Siria. Sul terreno: rivoluzione, infiltrazioni, jihadismo e qaedismo

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Quello che è accaduto ai giornalisti italiani Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Susan Dabbous e Andrea Vignali, due settimane fa, ha squarciato il velo su una realtà che quando si parla di Siria e di rivoluzione siriana ormai è difficilmente negabile: dopo due anni di una guerra brutale e massacri di civili – di pochi giorni fa l’annuncio dell’ennesima strage in un sobborgo di Damasco bombardato dal regime –, 70mila morti, un milione e trecentomila profughi e sei milioni di sfollati, il Paese è diventato terreno di incontro dei vari movimenti della galassia islamista e jihadista che stanno approfittando dello stallo e dell’incapacità dell’opposizione di prendere le redini della loro rivoluzione.

Ad averlo toccato con mano i quatto colleghi, trattenuti per dieci giorni da una khatiba (brigata) di Jabhat al Nusra nel nord della Siria, dopo essere stati fermati nel villaggio di Yaqubiya, inizialmente per un controllo sulle riprese effettuate fino a quel momento. Quello che è successo in quelle ore è ormai cronaca, anche se molti dettagli non sono trapelati e sono stati secretati dalla Procura di Roma.

Risulta evidente, però, che la zona, originariamente in prevalenza cristiana, e in cui lo scorso gennaio si è consumato uno scontro tra il l’Esercito di Liberazione Siriano e quello lealista, sia ora divenuta un’area nella quale opera prevalentemente il gruppo islamista. E anzi, non stupirebbe che il sequestro degli italiani, senza nessuno tipo di rivendicazione ufficiale, sia stato utilizzato a fini interni, quale dimostrazione di forza nei confronti di chi, come l’Els, quell’area dovrebbe essere in grado di controllarla. Un’area nevralgica perché confina con Latakia, regione alauita e roccaforte del clan Assad, dove con tutta probabilità si consumerà la fase finale della guerra.

La presenza di jihadisti in Siria in realtà non è un mistero, così come è abbastanza evidente la partecipazione di combattenti stranieri che hanno già operato in Iraq e in Afghanistan (i fronti dove si sono radunati militanti provenienti da tutte le parti del mondo) e che ora sono a combattere contro il governo di Assad, ma per ragioni ovviamente differenti da quelle che guidano i ribelli. Anche nel gruppo che ha tenuto i colleghi italiani erano presenti persone di nazionalità diverse, come ha raccontato lo stesso Amedeo Ricucci.

In generale si tratta di caucasici, verosimilmente ceceni, nordafricani (tunisini, marocchini, libici, algerini), mediorientali come gli iracheni, i sauditi, gli yemeniti. La loro guerra non punta certo a uno stato laico, quanto a una forma di califfato islamico (quindi sunnita).

Le province del nord e nord-ovest, la stessa zona dove gli italiani sono stati fermati, sono storicamente più conservatrici rispetto al resto del paese e rappresentano una roccaforte dell’Islam sunnita.

Jihad in Syria? Già lo scorso settembre l’Institute for the Study of War aveva tracciato una panoramica dell’universo jihadista siriano in un rapporto intitolato proprio Jihad in Syria. Nel documento si esamina in maniera sistematica l’esistenza di gruppi, parlando di una “presenza piccola ma crescente”.

Come era facilmente comprensibile, Assad ha sfruttato la minaccia jihadista quale elemento di coesione tra alauiti e cristiani, mentre la comunità internazionale l’ha interpretata come una buona ragione per rallentare il proprio coinvolgimento nel conflitto. Paradossalmente, la minaccia e il timore dell’integralismo armato islamico ne hanno facilitato la penetrazione nel Paese. Del resto, i ribelli non hanno mai negato che avrebbero combattuto al fianco di chiunque avesse sostenuto la loro stessa causa. Uno dei primi appelli alla ‘Guerra Santa’, una richiesta di aiuto rivolta all’esterno a tutti i fratelli musulmani, venne lanciato nei primi mesi del 2012 da Abderrazak Tlass, leader della brigata Al Farouk della città di Homs, sotto assedio da diversi mesi da parte delle truppe governative. L’appello fu oggetto, nei mesi a seguire, di numerosi e aspri dibattiti all’interno dell’opposizione.

In generale, rispetto alle rivolte in Libia, Egitto e Tunisia, quella siriana ha dovuto affrontare maggiori minacce islamiste, dal momento che per decenni il clan Assad ha finanziato gruppi ed elementi jihadisti. È dal 1979 che il Dipartimento di Stato ha iscritto la Siria nella lista nera dei finanziatori del terrorismo, sia per mantenere un equilibrio interno dopo le rivolte culminate nel “massacro di Hama” (1982, contro i Fratelli Musulmani) sia in funzione anti-israeliana. Ciò potrebbe significare che nel 2011, all’epoca delle prime rivolte, nel Paese esisteva già un network ben nutrito su cui poggiarsi. Il punto di non ritorno, secondo il rapporto, sarebbe stato nel corso del 2012 quando le alleanze in campo sono mutate e i gruppi di matrice islamista supportati dal regime sono passati dall’altra parte, portandosi dietro un importante bagaglio di conoscenze relative all’intelligence governativa.

Al di là di facili schematismi, la chiamata al Jihad non necessariamente significa una virata terroristica degli attori in campo. Il combattente è piuttosto un musulmano fedele che sente il dovere di aiutare i suoi confratelli. A tal proposito, il libico Mahdi al-Harati (braccio destro di Abdelhakim Belhadji, comandante della Brigata Tripoli, e responsabile della Liwaa al-Umma in Siria) in una intervista alla Cnn, ristabilisce l’equazione jihadista/buon musulmano, preferendo parlare di una forma di dovere e di solidarismo rivoluzionario internazionalista.

La brigata di Harati, formata da siriani e libici, prenderà parte ai combattimenti di Homs ed Aleppo riconoscendo in seguito la piena autorità dell’Els e confluendo in esso nel settembre del 2012. Ovviamente non tutti i gruppi jihadisti sono uguali e non tutti sono come la Liwaa al-Umma.

Allo stesso modo anche il termine islamista, utilizzato per esprimere la radicalizzazione delle posizioni in campo non reca storicamente con sé un valore negativo perché si riferisce in genere a una visione della politica che si rifà ai precetti dell’Islam, senza escludere i principi base dei sistemi democratici. Un esempio concreto si ritrova, come sottolinea ancora il documento dell’Institute for the Study of War, in una parte dell’opposizione che pur non essendo influenzata da un’ideologia jihadista vedrebbe bene, una volta caduto il regime di Assad, la realizzazione di riforme nella direzione di un Islam politico.

Anche Padre Paolo Dall’Oglio, in Italia in questi giorni dopo aver incontrato a Istanbul il leader della coalizione siriana Ahmed Moaz al-Khatib, fa una distinzione fra jihadismo e islamismo radicale che riconduce a “giochi geostrategici regionali e globali che non hanno nulla a che vedere con il dovere di solidarietà dei democratici mediterranei e del mondo, nei confronti della eroi siriani della democrazia”. E rispetto al gruppo che ha sequestrato gli italiani ci dice che Jabhat al Nusra è in un certo senso bipolare, “per un verso è l’espressione del desiderio di vittoria dei nostri giovani abbandonati dal mondo e per un altro è la strumentalizzazione di questi giovani da parte di una rete clandestina collusa con i vari stagni della criminalità globale. Il presidente della coalizione – prosegue – ha avuto modo di chiarire  la posizione della rivoluzione siriana e ha chiesto ai giovani jihadisti della Nusra (che non sono tutti criminali) di integrarsi nelle file dell’Els”.

Jabhat al-Nusra è nella black list di Washington da alcuni mesi. All’interno della Siria i suoi membri godono però di forte rispetto e ammirazione per il loro addestramento, la loro esperienza e la capacità di dimostrata nel colpire duramente il regime con azioni spettacolari, attentati dinamitardi o assalti militari organizzati e spesso vittoriosi contro le truppe lealiste.

Tra i gruppi sponsorizzati in precedenza da Assad risulta esserci Fatah al Islam, gruppo nato nel 2006 da Fatah Intifada e noto per i pesanti combattimenti avvenuti nel nord del Libano, nel campo profughi palestinese di Nahr al Bared nel maggio 2007. Il suo leader, Shakir al-Abssi, è conosciuto anche per i suoi legami con al-Qaeda in Iraq. Il governo siriano dal 2003 ha sostenuto anche i combattenti stranieri diretti in Iraq per combattere il jihad contro gli invasori occidentali e, in tempi più recenti, nel bel mezzo delle rivolte antigovernative, ha rilasciato Mustafa bin Abdel Qadir Sitt Mariam, membro di alto livello di al-Qaeda e attivo conto il regime durante le rivolte del 1979/1982. Nello stesso periodo, secondo fonti dell’intelligence, sono state liberate decine di altri militanti qaedisti e islamisti radicali a riprova della volontà di segnare i ribelli con il marchio di terroristi.

I gruppi operanti ora nel Paese includerebbero membri di al Qaeda in Iraq, le Brigate Abdullah Azzam, Fatah al-Islam.

Di Al Qaeda in Iraq si è parlato molto nei giorni scorsi, quando il leader del gruppo Abu Bakr al-Baghdadi ha annunciato la fusione con il fronte al Nusra, prontamente smentita, però, da Abu Muhammad Al-Golani che ha ribadito la fedeltà ad Al Qaeda di Ayman al Zawahiri, cioè al Qaeda classica, quella di Bin Laden per intenderci, guidata adesso dall’egiziano Zawahiri. A far da cornice a questo tentativo di affiliazione, ci sono le distanze prese ufficialmente dall’Els dal movimento operante sotto la bandiera qaedista: “non c’è mai stata e non ci sarà mai una decisione a livello di comando per coordinarci con Al-Nusra”.

Quello che si presenta è, quindi, un panorama piuttosto frastagliato non solo all’interno del grande magma che genericamente viene definito “opposizione siriana”, ma anche all’interno dei gruppi islamisti, a cominciare dal più grande e organizzato come la Nusra.

Le dichiarazioni di Al Qaeda in Iraq mostrano l’interesse all’unione sotto un unico brand, per potenziare gli effetti di una vittoria contro i governativi e  ampliare la zona di un eventuale califfato islamico, tanto che in alcune aree liberate dal regime, ma non ancora gestite dai ribelli della coalizione, sono stati instaurati dei Tribunali islamici che applicano la sharia. Del resto la vicinanza fra i due gruppi, di cui aveva scritto anche il giornale saudita stampato a Londra Asharq Al-Awsat, non è stata certo negata da Golani che ha ammesso sia l’impegno nel jihad in Iraq,  prima che la guerra li richiamasse in Siria, sia di aver ricevuto aiuto dal ramo iracheno nella fase iniziale dell’insorgenza contro Assad.

Godendo del consenso della popolazione siriana, diversamente da quanto accaduto in Iraq dopo anni di violenze che colpiscono indistintamente, per Al Nusra è importante però mantenere ora un’autonomia rispetto agli iracheni. Ciò li pone in una posizione di forza all’interno del Paese che, in prospettiva futura, dovrebbe preoccupare non poco la Coalizione.

Vai a www.resetdoc.org

Immagine: combattente del Free Syrian Army (cc, FreedomHouse)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *