Da Reset-Dialogues on Civilizations
Lontano dalla scena internazionale, da scontri e attacchi documentabili, da più di due anni in Siria si stanno consumando incalcolabili drammi umani e violazioni dei diritti nel silenzio delle carceri. Prima di pubblicare l’ultimo rapporto sul paese, Human Rights Watch ha lanciato una campagna in rete per raccontare 21 storie di altrettanti detenuti dei quali è stato possibile raccogliere esperienze, dati, testimonianze, immagini. Attivisti, ma spesso anche medici, avvocati, giornalisti che in questo biennio hanno provato a raccontare, aiutare, tutelare.
Lost in Syria’s Black Hole è una denuncia pubblica di quanto accade nelle celle di detenzione, in piena sospensione delle leggi ufficiali. È una storia collettiva di abusi, torture, mancanze di capi d’accusa e trattenimenti coatti, intimidazioni e isolamento. E’ un grido d’allarme contro l’accusa collettiva di “sostegno al terrorismo”.
Ghada e Sawsan al- Abbar sono stati arrestati insieme a Daraya, il 21 dicembre 2012 e si trovano ancora in carcere. Hada è un avvocato, e stava cercando di mettere insieme le prove delle violazioni dei diritti umani insieme ad un gruppo di colleghi, mentre la sorella Sawsan era alla direzione dell’ospedale della città. Le due donne sono state fermate per il loro attivismo, e dopo un anno e mezzo nel carcere Al-Kathib di Damasco sono state trasferite nel carcere di Adra. Nel giugno scorso sono comparse davanti alla corte antiterrorismo ma pur non essendo state condannate si trovano ancora in stato di detenzione. La famiglia ha presentato una petizione per chiederne il rilascio, ma finora è rimasta inascoltata.
A Yehia e Mohamed Shorbaji è toccata la stessa sorte, e di Mohamed oggi non si sa nulla. I due fratelli sono stati prelevati il 6 settembre 2011 come membri del Daraya Youth, un’organizzazione non violenta che stava manifestando contro il regime. Lo stesso giorno il leader del gruppo Ghiyath Mattar venne arrestato e poi ucciso in carcere. Quattro giorni dopo la famiglia si vide recapitare il suo corpo. Un ex detenuto del carcere di Sednaya ha raccontato di averli visti quest’anno in prigione, ma le autorità carcerarie non hanno mai confermato la loro presenza. La famiglia ha fatto domanda di visita, ma gli è stata sempre negata.
Mazen Shorbaji, anche lui attivista nel Daraya Youth, è stato arrestato in casa, da uomini dell’intelligence che minacciavano di prelevare anche la moglie. Libraio e attivista per la pace, durante le manifestazioni di piazza aveva aiutato i manifestanti feriti a trovare un posto sicuro per essere curati. L’ultima volta che la sua famiglia lo ha visto, nel carcere di Sednaya, è stato nel luglio del 2012. Un altro parente della famiglia Shorbaji, Nabil, giornalista che aveva scritto di libertà di espressione e contro la corruzione, è stato arrestato il 16 marzo 2011. Rilasciato dopo 17 giorni, è stato fermato di nuovo il 26 febbraio 2012, ad un posto di blocco. Soltanto un anno dopo i familiari sono riusciti a vederlo nel carcere di Adra, dove si trova ancora, senza aver affrontato un processo.
Mohamed Atfah invece è stato rilasciato dopo alcuni mesi di detenzione, ma i suoi parenti hanno raccontato a HRW che non era più in grado di riconoscerli e che aveva completamente perso la memoria. Vent’anni, è un operatore umanitario che prima di finire in carcere lavorava a Homs con i bambini che avevano subito i traumi della guerra.
Mohamed Nour al- Shemali, anche lui poco più che ventenne come Atfah, venne invece arrestato all’università di Aleppo, mentre con un amico cercava di intervistare gli sfollati che si erano rifugiati nell’ateneo. Era il primo dicembre 2012 e lui aveva già documentato in altre occasioni gli abusi del governo Assad, facendosi intervistare anche da media stranieri. A quasi due anni dal suo arresto non è stato mai scoperto dove sia trattenuto, né se sia ancora vivo.
Hussein Essou è fra i più anziani detenuti per motivi politici: è un attivista curdo di 65 anni e prima di essere arrestato lavorava con gli agricoltori della provincia di Al-Hassaka e aveva chiesto un incontro con il presidente Assad per la cessione dei terreni. Al suo rifiuto è andato a protestare davanti agli uffici comunali della città. La sera del 2 settembre 2011 gli agenti di sicurezza lo aspettavano a casa. Secondo la testimonianza di un altro detenuto, che ha raccontato di averlo visto nel dicembre del 2012, l’uomo avrebbe perso l’uso delle gambe. Ma la famiglia non ha mai avuto notizie di lui e qualsiasi richiesta di visita è stata respinta. Lo scorso gennaio i suoi parenti sono tornati davanti agli uffici pubblici di Al-Hassaka a manifestare per la sua liberazione, proprio dove lui aveva protestato per l’ultima volta.
Le loro storie, come pure quelle di Khairo e Islam Al-Dabbas, Ali Al-Shebabi, Nidal Nahlavi, Hani Zaitani, Mazen Darvish, Hussein Gharir, Bassel Khartabil, Anas Al-Shoghary, Khalil Maatouk, Mohamed Meqdad a Abdul Akram Al- Sakka, sono simili fra loro, e riflettono una situazione allarmante in cui persone comuni si “perdono”, a volte per non tornare. Eppure, come ha voluto sottolineare HRW con questa campagna di denuncia, il governo siriano dovrebbe fornire un accesso immediato ai centri di detenzione, per consentire alle associazioni per i diritti umani, agli avvocati e ai familiari dei detenuti di verificarne le condizioni costantemente. Per questo sarebbe importante che la comunità internazionale facesse pressione, anche attraverso le Nazioni Unite, per un intervento della Corte Penale Internazionale. Con l’occasione Human Rights Watch torna anche a denunciare gli abusi compiuti da alcuni gruppi dell’opposizione, che pure hanno fatto e fanno uso di detenzioni arbitrarie e trattamenti inumani.
Perché il rilascio dei detenuti politici dovrebbe essere una delle priorità di qualsiasi futuro negoziato. E alla base di qualsiasi ricostruzione del paese e delle sue istituzioni.
Qui la campagna: http://www.hrw.org/lost-in-syrias-black-hole#gallery_top
Vai a www.resetdoc.org