La natura dell’auto- proclamatosi “stato islamico” fa discutere. Lo testimonia il dibattito venutosi a creare in seguito alla recente pubblicazione del corposo articolo “What ISIS really wants” sulla rivista statunitense The Atlantic. Il nodo centrale della discussione è quanto vi sia di strumentale e quanto di autentico nella presunta natura e matrice islamica del “Califfato”. Insomma se il gruppo del “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi si sia illegittimamente appropriato di questa etichetta o, come suggerisce il giornalista e docente di scienze politiche Graeme Wood, rappresenti una delle possibili espressioni della fede islamica, seppur la più radicale e legata al testo sacro oltremisura e in maniera decontestualizzata.
Secondo Wood sono due i principali equivoci nei quali sono caduti gli analisti occidentali quando hanno tentato di spiegare la nascita e il consolidamento dello “stato islamico”: considerare il jihadismo come un monolite, commettendo l’errore di leggere il “Califfato” attraverso la lente di Al-Qaeda e voler a tutti i costi negare la natura religiosa medievale dello “stato islamico”.
Infatti, mentre l’organizzazione di Bin Laden era una sorta di rete composta da tante cellule autonome, il “Califfato” ha bisogno di un territorio per legittimarsi e di una struttura gerarchica per governare. Inoltre lo “stato islamico” ha un approccio che Wood definisce takfiri, fa cioè un ampio ricorso all’accusa di apostasia, mentre l’approccio di Al-Qaeda al riguardo è sempre stato più cauto.
Secondo e più grave malinteso è appunto quello sulla natura islamica del “Califfato”: secondo Wood non si ha affatto a che fare con soggetti laici, con preoccupazioni e scopi politici moderni che indossano solo la “divisa” della religiosità:
Far finta che non si tratti in realtà di un gruppo religioso, con una teologia che deve essere compresa per essere sconfitta ha già portato gli Stati Uniti a sottovalutare il problema. Dovremmo conoscere la genealogia intellettuale dello Stato islamico, per essere in grado di reagire in un modo che non lo rafforzerà ma che invece lo aiuterà ad autodistruggersi nel suo eccessivo zelo.
Egli sottolinea la natura islamica del movimento pur ammettendo che la quasi totalità dei musulmani ha preso le distanze non sentendosi rappresentata. Riporta al riguardo le parole del Professore di Princeton Bernard Haykel:
I musulmani che considerano lo Stato Islamico non-Islamico sono in genere imbarazzati e politicamente corretti, con una visione ovattata della propria religione.
Ben diversamente si è espresso Fareed Zakaria che sul Washington Post ha ricordato la scelta operata dal presidente Barack Obama, che preferisce accusare il “Califfato” di estremismo violento piuttosto che islamico. Quanti sostengono che non si possa sconfiggere un nemico che non si ha il coraggio di nominare, hanno però tacciato Obama di essere troppo politicamente corretto. L’inquilino della Casa Bianca ha però motivato la sua scelta spiegando che l’utilizzo dell’aggettivo “islamico” avrebbe generato la falsa idea di una guerra dell’Occidente contro l’Islam.
Proprio contro la contrapposizione tra ‘violento’ e ‘islamico’ operata da Obama e spiegata da Zakaria si scaglia anche il celebre e controverso analista Daniel Pipes – fondatore e presidente dell’americano Middle East Forum, repubblicano e conosciuto non di certo per la sua simpatia nei confronti dell’Islam – che dal suo blog lancia una caustica invettiva contro quei politici (ce ne è per tutti: non solo Obama, ma anche i dem Kerry, Johnson e altri, il primo ministro britannico Cameron, Blair, François Hollande e Shinzo Abe; si salva solo Netanyahu) che – in malafede – “pretendono che l’Islam non abbia nessun ruolo nella violenza” dell’ISIS, la cui barbarie “pervertirebbe” e “maschererebbe” il vero Islam, religione di pace e tolleranza. Individua così le ragioni del loro “negazionismo” interessato:
Codardia e multiculturalismo giocano un ruolo, questo è certo, ma ci sono due ragioni più importanti: innanzitutto, [questi politici] non vogliono offendere i musulmani, che a loro avviso sono più inclini alla violenza quando percepiscono che i non-musulmani stanno combattendo una “guerra contro l’Islam”. In secondo luogo, temono che concentrarsi sui musulmani porterebbe con sé la necessità di introdurre cambiamenti radicali nell’ordinamento secolare, mentre la negazione di una questione islamica permette loro di continuare a evitare le questioni più scottanti. Per esempio, permette alla sicurezza aeroportuale di perquisire i passeggeri invece di sequestrarli in interrogatori in stile israeliano.
A questo proposito è interessante considerare un quarto contributo al dibattito, scritto da Haroon Moghul sulla rivista Salon. Contrariamente a The Atlantic e al più radicale Pipes, nell’articolo “The Atlantic’s big Islam lie: What Muslims really believe about ISIS”, Moghul sostiene che non si può parlare di “islamicità” dello “stato islamico”; l’opinione di Moghul è che:
l’Isis assembla la propria retorica con pezzi di religione, il suo rapporto con l’Islam è come quello di Frankenstein con la specie umana. È un mostro in abiti islamici.
Dello stesso avviso è Musa al-Gharbi in The Islamic State’s supposed Theology pubblicato il 16 marzo su LobeLog Foreign Policy. Anche al-Gharbi dissente dalla presunta natura islamica del Califfato ma lo fa attraverso argomentazioni differenti: a suo parere è importante riflettere sul fenomeno dell’estremismo al di là del contesto religioso entro il quale si trova, considerandolo invece come un fenomeno dalle “aspirazioni e tattiche” radicate nella modernità secolarizzata. Del resto la maggior parte delle vittime dello Stato “islamico” sono proprio i musulmani e lo stesso dibattito sull’islamicità di questa neonata istituzione, con le discriminazioni giuridico-sociali che ne conseguono, innesca una catena di persecuzioni e marginalizzazioni che di fatto nutre la radicalizzazione politica della fede. Secolarizzando l’estremismo, smettendo di considerarlo come un problema “loro”, dell’Islam, l’Occidente dovrebbe finalmente responsabilizzarsi e prendere parte efficacemente alla sua risoluzione.
L’interpretazione di Paul Berman in “Libertà e sottomissione”, pubblicato sul Sole24ore, ha un focus differente, è mirato a comprendere le letture che l’Occidente ha dato del fenomeno del jihad globale, nato nella sua dimensione sunnita nel 1996 con la fatwa di Osama Bin Laden. Berman circoscrive l’analisi ai 19 anni di teorie fallite e interpretazioni sbagliate attraverso le quali l’Occidente ha cercato di comprendere il fenomeno per sconfiggerlo: egli parte dalla teoria del “ricercato: vivo o morto” che considerava il jihad come una nave di pirati o una banda di rapinatori di banche, passando per quella del “bene contro il male” di G.W. Bush fino ad arrivare all’ “insalata mista” di Obama. Berman definisce l’attuale come un momento umiliante nella storia della stupidità americana in politica estera.
Più vicino al giudizio di Zakaria e di Salon è l’intellettuale turco Mustafa Akyol, di cui su queste pagine trovate interviste in video, in “Is the ‘Islamic State’ Islamic”, pubblicato su Hurriyet Daily News lo scorso 28 febbraio. Dissentendo dalle conclusioni di Wood, Akyol pone a confronto lo “stato islamico” con il gruppo estremista di matrice giudaica Jewish Defense Legue. Nel 1994, Baruch Goldstein un esponente della Lega, fece irruzione in una moschea di Hebron aprendo il fuoco contro i fedeli musulmani in preghiera. Come allora sarebbe stato irragionevole e sbagliato rendere il crimine di Goldstein esemplificativo del giudaismo nel suo complesso, oggi sarebbe irragionevole accostare i gesti dello “stato islamico” all’intero Islam. Il fantasma che sta dietro l’uso della formula “estremismo islamico” per definire le azioni del “Califfato” è inevitabilmente la retorica dello scontro di civiltà. È proprio questa la preoccupazione che permea “The Clash of Civilizations That Isn’t”, pubblicato il 25 febbraio sul New Yorker. L’articolo, a firma di Robert Wright, si inserisce perfettamente nel dibattito iniziato da Wood su The Atlantic; Wright accusa severamente Roger Cohen e il suo articolo “Islam and the West at War”, pubblicato sul New York Times, di essersi spinto oltre le posizioni dell’ex presidente George W.Bush, là dove afferma che l’Occidente è in guerra contro l’intero Islam. Wright sostiene che da una simile interpretazione del fenomeno jihadista possa conseguire solo un secondo Iraq, a suo parere si assiste ora allo stesso processo innescatosi prima del 2003, quando un’escalation di paura ha portato all’affermarsi della teoria dello scontro di civiltà rendendo accettabile e persino obbligata una reazione violenta alla violenza.
Un articolo molto bello e denso di informazioni ma soprattutto di spunti di discussione. I link sono molto graditi e utili. Ottimo.