Da Reset-Dialogues on Civilizations
Un anno fa la foto di una marea umana che faceva la fila per il cibo, inondando quel che restava di una strada tra le macerie dei bombardamenti, fece il giro del mondo. Yarmouk divenne il simbolo degli orrori della guerra in Siria. Uno degli assedi, come quelli di Homs, di Kobane, di Aleppo e di altre città e villaggi, di un conflitto che è quasi giunto al suo quinto anno e che ha provocato oltre duecentomila morti, 7,6 milioni di sfollati interni e 3,2 milioni di rifugiati all’estero.
L’indignazione scatenata da quella foto dell’Unrwa (l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) e dalle notizie di decine di persone morte di inedia, per la mancanza di farmaci o uccise dai cecchini mentre cercavano qualcosa per sfamarsi, persino cani e gatti, non è servita a rompere oltre due anni di assedio da parte delle forze fedeli al presidente siriano Bashar al Assad che controlla il 50 per cento del Paese.
Sul campo profughi palestinese di Yarmouk, otto chilometri da Damasco, è calato il silenzio, ma i circa 18mila palestinesi e siriani intrappolati nell’insediamento continuano a patire la fame, l’acqua potabile scarseggia, non si trova carburante e mancano medicinali e personale sanitario. L’ospedale principale, il Palestine Hospital, è stato bombardato più volte. La Mezzaluna Rossa ha riferito di almeno 104 casi di itterizia, che potrebbero indicare il diffondersi dell’epatite A. E ad aggravare le sofferenze della popolazione, quest’inverno è arrivata la tempesta Huda che ha spazzato il Medio Oriente. Gli abitanti imprigionati nei due chilometri quadrati di campo, in edifici semidistrutti, spesso senza finestre, usano qualsiasi cosa -vestiti e mobili- per riscaldarsi, con il rischio di intossicarsi. Inoltre, quel poco che si riesce a trovare al mercato nero ha prezzi proibitivi.
“Per capire com’è la vita a Yarmouk, spegnete l’elettricità, l’acqua, il riscaldamento, mangiate una volta al giorno, vivete al buio, riscaldatevi bruciando legna”, ha spiegato di recente Anas, un residente del campo, all’Agenzia Onu.
Dall’inizio di dicembre l’Unrwa non riesce a fornire assistenza umanitaria. I camion sono presi di mira dai cecchini, le distribuzioni di cibo, acqua e farmaci sono state impedite o interrotte dalla deteriorata situazione della sicurezza, mentre nell’area si sono intensificati i combattimenti. Nel 2014, l’agenzia Onu è riuscita a fare entrare beni alimentari soltanto per 131 giorni e comunque in quantità insufficiente al fabbisogno della popolazione. Migliaia di persone non hanno alcun controllo sulla propria esistenza. Vivono sotto il fuoco incrociato delle forze fedeli ad Assad e delle varie sigle dell’opposizione armata.
Secondo il sito britannico Middle East Eye (MEE), ci sono almeno sette diversi gruppi armati all’interno del campo. Il Fronte popolare di Liberazione della Palestina – Comando Generale (FPLP-CG) è visto come una sorta di milizia di Assad all’interno di Yarmouk. Sempre schierati con il governo di Damasco, ci sono gli uomini di Fatah al al-Intifada, in maggioranza rifugiati palestinesi che vivevano in Libano e che hanno stretti legami con il movimento sciita libanese Hezbollah, i cui miliziani combattono al fianco delle truppe fedeli al presidente siriano. Sul fronte dell’opposizione si contano diverse formazioni: il gruppo Aknaf Bait al-Maqdis vicino ai Fratelli Musulmani; Al-Uhda al Umariya, piccola formazione di fuoriusciti dell’FPLP – CG; i qaedisti del Fronte al Nusra che raccolgono combattenti sia palestinesi sia siriani; gli islamisti siriani considerati più moderati di Ahrar al Sham; l’Esercito siriano libero, nelle cui file combattono molti disertori delle Forze armate siriane; i sostenitori delle fazioni palestinesi Hamas e Fatah, ma non in veste ufficiale. Bisogna mettere d’accordo tutti queste fazioni e l’esercito che circonda Yarmouk per consentire l’accesso ai convogli umanitari, ma l’impresa è riuscita poche volte negli ultimi due anni e i continui appelli dell’Unrwa sono rimasti inascoltati. La fame è diventata un’arma di guerra.
Il campo profughi di Yarmouk, aperto nel 1957 per i palestinesi in fuga dalle guerre arabo-israeliane del 1948 e del 1967, con il tempo era diventato una cittadina vivace, con una popolazione che prima del 2011 era di circa 160mila persone. Ospitava un terzo dei circa 500mila palestinesi presenti in Siria ed era un centro commerciale e culturale relativamente ricco, considerato la capitale della diaspora palestinese in Siria. Poi l’insediamento, che si trova in una posizione strategica sulla strada per Damasco, si è trasformato in un campo di battaglia. A nulla sono valsi gli sforzi dei palestinesi per garantirgli una sorta di neutralità nel conflitto. All’inizio l’esercito governativo è rimasto all’esterno, mentre all’interno le divisioni tra gli stessi palestinesi sono sfociate in scontri aperti tra i sostenitori e gli oppositori di Assad. Alla fine del 2012, la presenza di gruppi armati ribelli, tra cui fazioni di stampo jihadista, ha provocato sanguinosi combattimenti e bombardamenti dell’aviazione governativa, che hanno ridotto Yarmouk a un cumulo di macerie, svuotato dalla fuga in massa dei suoi abitanti.
Lo scorso 18 gennaio sono scesi in strada per protestare contro il blocco, definito già un anno fa “brutale” da Amnesty International che ha accusato il governo di Damasco di “crimini di guerra e contro l’umanità”. Dal luglio del 2013 l’assedio iniziato a dicembre del 2012 è diventato più duro, quasi totale. L’Unrwa non è riuscita neanche a far rientrare nel campo un gruppo di studenti che il 23 e il 24 gennaio scorsi erano usciti per sostenere gli esami. Avrebbero riportato con loro cibo e vestiti per i propri familiari.
Per i civili palestinesi intrappolati a Yarmouk è una punizione collettiva, che paragonano a quella inflitta a Gaza. Assad, che ha sempre propagandato il suo ruolo di sostenitore della causa palestinese, parla del campo come di un focolaio di “terroristi” per giustificarne l’assedio e il bombardamento. Alcuni la ritengono una ritorsione per quanti si sono schierati con l’opposizione, probabilmente considerati degli ingrati da Damasco che accorda alla popolazione palestinese siriana più diritti degli altri Paesi arabi. “Il regime si aspetta che i palestinesi mostrino più lealtà (ad Assad). Se un palestinese è sospettato di qualcosa di sbagliato, la sua punizione sarà molto più severa”, ha detto l’attivista siriano Rami al Sayed al sito MEE.
Di quello che sta accadendo a Yarmouk e ai palestinesi chiusi lì dentro non si parla, tranne che nei rapporti di poche organizzazioni umanitarie.
“I palestinesi di Yarmouk devono affrontare tre livelli di censura: quella dei media internazionali, quella dei gruppi che dicono di sostenere la Palestina e quella dei funzionari e degli attivisti palestinesi che a malapena ci menzionano”, ha detto un abitante. “Per rompere l’assedio, prima è necessario rompere il silenzio che lo circonda”.
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