Da Reset-Dialogues on Civilizations
Forse a settembre. Entro luglio o ad agosto sarebbe più difficile, anche perché d’estate la diplomazia europea va in vacanza. “Così può essere da qualche parte, in seguito” il summit Ginevra 2 sulla Siria avrà luogo. Nuove incertezze, dunque, anche per il segretario di Stato Usa John Kerry sul futuro del Paese martoriato da più di due anni di guerra civile e che ha toccato quota 90mila morti secondo le Nazioni Unite (100mila stando al Syrian Observatory for Human Rights). Dopo l’incontro con l’omologo russo Sergei Lavrov in Brunei, Kerry ha infatti sul tavolo le solite questioni diplomatiche da risolvere, aggravate ora anche dalla questione egiziana.
Sul dossier siriano persiste quel blocco guidato da Pechino e Mosca che sottolinea la netta contrapposizione sull’approccio al Medio Oriente nel Palazzo di Vetro. Un paio di settimane fa Susan Rice, ora consigliere di Obama, aveva definito questa inazione una macchia per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che sarà “giudicata duramente dalla storia”.
Il nodo da sciogliere, o comunque la questione più spinosa, resta il futuro di Bashar al Assad: la sua permanenza rende impossibile per l’opposizione pensare a qualunque forma di dialogo, una posizione che trova il sostegno degli Stati Unti, mentre dall’altro lato la Russia appoggia il regime siriano nel rivendicare la sua legittimità, nonostante le centinaia di migliaia di morti in questi anni.
Più che nel passato, poi, l’opposizione risulta poco coesa, incerta su chi inviare a Ginevra 2 e minacciata dall’interno a causa del ruolo che stano guadagnando sul terreno le varie correnti islamiste più radicali che nulla hanno a che vedere con il ramo politico dell’opposizione, ma che di fatto stanno combattendo contro il regime. Altri sono gli obiettivi, rispetto alle spinte libertarie che hanno dato vita alle rivolte nel 2011, e i timori dell’Occidente si fanno ora ancora più forti di fronte a video di decapitazioni (non erano tre francescani, ma il raccapriccio non ne risente) e a notizie come quella dell’uccisione di padre Francois, a Ghassanie.
I cristiani di Siria
Sulla condizione delle comunità cristiana (maronita, greco-ortodossa, siriaca-ortodossa e greco-cattolica) in Siria, che rappresenta il 10% su una popolazione di circa 22 milioni di persone ed è storicamente vicina agli Assad, si è espresso un recente rapporto di Open Doors International (l’agenzia che si occupa dei cristiani perseguitati fondata negli anni ’50 da un missionario olandese) documentando sia la situazione sul terreno, sia quella delle minoranze cristiane ora in piena guerra civile.
Il rapporto, intitolato Vulnerability Assessment of Syria’s Christians prende in esame appunto la “vulnerabilità” della comunità cristiana partendo da quell’identità etnica e religiosa piuttosto combinata che la rende quindi complessa. I cristiani inoltre, a differenza di altre minoranze, come la curda e l’alawita, non hanno un atteggiamento univoco nei confronti dei ribelli. Questo si è tradotto nel sostegno seppur minimo di alcuni intellettuali ai rivoluzionari, all’ingresso del greco-ortodosso George Sabra nel Consiglio Nazionale Siriano e al reclutamento tra le file del Free Syrian Army; anche se dall’altro lato molti altri fanno parte delle famigerate milizie degli Shabiha e dei Comitati di autodifesa popolare nati per difendere i propri villaggi e insediamenti dai raid delle milizie d’opposizione.
Oltre a ciò , e qui risiede maggiormente la ragione della loro vulnerabilità, la comunità cristiana è concentrata in aree strategicamente vitali, sia per il regime, sia per l’opposizione, come quelle di Aleppo e Damasco e la parte meridionale del governatorato di Homs, vicino al confine libanese, con il risultato di trovarsi “nel mezzo del fuoco incrociato dello scontro, subendo violenza da ambedue le parti”. Almeno nella prima parte della guerra, dunque, gli attacchi alla minoranza cristiana non sarebbero stati legati a ragioni confessionali. La situazione è cambiata però con la radicalizzazione militare del conflitto a cui ha fatto seguito anche una certa ‘settarizzazione’ con l’intervento di gruppi islamisti.
C’è da dire che i rischi per la salute, per la mancanza di sicurezza e la penuria di cibo riguardano l’intera popolazione siriana rimasta nel Paese; idem per le condizioni di vita nei campi profughi, anche se, secondo il rapporto, si contano in proporzione più rifugiati e sfollati tra la popolazione cristiana che non tra gli altri gruppi etnici e religiosi. In virtù del loro essere minoritari, inoltre, i cristiani subiscono all’interno dei campi maggiori vessazioni, così come all’esterno sono più facilmente vittime di bandi criminali o le donne di abusi sessuali. Una situazione che ha spinto molti di loro ad abbandonare la Siria e che fa prefigurare un futuro difficile, soprattutto nel caso di una sconfitta del regime.
Il fallimento dell’Islam politico?
Giocare sulle paure dell’islam e dello scontro fra civiltà però non aiuta il popolo siriano, vittima sin dall’inizio dei pregiudizi sulla natura della loro rivolta e di quell’inazione di cui ha parlato Susan Rice. Un pregiudizio, quello sull’islam, ancora più forte ora dopo il fallimento dell’esperimento egiziano della Fratellanza Musulmana che ha precocemente smorzato le speranze di chi credeva in un islam politico in grado di rendere stabile i Paesi usciti da decenni di regime. Invece, dopo il caos in Tunisia, ora c’è lì l’Egitto a ricordare a tutti, soprattutto agli Stati Uniti, che le cose sono più complesse del previsto.
E a ripensare oggi al monito di Mohamed Morsi a Bashar Assad, poco meno di un anno fa, “il tuo tempo non durerà ancora a lungo”, e al suo appello alla comunità araba per sostenere l’opposizione siriana viene da riflettere su quante cose siano cambiate.
Sul terreno, la guerra ha preso una piega favorevole per il regime che ha riconquistato posizioni centrali grazie alle armi russe, ai pasdaran iraniani e agli Hezbollah libanesi; mentre due alleati importanti dell’opposizione come Egitto e Turchia stanno vivendo fortissimi crisi politiche interne. Prima ancora del colpo di mano che ha esautorato Morsi e il governo, Selim Idris, il capo di stato maggiore del Consiglio militare supremo ribelle della Siria, aveva dichiarato in un’intervista alla tedesca Dpa di temere che quanto sta accadendo in Egitto avrà “ripercussioni sulla rivoluzione siriana” mandando all’Occidente il messaggio che “le rivoluzioni arabe generano instabilità”. Così come Russia e Iran stanno dicendo che “ l’alternativa al regime siriano è rappresentata da estremisti e islamisti”.
E Bashar al Assad ha fatto lo stesso, a poche ore dallo scadere dell’ultimatum in Egitto, brindando alla “fine dell’Islam politico”. “Questo è il destino di chiunque nel mondo provi a usare la religione per interessi politici o di fazione”, ha dichiarato in un’intervista al giornale siriano, del partito Ba’ath, Al-Thawra.
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Nella foto: la città di Homs in macerie