cacciati in Giordania, Egitto e Cisgiordania – rimasero nel deserto del Naqab, loro storica terra. Quei 10mila non dovevano essere registrati, dice oggi il governo israeliano; di conseguenza i loro discendenti non hanno diritto alla cittadinanza.
Adalah ha già presentato ricorso, i primi apolidi risalgono al 2010 ma è oggi che la questione sale a galla, spinta dai numeri sempre più consistenti: secondo la parlamentare della Lista Araba Unita, Touma-Suleiman, il governo parla di «2.600 arabi» già privati della cittadinanza ma, aggiunge, «penso che il numero sia molto più alto».
Al momento la “soluzione” è stata quella di fare dei beduini palestinesi già transitati per il ministero dei residenti permanenti, lo stesso status legale dei palestinesi di Gerusalemme, mai riconosciuti – dopo l’occupazione militare del 1967 – cittadini a tutti gli effetti ma considerati (sic) “immigrati nativi”. Una forzatura illogica che mantiene nello stato di apolide – e dunque priva dei tanti diritti che la cittadinanza prevede – 300mila palestinesi della Città Santa. A cui oggi si potrebbero aggiungere migliaia dei 210mila beduini del Naqab.
«Non si tratta di revocare la cittadinanza – ha detto il ministro Aryeh Deri – perché questi residenti non sono mai stati legalmente cittadini». E, ha aggiunto, il ministero non fa altro che rettificare un errore di quasi 70 anni fa. Di quale errore si tratti, però, nessuno lo dice: perché non dovrebbero essere riconosciuti cittadini dello Stato di Israele resta un mistero. Legale, ma non politico.
Le politiche di trasferimento forzato della popolazione beduina palestinese, infatti, hanno radici lontane. Durante i primi 17 anni dalla fondazione dello Stato di Israele i villaggi beduini palestinesi furono dichiarati zone militari chiuse: ai residenti era impossibile uscire e entrare senza un permesso. Da allora il deserto del Naqab è diventato uno dei principali target demografici di Tel Aviv, nell’obiettivo di sostituire la popolazione di origine palestinese con nuovi residenti ebrei.
Uno degli strumenti principali è mantenere buona parte delle comunità nello status di villaggi illegali, anche questa una pratica che affonda le sue radici negli anni successivi al 1948. All’epoca la nuova leadership israeliana non aveva una conoscenza accurata del territorio che aveva appena conquistato. Per questo inviò team di ingegneri e funzionari pubblici a censire le terre, mappare città e villaggi sopravvissuti alla distruzione, torrenti e fiumi, zone industriali e aree agricole. Dei 300 villaggi rimasti in piedi ne furono registrati solo 150. Qualche anno dopo, in un secondo censimento, gli altri 150 vennero dichiarati illegali: nelle mappe israeliane non ci siete, si sentirono dire gli abitanti, per cui avete costruito dopo la nascita dello Stato di Israele.
Da allora quelle comunità non sono riconosciute e non ricevono alcun servizio dallo Stato: non ci sono scuole, cliniche, reti idriche o elettriche, servizi di raccolta dei rifiuti e reti fognarie. Oggi si opera attraverso demolizioni continue (illuminante il caso di Al-Araqib distrutto dai bulldozer israeliani 116 volte), divieto a costruire e piani di trasferimento, come il famigerato Piano Prawer, in stand by da due anni grazie alla mobilitazione dei palestinesi di tutta la Palestina storica: prevede la distruzione di 45 villaggi beduini, il trasferimento di 70mila persone in sette new town e un rimborso ridicolo. E, ovviamente, la totale perdita del tradizionale stile di vita beduino, fatto di pastorizia e agricoltura.
Durante la battaglia per il Piano Prawer avevamo fatto visita alle comunità minacciate e Fadi Masamra, direttore del Consiglio regionale dei villaggi non riconosciuti, ci aveva sintetizzato la lunga campagna contro la popolazione beduina: «Dicono che siamo nomadi e non abbiamo alcun legame con la terra. È una bugia. Basta guardare le foto aeree scattate dai britannici durante il mandato: il Naqab era verde, ogni angolo coltivato. Questa è la vita beduina: ci muovevamo all’interno di un’area definita, la coltivavamo e ci spostavamo nei mesi invernali per raccogliere acqua e legna. Oggi chi ci visita pensa che qui ci sia il deserto».