Da Reset-Dialogues on Civilizations
Dal 5 gennaio scorso i cittadini siriani non possono più entrare in Libano con il solo documento di identità, ma hanno bisogno di un visto. Il paese, che detiene il primato mondiale per la più alta presenza di rifugiati, ha deciso di arginare un flusso di persone in fuga dalla guerra che negli ultimi quattro anni sono diventati 1 milione e 100 mila, ufficialmente, ma almeno 1 milione e 600 mila contando anche chi sceglie di non registrarsi presso le agenzie delle Nazioni Unite (vedi i dati dell’UNHCR).
La popolazione di 4 milioni e 400 mila abitanti è cresciuta di oltre il 25% da quando è cominciata la guerra in Siria. Per questo non stupisce, secondo il Center for Health and Human Rights di Harvard, come si sia arrivati a questa decisione, che era già nell’aria da circa tre mesi.
In totale più di tre milioni di siriani hanno lasciato il paese dall’inizio del conflitto e stanno continuando a farlo ogni giorno. Gli stati confinanti si sono ritrovati a gestire un flusso migratorio al quale non riescono a fare fronte, e anche la Turchia, che è stata spesso descritta come il “vicino” che ha affrontato meglio l’emergenza, fatica a garantire nelle tendopoli del confine condizioni di vita al di sopra della soglia di emergenza, soprattutto con il freddo di questo periodo. I servizi idrici e igienici sono un lusso, e spesso anche l’assistenza medica e la distribuzione di farmaci sono affidate ai volontari. Solo chi aveva un reddito più elevato nel suo paese, e si è potuto permettere un investimento per riaprire un’attività dall’altra parte del confine, è riuscito a scampare ai campi, e si è trasferito nelle aree urbane, ad Antep o sulla costa.
In Libano, dove migliaia di persone si sono insediate in accampamenti di fortuna lungo il confine, oppure in case abbandonate, o ancora nei vecchi campi palestinesi (chi non è stato ospitato o ha avuto la possibilità di affittare una stanza o un appartamento), la situazione è ancora più drammatica, e la pressione per il paese è diventata insostenibile: ai servizi ormai al collasso e all’economia già precaria sull’orlo del crollo, si aggiunge la paura che possa scatenarsi una nuova guerra civile, a causa della difficoltà di mantenere ancora gli equilibri tra fazioni, con una popolazione cresciuta in maniera esponenziale.
Il visto viene rilasciato al confine, e quindi non interesserà i siriani che già hanno abbandonato il paese, ma potrà essere approvato solo dietro verifica di comprovati motivi umanitari, anche se le condizioni non sono state specificate, oppure per altre motivazioni: turistiche, di lavoro, di transito. Ma anche avere un impiego sarà sempre più difficile, perché servirà la garanzia di uno sponsor locale.
Insomma l’idea è di scoraggiare l’ingresso, ma anche l’accesso all’occupazione e ai servizi. “Capiamo le ragioni del paese – ha dichiarato Ron Redmond, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Libano – ma allo stesso tempo il nostro lavoro è assicurare che i profughi non siano costretti a tornare indietro, dove sono in pericolo”.
Finora gran parte dei rifugiati ha fatto affidamento sulle Ong e sugli aiuti delle Nazioni Unite, ed alcuni sono riusciti ad ottenere la carta blu che dà diritto a circa 130 dollari al mese di alimenti. Ma molte persone non si sono mai registrate presso le agenzie dell’UNHCR, ed oggi sono loro che vedono con maggiore preoccupazione questa misura restrittiva all’ingresso nel paese. Chi per paura di rappresaglie nei confronti dei familiari rimasti in Siria, chi perché ha sempre viaggiato da un paese all’altro per motivi di lavoro. Basti pensare che prima della guerra centinaia di siriani lavoravano regolarmente in Libano.
La tensione politica è comunque cresciuta intorno al tema dei rifugiati. Sin dall’inizio della guerra il Libano ha chiesto aiuto alla comunità internazionale, e ad ottobre dello scorso anno ha annunciato che non avrebbe più potuto continuare a ricevere rifugiati, fatta eccezione per i singoli casi di grave emergenza umanitaria. Il ministro dell’Interno Nohad Machnouk ha parlato di un grandissimo impatto di questa ondata migratoria su tutto il sistema economico, sociale, infrastrutturale e di sicurezza del paese. Un mese fa il ministro per gli Affari Sociali Rachid Derbas affermava di aver ricevuto solo il 44% dei fondi promessi, circa 700mila dollari nel 2014, su un totale di un miliardo e mezzo accordato.
Secondo i dati della Banca Mondiale, alla fine di dicembre i libanesi al di sotto della soglia di povertà sono arrivati a 1 milione 170 mila, mentre il numero dei giovani disoccupati è di 220 mila.
La tensione si è manifestata anche per strada, in diverse occasioni, quando i libanesi hanno preso di mira le tende dei profughi, come nel settembre scorso ad Hay Al Selloum e Al Lailaki, sobborghi di Beirut, in concomitanza con la notizia dell’uccisione di uno dei soldati libanesi catturati da membri dell’Is.
A conferma di un deterioramento della situazione umanitaria e di sicurezza in Libano, dovuto alla crisi siriana, ci sono anche i dati dello studio realizzato dall’International Labour Organization.
Dalle informazioni raccolte risulta che la maggior parte dei siriani vive in condizioni di estrema difficoltà economica, e mentre all’inizio venivano ospitati da parenti e amici, col passare del tempo sono stati obbligati a pagare affitti salati, e a dividere un appartamento fra più famiglie per ridurre le spese. O in alternativa spostarsi nei campi palestinesi, in case abbandonate o in tende. I profughi sono soprattutto bambini e ragazzi, più della metà del totale ha meno di 24 anni, e un basso tasso di scolarizzazione. Uno su tre è completamente analfabeta e non è mai andato a scuola, il 40% si è fermato all’istruzione primaria, e solo il 3% ha frequentato l’università. Percentuali che valgono anche per le ragazze e le bambine. Una volta in Libano, la maggioranza di loro resta comunque esclusa dal sistema scolastico.
Sul fronte occupazionale, il 47% dei rifugiati lavora, come faceva già nel suo paese prima della guerra. E si concentra soprattutto nel sud del Libano. Qui le differenze di genere emergono in maniera più marcata: le donne che non hanno un impiego raggiungono infatti il 68%, soprattutto perché si trovano costrette a badare ai figli a tempo pieno, in assenza di alternative. I siriani trovano lavoro soprattutto nell’agricoltura, nei servizi domestici e nell’edilizia. Si tratta di impieghi a basso reddito e senza diritti o norme di sicurezza, che riflettono la situazione dei profughi, che per il 92% lavorano in nero e senza alcun tipo di tutele; il 56% lavora in modo stagionale, settimanale o a giornata, e solo il 23% ha un’entrata regolare. Lo stipendio medio di un rifugiato siriano oscilla fra le 418 e le 450 mila lire libanesi, (all’incirca fra i 235 e i 250 euro). I compensi più bassi si riscontrano ad Akkar e a Tripoli, i più alti nel Sud.
Con la guerra in Siria il mercato del lavoro in Libano si è modificato: l’economia ha rallentato, gli investimenti privati sono calati, il turismo e l’immobiliare hanno avuto un crollo. Complessivamente la crescita economica è scesa dall’8% annuo dal 2007 al 2010, al 3% nel 2011 e al 2% nel 2012.
I diritti del lavoro si sono di fatto ridotti anche per i lavoratori libanesi, mentre gli imprenditori locali hanno beneficiato di questa riduzione di costi e diritti, che si è generalizzata fra i lavoratori non specializzati. Anche i bimbi fra gli 8 e i 14 anni, spesso sono costretti a lavorare.
Rispetto all’istruzione, il problema del sovraffollamento delle strutture penalizza i rifugiati, che tra l’altro si trovano spesso in difficoltà con le lingue di insegnamento, dove si tengono lezioni in inglese e francese, oltre ad avere problemi di trasporto e non potersi permettere un mezzo.
I servizi sanitari di base in teoria sono accessibili, assieme a quelli garantiti da Ong locali e organizzazioni internazionali ma non riescono a soddisfare le esigenze di una popolazione che è cresciuta a dismisura. Questi servizi però sono spesso limitati ai soli rifugiati registrati. Anche l’accesso all’acqua e la disponibilità di servizi igienici resta un problema, cosa che favorisce la diffusione di alcune patologie.
In Libano manca una legislazione specifica relativa allo status e ai diritti dei rifugiati. Nel 1993 il paese aveva firmato con la Siria un accordo di cooperazione economica e sociale, decretando di fatto la piena libertà di soggiorno e lavoro da parte dei cittadini di entrambi i paesi, e dall’inizio della guerra ha mantenuto una politica di confini aperti, in modo tale che i rifugiati potessero comunque entrare e lavorare, anche con l’apertura di piccole attività commerciali in proprio. Fino ad ora.
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