C’è un racconto che non viene fatto abbastanza ma che è essenziale per capire cosa succede in Siria: è il racconto della bancarotta politica araba. Questo racconto non viene fatto perché rimuoviamo il punto di vista degli arabi e non siamo disponibili a riconoscere contemporaneamente i gravissimi danni causati sia dai sovietici, poi russi, sia dagli statunitensi. Questi danni preferiamo attribuirli tutti all’islam. Eppure è strano che tanti osservatori attenti, colti e ben documentati dimentichino tanto facilmente che l’ultimo grande esercito islamico, quello del sultano ottomano, combatté con le armi i wahhabiti, ritenuti alla Sublime Porta qualcosa di simile alla peste: la follia teologica e culturale del puritanesimo wahhabita arrivò a distruggere importanti sarcofagi islamici, che non dovevano essere luogo di venerazione perché si venera solo Dio: motivo per cui scoraggiano la stessa visita alle tombe di Maometto e dei primi califfi. Tanto che ancora oggi chi compie il pellegrinaggio può solo affacciarsi per qualche momento a una piccola edicola dalla quale vedere in lontananza i preziosi sarcofagi. La guerra cominciò appena i wahhabiti distrussero il sarcofago dell’imam Hussein a Kerbela, all’inizio del XIX secolo: nel 1816 gli uomini del Sultano intensificarono la loro campagna militare e sconfissero i wahhabiti, già sostenuti dai Saud. Molto tempo dopo, subito dopo la conferenza di Yalta, F.D. Roosvelt non ebbe problemi a recarsi a Riad e ad allearsi con loro, che per prendere il potere in Arabia, divenuta tutta saudita, non avevano esitato a combattere tutte le altre tribù, sostenuti solo dalla setta wahhabita. Colpa dell’Islam? Problema per l’Islam, che da allora si è visto trasformato dai miliardi sauditi che gonfiano le tasche degli imam wahhabiti in tutto il mondo.
Se questa è stata la colpa madre dell’imperialismo americano, la colpa madre dell’imperialismo sovietico è stata quella di fare lo stesso con i militari che hanno conquistato con golpe il pensiero laico arabo, che fino agli settanta è resistito, egemone dei campus universitari più importanti del mondo arabo. Ma la promessa di redistribuire i proventi della decolonizzazione ai popoli quei militari, a cominciare dai generali panarabisti che hanno conquistato i partiti panarabisti con golpe sostenuti da Mosca, l’hanno tradita da subito, tenendo quei proventi solo per sé. È cominciata così, ad esempio, l’avventura dei regimi golpisti di Hafez al Assad e Saddam Hussein. Della ferocia e della smania di arricchimento di Saddam e dei suoi figli si è scritto molto a suo tempo. Altrettanto non si è fatto per gli Assad: eppure uno stretto parente del presidente Assad, Rami Makhlouf, è oggi più ricco del più ricco principe “affarista” saudita, Walid bin Talal. E il fatto che la rendita petrolifera non figuri nel bilancio ufficiale dello Stato siriano spiega come mai. Perché per quanto l’Arabia Saudita sia infinitamente più ricca della Siria, l’accaparramento delle risorse statali da parte della ristretta cerchia dei sodali degli Assad è totale. Per avere una panoramica completa non possiamo dimenticare l’inizio di questa deriva, Nasser, le sue persecuzioni, anche di veri intellettuali di sinistra, progressisti e comunisti, e il suo slogan: “nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia”. Il totalitarismo arabo si plasma in questo panorama: la questione aggrava anche la questione islamica con la lotta tra il totalitario Nasser e l’ideologo dell’Islam totale, cioè politico, sociale e religioso, Qutb, condannato a morte da Nasser e rapidamente divenuto simbolo della causa della giustizia sociale, abbandonata da tutti e da lui, ucciso, recuperata così: “la giustizia sociale arriverà con la sharia”. Il suo pensiero, tanto rivoluzionario quanto eretico, guiderà anche Khomeini, per quanto il primo fosse sunnita e il secondo fosse sciita.
È così che l’uomo è diventato una vittima sia nel campo filo-americano sia in quello filo-sovietico. Ma se il campo religioso ha usato la religione come strumento di penetrazione, l’altro campo non aveva strumenti, perché i laici, gli intellettuali di sinistra e così via erano i peggiori nemici di questi regimi militari, filo-sovietici ma di cultura che non esiterei a definire “nazista”. I Saddam Hussein, gli Hafez al Assad, non avevano nulla a che fare con la cultura del fondatore del partito Baath, che fu ovviamente esiliato, e i suoi amici arrestati, perseguitati. Militari e golpisti, privi di cultura politica e affezionati solo al potere assoluto, costoro non potevano che vedere nel nazismo un esempio. E appoggiarsi al Cremlino per resistere e non cedere ai nemici monarchi del Golfo sostenuti da Washington. Una delle vittime preferite di entrambi i regimi baathisti sono stati i curdi, tra quelle predilette dagli Assad troviamo invece i palestinesi. Perché? Perché per gli Assad la Palestina non esiste, è parte della Grande Siria, come Israele, il Libano, la Giordania. Ecco dunque i massacri di palestinesi in Libano e il lunghissimo sodalizio tra Assad padre e colui che guidò il massacro di Sabra e Chatila, Elie Hobeika, cristiano, imposto da Hafez al Assad quale ministro del Libano dopo la fine della guerra civile.
Un’altra lettura incredibilmente diffusa nella sua parzialità è quella che collega al Qaida agli orrori del campo filo-americano e saudita, e basta. Un cortocircuito c’è sicuramente stato da quelle parti ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. La malattia wahhabita aveva intanto diffuso pensieri eretici, e l’aggravarsi delle condizioni di vita ha favorito il ragionamento qaidista. Ma dopo il 2003, cioè dopo l’invasione americana di uno dei bastioni baathisti, è normale che il regime di Damasco abbia temuto di essere il prossimo. Per questo, seguendo in certo senso la strada indicata dall’odiato Saddam- per motivi di leadership nel campo filosovietico- che prima dell’invasione americana aveva scelto l’apparentemente innaturale strada dell’alleanza con al Qaida, per salvarsi Bashar al Assad abbia scelto l’alleanza con il peggior nemico di Washington, Teheran (suo padre aveva sempre badato a tenere il suo paese come ago della bilancia tra sauditi e iraniani) e con i qaidisti. Davvero? Certamente sì! Dopo aver eliminato nel 2005 in Libano l’unico leader arabo popolare e rispettato nel mondo, Rafiq Hariri, perché il Libano per gli Assad non esiste e non deve esistere, è un pezzo della Grande Siria, Assad ha mandato dal Libano in Iraq uno dei suoi uomini di fiducia, quell’Ali Mamlouk che ha ideato e gestito la ratline che ha condotto proprio lì migliaia di jihadisti da tutto il mondo. La base di raccolta e smistamento era uno dei più famigerati centri di internamento siriano. Era l’unico modo che il regime aveva per impantanare gli americani in Iraq e salvarsi, evitando cioè ciò che temeva di più, che i Marines da Baghdad potessero procedere su Damasco. Intanto sul fronte occidentale, nel 2007, un ospite delle galere siriane veniva liberato e accompagnato in Libano, dove organizzava con altri un gruppo terroristico incaricato di destabilizzare il Libano. Cosa che puntualmente fece dal campo profughi palestinese di Nar al Bahred. Infiltrato dai siriani nel campo, da lì il gruppuscolo jihadista conduceva un’azione terroristica che avrebbe portato, ovviamente, all’intervento dell’esercito libanese e alla distruzione del Campo, massimo e incredibile orrore soprattutto per la sventurata popolazione del campo.
Questa storia ha saltato il massacro simbolo dei metodi di governo degli Assad, il massacro di sunniti di Hama, nel 1982, quando il centro cittadino venne minato e fatto crollare in testo ai suoi abitanti, provocando almeno 35mila morti.
La storia delle rivolte arabe, cominciate dal 2011, non può essere capita se non si tiene conto della bancarotta politica araba di cui i cittadini arabi sono vittime a causa degli inqualificabili despoti, filo americani e filo sovietici, poi filo russi, cui sono sottoposti da decenni e decenni. Quando cominciò la decolonizzazione i corpi dei detenuti non venivano gettati per strada come immondizie, come accade in tanti paesi arabi da tanto tempo. I servizi segreti non stupravano le mogli o le figlie dei dissidenti, come accade in tanti paesi arabi oggi. Un esempio: la leader dei comitati popolari siriani, la signor Zaitoune, è stata ricercata per due anni dagli sgherri del regime di Assad, dal 2011 al 2013. Si è nascosta con alcuni compagni di strada, portando avanti la sua lotta non violenta e democratica, a Douma. Poi è stata sequestrata, dai jihadisti di quei gruppuscoli che oggi si chiamano Jayish al Islam, si ritiene sostenuti da finanziamenti che giungono dal Golfo. E il fratello del leader di costui non è tra i delegati alle trattative di Ginevra?
Non c’è un imperialismo innocente e uno colpevole in questa orribile storia. Gli arabi nati prima degli anni 50 sanno benissimo che allora i diritti umani, in tutto il loro mondo, erano meno violati rispetto a oggi, poi è cominciato un lungo tunnel, nel quale la luce è diminuita ogni anno di più.
Sul banco degli imputati, invece, c’è finita una religione, quell’Islam vittima degli uni e degli altri, come musulmani sono gran parte dei morti causati dagli uni e dagli altri. Eppure già secoli fa l’esercito ottomano sapeva dichiarare una guerra senza quartiere ai wahhabiti. E la rivoluzione iraniana, di cui Khameini si impossesserà con un golpe, è nata da laici, comunisti e credenti con loro compatibili. Come indica benissimo la figura dell’ideologo di quella rivoluzione, Ali Shariati. Guarda caso ucciso, non si sa ancora se dai khomeinisti o dagli agenti dello scià. Perché lui prima di morire ai khomeinisti aveva apertamente voltato le spalle.
Credit: Ammar Suleiman / AFP