Da Reset-Dialogues on Civilizations
In un Medio Oriente dove ormai molti stati sembrano essersi frantumati su linee etnico-confessionali, rimettendo in gioco i vecchi confini coloniali franco-britannici, l’idea stessa che sciiti, alauiti, sunniti, cristiani, yazidi, arabi e curdi possano convivere assieme sembra una fantasia. Se a tutto ciò aggiungiamo la forza militare, apparentemente, dirompente dello Stato Islamico (IS) si potrebbe pensare che la tradizione di tolleranza e multiculturalismo che per molti secoli ha caratterizzato il Medio Oriente sia arrivata a un termine.
L’IS è il frutto di un vuoto di autorità creatosi con l’indebolimento del regime assolutista siriano e l’incapacità del governo di Nouri Kamal al-Maliki di condividere il potere con le varie minoranze nazionali a seguito dello smantellamento da parte americana del sistema repressivo creato da Saddam Hussein.
Il “Califfato” a differenza di alcuni dei propri predecessori quali, per esempio, il regime dei Talebani, che avevano dei “tutori” espliciti nel Pakistan e ai quali obbedivano, ha dimostrato di non essere suscettibile di controllo da parte dei propri ‘mentori ‘come Arabia Saudita, Qatar, Giordania e Turchia, in special modo ora che è ricco di denaro, armi e combattenti.
L’IS si ispira alle scorribande beduine del settimo secolo che portarono alla caduta degli imperi persiano e bizantino e alla formazione dell’impero islamico. Secondo questa dottrina militare la “Jazira” (il territorio prevalentemente desertico che comprende la Siria orientale e l’Iraq centro-occidentale) è da considerarsi come un mare interno dal quale colpire qualsiasi area “litoranea” con incursioni rapide e repentine. La creazione di “Suraqiya”, una combinazione di Siria e Iraq prefigurata alla fine degli anni quaranta da Anton Sa’ada, il fondatore del Partito nazionalsocialista siriano, sembra infine aver preso forma.
Tuttavia dopo un’analisi più approfondita le variabili in gioco sembrano essere molte.
Una di esse è relativa alla reale profondità di questo fattore di disintegrazione. A parte la Libia dove la disintegrazione ha messo radici, altrove in realtà essa è meno presente. Inoltre la possibilità di una guerra duratura potrebbe portare le varie comunità a sopportare dei sacrifici e mettere da parte le proprie differenze. Questo ovviamente in concomitanza con una strategia inclusiva da parte del governo iracheno di Haidar al-Abadi che faciliti la collaborazione di leader sunniti credibili all’azione di governo. Le rivoluzioni del 1920 e del 1958 sono da considerarsi come dei buoni precedenti in cui le varie comunità si riunirono sotto lo stendardo di uno scopo condiviso.
Militarmente gli Stati Uniti sono riluttanti a farsi coinvolgere con truppe regolari sul terreno: Washington punta a distruggere la leadership dello Stato Islamico tramite l’uso di omicidi mirati tramite droni e aerei. Al culmine degli sforzi bellici statunitensi contro la rete di al-Qaeda, i comandanti operativi del gruppo avevano una aspettativa di vita media di soli due anni. Tuttavia qualsiasi campagna efficace di omicidi mirati necessita di un orizzonte temporale di vari anni. Inoltre i quadri islamisti hanno dimostrato di essere flessibili tatticamente e strategicamente adattandosi velocemente ad eventuali attacchi aerei e diluendosi intimamente con il tessuto urbano.
I 200.000 organici delle Forze Armate irachene potrebbero essere una ottima risorsa per “bonificare” i centri urbani. Tuttavia saranno necessari vari mesi prima che le loro capacità di combattimento vengano affinate dagli addestratori statunitensi e iraniani. Anche con un esercito iracheno rivitalizzato, sbarazzarsi dell’IS, in particolare nelle città, sarà un compito incredibilmente difficile. All’apice della guerra civile in Iraq nel 2007 gli Stati Uniti schieravano ben 20 brigate. La liberazione di Fallujah nel 2004 fu molto complessa; si dovette praticamente sigillare la città per poi conquistarla casa dopo casa.
Diventa quindi nodale il ruolo delle potenze regionali. L’IS è soprattutto una minaccia per i paesi mediorientali, più che per gli Stati Uniti e i paesi occidentali. Se è vero che la Turchia, l‘Iran, il Qatar e l’Arabia Saudita hanno vari gradi di “interesse” nella frammentazione del Medio Oriente dall’altra, qualora gli stati arabi sunniti continuassero a rimanere silenziosi di fronte a questa aberrazione dell’Islam, prima o poi essa presenterà loro il conto. Anche Ankara e Teheran avrebbero non pochi problemi dalla nascita di uno stato indipendente curdo in Iraq e Siria. L’islamismo estremista deve quindi essere affrontato soprattutto all’interno della regione e non da un intervento militare dell’occidente.
Il paese più coinvolto in questa crisi è l’Iran. Teheran ha investito notevoli risorse finanziarie, politiche e militari negli ultimi dieci anni per garantirsi un Iraq che fosse un forte stato sciita e un partner strategico per la Repubblica islamica. L’Iraq è oggi uno dei principali partner commerciali dell’Iran, con un interscambio di circa 13 miliardi dollari nel 2013. È in programma anche l’apertura di una pipeline lunga 67 miglia che dovrebbe fornire all’Iraq 3-4 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno, facendo guadagnare all’Iran 3,7 miliardi dollari l’anno.
L’Iraq è visto come una priorità fondamentale nella politica estera regionale iraniana: l’obiettivo è che a Baghdad non ci sia mai un governo ostile che possa permettere a forze straniere e neanche agli stessi iracheni di attaccare l’Iran, come avvenuto nel corso della sanguinosa guerra Iran – Iraq del 1980-1988.
Inoltre in base al trattato di Qasr-e Shirin, stipulato nel 1723 fra gli imperi persiano e ottomano, Teheran vanta dei diritti di tutela e controllo sui santuari sciiti iracheni, avendo, teoricamente, la capacità di intervenire militarmente qualora essi siano in pericolo.
L’Iran si trova costretto a combattere una guerra su due fronti contro i gruppi estremisti sunniti in Siria e in Iraq. Nel 2012, quando la caduta di Assad sembrava sicura, l’Iran ha inviato migliaia di addestratori iraniani, di combattenti di Hezbollah e le milizie sciite irachene per sostenere il governo ba’athista. Ha inoltre contribuito fornendo una quantità enorme di armamenti, donando 500 milioni di dollari al mese per gli stipendi dei funzionari governativi siriani ed erogando un prestito da 7 miliardi dollari per lo sforzo bellico siriano. Il conflitto siriano ha trasformato l’Iraq in una importante base operativa iraniana finalizzata ad aiutare il proprio alleato damasceno. Milizie, armi e denaro sono affluiti dall’Iran alla Siria attraverso l’Iraq e il Libano.
Tuttavia migliaia di miliziani sciiti iracheni che combattono in Siria stanno ora ritornando a casa per rispondere alla chiamata alle armi emessa dal leader spirituale sciita iracheno il Grande Ayatollah Ali al-Sistani in difesa dei luoghi sacri dall’attacco sunnita, indebolendo così temporaneamente la capacità di combattimento del governo siriano.
A giugno il capo della brigata dei pasdaran Al Qods, Qasem Soleimani, si era recato varie volte a Baghdad per analizzare la situazione sul campo e coordinare la risposta. La brigata al-Qods, forte di 5.000 combattenti effettivi, ha la missione di “implementare” le priorità di politica estera della Repubblica islamica al di fuori dei confini nazionali. L’esiguo numero dei suoi membri non ne limita gli interventi dal momento che negli ultimi anni è sempre stata presente in Siria, Libano, Afghanistan e Iraq.
In Iraq più che un ruolo diretto e attivo sul campo di battaglia le unità della brigata stanno portando avanti una funzione di addestramento nell’ottica di creare forze paramilitari sciite che possano contrastare più efficacemente gli attacchi delle milizie sunnite. Non è un caso che le milizie sciite (la brigata Badr principalmente) abbiano avuto un ruolo di primo piano nella recente liberazione della città turcomanna-sciita di Amerli dall’assedio dell’IS.
Uno degli strumenti più preziosi ed utili è l’Asaib ‘Ahl al-Haq (Lega dei Giusti), una milizia sciita creata a suo tempo al fine di indebolire il movimento guidato da Muqtada al-Sadr. Il suo leader, Qais al-Khazali, è un uomo fidato di Suleimani e, come Hezbollah, Asaib al-Haq è una struttura profondamente religiosa e ideologica che agisce parallelamente allo Stato, minandolo o lavorando con esso quando necessario.
Un’altra importante milizia filo iraniana è la brigata Badr, che dopo essere stata sciolta, è riapparsa sotto la guida del leader del Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Sayyid Ammar Al Hakim. Anche il Jaish al-Mahdi (Esercito del Mehdi) di Muqtada al-Sadr potrebbe tornare utile all’Iran al fine di proteggere le città sante sciite.
L’Iran ha tuttavia deciso di non mettere tutte le sue “uova” nel paniere sciita, ma ha adottato un nuovo approccio nei confronti del governo regionale del Kurdistan (KRG), rifornendolo di armi. Fatto confermato dallo stesso presidente del KRG Barzani il quale ha detto che “L’Iran è stato il primo paese a fornirci armi e munizioni.” Tutto ciò con l’obiettivo ovvio di contenerne ulteriori future richieste di autonomia.
Alla luce di queste considerazioni è alquanto improbabile che l’Iran intervenga in forma più estesa, evitando che il conflitto degeneri in una guerra settaria come invece vorrebbe l’IS e probabilmente l’Arabia Saudita, ovviamente a meno che non si profili all’orizzonte una minaccia credibile a Baghdad o alle città sante di Najaf e Karbala.
Suleimani ha anche cercato di risolvere il problema della mancanza di una copertura aerea alle milizie sciite e alle Forze Armate irachene. Baghdad disponeva di soli elicotteri e di due aerei ad elica Cessna armati di missili Hellfire. Consapevole dell’importanza del controllo dello spazio aereo Teheran è accorsa in aiuto del proprio alleato regionale decidendo di agevolare la fornitura da parte russa e bielorussa di una dozzina di aerei Sukhoi 25 di seconda mano e fornendo essa stessa un numero imprecisato (almeno cinque) di vecchi aerei rinnovati iracheni che l’Iran detiene da anni come riparazione dei danni di guerra.
In base a fonti americane Teheran avrebbe istituito un apposito centro di controllo a Baghdad nella base aerea di Rasheed, precedentemente usata dagli statunitensi sotto il nome di Camp Redcatcher, dislocandovi una piccola flotta di droni di sorveglianza Ababil.
Se fin qui si possono vedere le azioni di coloro che, all’interno dell’establishment iraniano, sono maggiormente propensi a guidare la controffensiva grazie alle milizie sciite irachene vi sono altri funzionari , vicini al presidente Rohani e al ministero degli Esteri, i quali temendo che l’Iran possa essere sovraesposto nelle varie crisi, sono più aperti a un certo grado di cooperazione con gli Stati Uniti. Sono loro che, per arrestare la disintegrazione dello Stato iracheno, si sono dimostrati disponibili a scaricare Maliki, reo di aver perseguito una politica settaria che ha permesso all’IS di far proseliti tra la componente sunnita della popolazione irachena, e sostenere la nascita di un governo di unità nazionale con a capo il nuovo primo ministro iracheno Haidar al-Abadi, che invece ha incassato il credito di tutte le componenti etnico-confessionali della società.
Questo filone di pensiero punta ad ottenere il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dello status di potenza regionale legittima, consapevole e matura. L’Iran è uno dei pochi sistemi politici mediorientali con una serie di controlli ed equilibri e un certo livello di responsabilità e di dibattito. Se a prima vista può sembrare che l’ideologia sia l’elemento chiave dei processi decisionali iraniani, al contrario, sono gli interessi nazionali a dettarne in gran parte le azioni. E molto spesso questi interessi, come per esempio in Afghanistan e in Iraq, convergono con quelli degli Stati Uniti.
Questo tipo di cooperazione tra gli Stati Uniti e l’Iran non è una cosa nuova. Nel 2003, Teheran accolse tacitamente l’invasione e il rovesciamento di Saddam Hussein da parte degli Stati Uniti. Nel 2007, all’apice della guerra civile irachena le due cancellerie collaborarono per salvare l’Iraq dal baratro. Gran parte del merito va ricondotto all’allora capo del Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Abdul Aziz al-Hakim, e al presidente iracheno Jalal Talabani i quali lottarono per far convergere il sostegno iraniano e statunitense su Nouri Kamal al-Maliki. E nell’ufficio del primo ministro a Baghdad, nell’estate del 2007 l’ambasciatore statunitense, Ryan Crocker, incontrò Hassan Kazemi Qomi, il suo omologo iraniano per dipanare l’intricata matassa irachena.
E anche oggi, se e quando l’IS verrà sconfitto, Abadi e il suo governo saranno principalmente in debito con Washington e Teheran. Se Obama e Kerry hanno ufficialmente escluso l’Iran dalla coalizione messa in piedi dagli Stati Uniti contro l’IS, oggi sono principalmente gli aerei da guerra statunitensi e i carri armati della 81a divisione corazzata iraniana (prestati ai curdi) che colpiscono gli obiettivi iracheni del Califfato.
Ufficialmente, le due nazioni non si parlano, ma se non esiste alcun canale diretto per coordinare le attività militari in Iraq, il problema viene ovviato dai funzionari iracheni, in particolare curdi e sciiti, che servono da corrieri delle comunicazioni militari irano-statunitensi.
La riluttanza ad esprimere pubblicamente questa cooperazione può essere spiegata dalla paura sia di Teheran che di Washington di essere percepiti agli occhi degli arabi della regione come una cospirazione di sciiti-persiani e cristiani-americani contro i sunniti in un momento in cui gli Stati Uniti hanno ancora bisogno dell’appoggio saudita.
In quest’ottica gli iraniani stanno cercando di superare il solco che li divide dai sauditi, come dimostrato dalla recente visita a Riyadh del vice ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian e dalla nomina di Haider al-Abadi, accolta con favore da tutte e due le cancellerie. I sauditi erano visceralmente contrari a Nouri al-Maliki, considerato troppo vicino a Teheran.
Rohani ha messo fra le priorità del suo governo l’impegno a migliorare le relazioni con i vicini arabi del Golfo Persico. Il tempo per un disgelo potrebbe essere arrivato. L’espansione dell’IS è infatti fonte di preoccupazione sia per Teheran che per Riyadh.
Tuttavia i sauditi sono consapevoli che una potenziale ascesa dell’Iran allo status di potenza regionale, comprensiva di una normalizzazione dei suoi rapporti con il mondo occidentale, porterebbe a una diminuzione del potere negoziale regionale di Riyadh con gli Stati Uniti. Ed è in questa prospettiva che finora il ministro degli Esteri iraniano non ha accettato l’invito a recarsi in Arabia Saudita. Zarif ha finora visitato varie nazioni del Consiglio di Cooperazione del Golfo ma ha scientemente schivato Riyadh.
Oggi l’IS ottiene la maggior parte delle proprie entrate dal contrabbando (di petrolio, armi, antichità), dall’estorsione (la raccolta di “tasse” sul territorio porta nelle tasche del gruppo circa 8 milioni di dollari al mese), altri reati (rapine, contraffazione) e non da ultimo la presa l’11 giugno della Banca Centrale di Mosul dove si sono impossessati di circa 400.000.000 di dollari. Tuttavia se tornassimo al 2011 e 2012 vedremmo come buona parte del loro finanziamento di centinaia di milioni di dollari provenisse dalle monarchie arabe del Golfo Persico – in particolare Arabia Saudita, Qatar e Kuwait. Queste nazioni hanno usato l’IS per indebolire l’influenza irano-sciita nella regione. E, a tutt’oggi, i cittadini sauditi continuano a rappresentare una fonte di finanziamento importante per i gruppi sunniti che operano in Siria.
Tuttavia l’Arabia Saudita è seriamente minacciata dall’IS, la cui ideologia pur essendo wahabita è molto diversa da quella saudita. Nel wahabismo vi è una lettura duale dell’Islam, ben espressa dai Saud e dall’IS. Il filone dominante reputa che l’identità saudita derivi direttamente da Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab (il fondatore di wahabismo) e da Abd-al Aziz Ibn Saud (quale fondatore della entità statuale). Il secondo filone critica lo spostamento verso la statualità negli anni ’20 da parte del re Abd-al Aziz Ibn Saud con relativo contenimento degli Ikhwan (da non confondersi con quelli della Fratellanza musulmana) e la conseguente istituzionalizzazione dell’impulso wahabita originario. L’IS si rifà a questa seconda visione radicale ponendosi come un movimento correttivo del wahhabismo contemporaneo e negando, in ultima analisi, la rivendicazione da parte della dinastia saudita dell’autorità per governare.
Se nei media la capacità militare dell’IS è sopravvalutata, nel mondo reale le forze aeree saudite sono perfettamente in grado di difendere i propri confini incenerendo qualsiasi colonna di terroristi che provi ad avvicinarsi attraversando il deserto. L’Arabia Saudita possiede oltre 300 F-15, 72 Typhoon e più di 80 elicotteri d’attacco Apache. Includendo i sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo si arriva a più di 600 aerei con capacità di combattimento.
La classe dirigente dell’Arabia Saudita è attualmente divisa in due. Da una parte vi sono gli oltranzisti che plaudono a all’organizzazione di rigida ideologia salafita che sta prendendo forma nel cuore del mondo islamico, considerato da loro patrimonio storico sunnita usurpato da due governi sciiti, e che combatte il “fuoco” sciita iraniano con “fuoco” sunnita. Dall’altra vi sono quelli che sono memori della rivolta contro Abd-al Aziz da parte degli Ikhwan wahabiti che rischiò quasi di distruggere alle radici il wahhabismo saudita verso la fine degli anni ‘20.
La proclamazione del Califfato da parte di Al Baghdadi è una dichiarazione di guerra ai sauditi. Tramite essa, dichiara di non riconoscere gli stati nazione arabi moderni, e proclamandosi vero e legittimo erede del mondo islamico, delegittima Re Abdallah quale custode delle Due Sante Moschee. In questa prospettiva si possono leggere le due storiche dichiarazioni del Gran Muftì d’Arabia Saudita e del re Abdullah bin Abdulaziz dello scorso agosto. Il Gran Muftì il 19 agosto ha messo in guardia contro il pericolo costituito dall’IS e da al-Qaeda. La dichiarazione del Gran Muftì è stata preceduta il 1° agosto da un discorso del re dell’Arabia Saudita, il quale affrontando il tema dell’IS, ha messo in guardia la popolazione contro il pericolo di gruppi jihadisti armati che dichiarano i musulmani moderati infedeli e causano lo spargimento di sangue innocente. Questo irrigidimento ufficiale contro i gruppi jihadisti nella regione era stato formalizzato in marzo con la classificazione di IS e Jabhat al-Nusra come gruppi terroristici.
Ma come dimostrato dalla recente Dichiarazione di Gedda il mondo arabo-sunnita non riesce a venire a patti ideologicamente con questa minaccia. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, Egitto, Iraq, Giordania, Libano hanno promesso di cooperare su più fronti nella lotta all’IS glissando però sull’ipotesi di truppe di terra. Le dieci nazioni “si impegnano a fermare i terroristi e i loro finanziamenti” così come a “partecipare sotto molto aspetti ad una coordinata campagna militare”.
Sono quattro le paure che viziano il loro possibile impegno. In primo luogo, gli stati arabo-sunniti vedono l’attuale crisi irachena attraverso le lenti di uno scontro nazionalistico-settario con l’Iran. A loro parere lo scontro militare con l’IS porterebbe a un rafforzamento del governo sciita filo-iraniano di Baghdad a scapito dei sunniti iracheni. Molti cittadini arabi, anche in Occidente, vedono nell’IS uno strumento legittimo di sostegno alle ambizioni sunnite. In secondo luogo, questi stessi stati arabi reputano che un indebolimento dell’IS in Siria, porterebbe a un rafforzamento del regime del presidente Bashar al-Assad, visto come pilastro dell’influenza iraniana nel Vicino Oriente. In terzo luogo questi stati, spesso creazioni artificiose del colonialismo europeo e con forti squilibri etnico-economici al proprio interno, temono una ricaduta interna nel caso in cui l’IS venisse da loro attaccata.
A oggi una consistente percentuale dei terroristi dell’IS proviene da paesi arabi e i confini che dividono la Siria e l’Iraq dalla Giordania e dall’Arabia Saudita sono molto porosi. Un rapporto del Washington Institute afferma che i sauditi detengono il secondo posto in termini numerici all’interno dei gruppi jihadisti. Negli ultimi mesi, IS ha pubblicato video che mostrano i suoi combattenti sauditi che, dopo aver strappato i loro passaporti, promettono di liberare la “Terra delle Due Sacre Moschee” una volta che la loro missione in Siria ed Iraq sia stata compiuta. In base a report statunitensi si stima che la maggior parte dei kamikaze in Iraq provengano dall’Arabia Saudita e che circa il 40 per cento di tutti i combattenti stranieri siano sauditi. Quale precedente storico si potrà ricordare come, a metà degli anni 2000, il paese subì una serie di drammatici attentati di al-Qaeda legati ai mujaheddin sauditi di ritorno a casa dal jihad in Afghanistan. Infine i paesi arabo sunniti, Arabia Saudita in primis, sono consapevoli del fatto che, abbandonando la leadership di questa guerra contro i gruppi jihadisti salafiti in mano irano-americana, potrebbero fornire l’occasione a Teheran per espandere il proprio ruolo guadagnando una ulteriore carta di contrattazione con l’Occidente in quanto nazione chiave in Medio Oriente nella lotta al terrorismo.
I sogni turchi di rinascita dell’impero ottomano di qualche anno fa sono in gran parte falliti, danneggiando le tradizionali alleanze con Arabia Saudita, Egitto, Iran e Israele. Al contempo se volessimo guardare al confine meridionale di 1208 chilometri, vedremmo solo macerie. Come ricordato dal quotidiano turco Hurriyet, oggi al posto della Siria e dell’Iraq sventolano sette bandiere differenti che vanno dalla galassia delle organizzazioni curde siriane irachene o turche all’IS ai ribelli siriani per arrivare al governo di Assad. E di questa anarchia Ankara non è completamente incolpevole.
La Turchia ha partecipato alla riunione di Gedda in cui mediorientali degli Stati Uniti hanno annunciato il proprio appoggio alla strategia finalizzata a “distruggere” l’IS in Iraq e Siria, senza però firmarne il comunicato finale.
Si reputa che la riluttanza di Ankara fosse da addebitarsi ai 49 cittadini turchi rapiti dal consolato turco nella città settentrionale irachena di Mosul, quando fu conquistata dall’IS nel mese di giugno. Il governo aveva tenuto sull’intera vicenda un completo embargo mediatico fino alla loro liberazione avvenuta pochi giorni fa in stretto coordinamento con l’Organizzazione Nazionale di Intelligence turca (MIT). La liberazione sarebbe stata ottenuta grazie agli ottimi rapporti presenti fra i servizi turchi, l’Esercito Naqshbandi di Mosul, il Consiglio delle Tribù di Mosul e il potente ex vice presidente iracheno sunnita Tariq al-Hashimi, rifugiatosi in Turchia dopo le diatribe con al-Maliki.
A riprova di questo solido legame con gli ambienti “insurrezionali” iracheni il report comparso sul sito web Takvahaber, identificato come il portavoce dell’IS in Turchia, secondo cui il califfo Abu Bakr Al Baghdatiavrebbe personalmente approvato la liberazione a seguito del rifiuto turco a dare sostegno attivo alla coalizione anti IS. Questa strana “benevolenza” del califfo potrebbe essere spiegata da due fattori concomitanti: il primo inerente un indebolimento del potere di IS in Iraq a favore dell’Esercito Naqshbandi e del Consiglio delle Tribù di Mosul a seguito degli attacchi aerei statunitensi; il secondo in relazione a una “campagna” mediatica finalizzata a conquistare i cuori e le menti dell’opinione pubblica sunnita mostrando la propria benevolenza. In questa cornice è lampante il contrasto nel trattamento “generoso” che sarebbe stato riservato agli ostaggi turchi rispetto a quello riservato agli occidentali o agli sciiti.
Se questa può essere considerata una “vittoria” del governo turco, si teme al contempo che i gruppi jihadisti ospitati all’interno dei confini in funzione anti siriana possano, nell’ipotesi di una partecipazione di Ankara al conflitto iracheno, dichiarare il “jihad” contro la Turchia. Nel mese di giugno, il giornale turco Milliyet ha riferito che circa il 10 per cento (3000 persone) dei combattenti dell’IS siano cittadini turchi. Molti di questi odiano il governo dell’AKP al potere e reputano il presidente Erdogan non “un vero musulmano”. Si teme che questi sostenitori turchi dell’IS possano scatenare una lotta violenta all’interno della Turchia piazzando bombe nelle varie città in caso di una postura “ostile” del governo turco. Diventa preoccupante nella stessa prospettiva come, in base a una recente indagine condotta da Metropoll, solo il 62,5% di sostenitori dell’AKP reputino l’IS un’organizzazione terroristica.
L’ambiguità è tale che il Wall Street Journal, in un articolo del 13 settembre ha definito la Turchia come un “non-alleato” ricordando le dichiarazioni dell’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia Francis Ricciardone nelle quali affermava che la Turchia “ha lavorato apertamente” con Jabhat al-Nusra, un gruppo collegato ad al-Qaeda in Siria.
Alcuni giornalisti turchi colpiscono ancora più forte scrivendo come l’attuale leadership del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) abbia dei “vincoli ideologici” nel contrastare l’IS in maniera esaustiva. Kadri Gursel scrive: “Il governo dell’AKP ei suoi media non hanno mai descritto l’IS come un gruppo terroristico, definendolo un ‘elemento radicale’”. In passato il governo turco avrebbe garantito ospitalità e libero transito ai miliziani dell’IS diretti in Siria, finanziandoli indirettamente tramite l’acquisto del greggio estratto dai pozzi della Siria orientale (un politico dell’opposizione turca stima per un ammontare di $ 800 milioni).
Diversi giornalisti turchi hanno definito le frontiere turco-siriane una “autostrada jihadista a due corsie” senza controlli fastidiosi e con la capacità di evacuare i feriti dell’IS in ospedali turchi. È famosa la foto del comandante dell’IS Abu Muhammad ricoverato all’Ospedale di Stato di Hatay a seguito di ferite ricevute in battaglia nell’aprile del 2014. I funzionari turchi hanno risposto che gli ospedali turchi aiutano tutti i siriani malati o feriti che vengono d’oltre confine. Insistendo quindi sul fatto che si tratti di un gesto umanitario e non di sostegno politico all’IS.
Un ruolo di primo piano è stato avuto dalla Fondazione Turca per i Diritti dell’Uomo e delle Libertà e dell’Aiuto Umanitario (IHH). Un ente di beneficenza islamico con legami con Bilal Erdogan, figlio del presidente Recep Tayyip Erdogan. Secondo un rapporto del marzo 2010 dell’Istituto Internazionale per la Lotta al Terrorismo IHH ha un bilancio annuale di 100 milioni di dollari con operazioni sul campo in 120 paesi. L’IHH lavora con gli affiliati dei Fratelli Musulmani di tutto il mondo e la prima spedizione nota di armi ai “fratelli siriani” è di settembre 2012.
Il motivo di questo “permissivismo” oltre alla volontà di far cadere Assad è legato al desiderio di controbilanciare l’entità indipendente curdo siriana collegata con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) curdo turco. La posizione di Ankara nei confronti del PKK è ulteriormente complicata dal fatto che essi stiano giocando un ruolo importante nella lotta contro l’IS nel nord dell’Iraq.
Se il governo turco ha problemi con i curdi siriani del Partito Democratico dell’Unità (PYD) e con il suo braccio militante, le Unità di Protezione Popolare (YPG), ha invece coltivato negli anni un ottimo rapporto con il KRG iracheno.
Il governo turco vede di buon occhio la presenza di un Kurdistan iracheno strettamente integrato nell’economia turca che funga da cuscinetto tra i jihadisti e il proprio territorio e, in questa prospettiva, è stata apprezzata la presa di Kirkuk da parte dei Peshmerga. Una conquista che aumenta la capacità produttiva petrolifera curdo irachena. Il KRG non ha il diritto legale di esportare petrolio in maniera indipendente. Tuttavia, nonostante le proteste del governo centrale iracheno, il KRG esporta petrolio in Turchia utilizzando la Pipeline turco irachena.
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