Siria, ecco perché ora la guerra è un gorgo senza uscita

Da Reset-Dialogues on Civilizations
Intervista di Antonella Vicini

Nessuna “punizione”, almeno per il momento, a Bashar al Assad. L’accordo siglato sabato a Ginevra ha fatto placare i venti di guerra, ben prima che venisse reso noto il rapporto degli ispettori Onu. “Una vittoria per la Siria”, l’ha definito il ministro della riconciliazione siriano Ali Haidar in un’intervista rilasciata all’agenzia russa Ria Novosti. E certamente anche per Mosca. Il governo Assad si è impegnato a firmare la messa al bando delle armi chimiche, la riconsegna e la distruzione degli arsenali in possesso, entro la metà del prossimo anno. A novembre, intanto, gli ispettori Onu torneranno nel Paese per concludere le proprie indagini, anche se i primi i risultati annunciati ieri non lasciano spazio a dubbi sull’utilizzo di armi chimiche, su larga scala, lo scorso 21 agosto a Ghouta.

Il 21 agosto il mondo si è accorto che in Siria c’è una guerra considerando soltanto la questione armi chimiche sì, armi chimiche no, e dimenticando completamente che in Siria prosegue da tempo una guerra con armi convenzionali, la stragrande maggioranza delle quali è usata dal regime, perché i missili scud, sparati sulle abitazioni di Aleppo, sono tipi di armi che l’Els non possiede, così come gli elicotteri e gli aerei”.

A parlare è Lorenzo Trombetta, giornalista per l’Ansa da Beirut e profondo conoscitore e studioso di Siria, dove ha vissuto a partire dal 1998 per lunghi periodi. Alla Siria e alla struttura del potere in mano agli Assad, Lorenzo Trombetta ha dedicato la sua tesi di dottorato e ora con Siria. Dagli ottomani agli Asad. E Oltre, edito da Mondadori Universitaria, ha compiuto un interessante excursus sulla Siria degli ultimi anni, partendo dal suo passato.

“In molti – spiega l’autore – scandiscono la periodizzazione della crisi siriana in modo poco chiaro e poco attento a ciò che è successo sul terreno. Quello che è successo è che da oltre due anni e mezzo c’è una rivolta popolare che, dopo circa cinque-sei mesi, si è trasformata in resistenza armata in alcune zone; la guerra vera e propria è partita dalla metà del 2012. Senza ricordare questo sembra che nel marzo del 2011 orde di barbari, criminali, jihadisti e mercenari siano entrati in Siria e abbiano aperto le porte dell’inferno. Non è così”.

Dopo il 21 agosto, comunque, si è spalancata una finestra importante sulla Siria. Come giudicare l’accordo siglato sabato?

Per il momento è certamente un successo del fronte dominato dalla Russia, poi bisognerà vedere come la situazione evolverà da un punto di vista diplomatico. Credo che la questione siriana sia al centro delle manovre fra l’asse occidentale e quello orientale, perché di fatto è qui che si scontrano gli interessi dei grandi. Per usare una metafora calcistica, comunque, l’accordo mi pare più un pareggio che favorisce i russi e i loro alleati che non gli Stati Uniti. La cosa positiva, vedendola da un punto di vista occidentalocentrico, è che la crisi sulla Siria si sta apparentemente placando e sta trovando, almeno formalmente, una via d’uscita per evitare un attacco straniero.

Gli ispettori torneranno sul terreno a novembre; le armi saranno distrutte entro il 2014: pare ci sia una road map.

Questo è il solito balletto di date che saranno poi regolarmente smentite. Ci saranno ritardi e proroghe perché quando i siriani riescono a entrare in questo tipo di trattative sono molto abili a far slittare a livello burocratico firme di trattati o convenzioni. Non stiamo, quindi, a guardare troppo a scadenze e impegni verbali presi in queste ore. Resta il fatto che per la prima volta nella sua storia la Siria ha deciso di firmare un trattato internazionale; lo ha fatto ovviamente sotto pressioni molto forti. Prima che gli ispettori vengano messi in grado di fare il loro lavoro in modo indipendente, però, passerà molto tempo, se ciò avverrà veramente.

Dopo centomila morti e tutto ciò che è successo, è ancora possibile la strada della negoziazione diplomatica e politica?

No, così come sono le cose sul terreno è impossibile. Bashar al Assad e i suoi saranno costretti a pensare a una resa solo se cambieranno gli equilibri in campo. Fino a quando avranno in mano porzioni di territorio molto importanti, e una supremazia aerea e missilistica, non avranno alcun motivo per cui andare a trattare. Perché dovrebbero perdere un potere che hanno difeso per quarant’anni e che continueranno a difendere fino anche a distruggere ciò che resta della Siria? Hanno già dimostrato in questi due anni e mezzo di non avere nessun interesse a un negoziato, a meno che qualcuno non punti loro una pistola alla tempia. Ma fino ad adesso questo non è avvenuto.

Qual è stato il punto di non ritorno nell’escalation di violenza in Siria?

Il punto di non ritorno è stato dopo la repressione delle manifestazioni nel 2011. La rivolta armata è già una conseguenza delle repressione in un Paese che non è certo l’India di Gandhi. Il punto di non ritorno è quando la popolazione siriana, in un contesto di transizione di tutto il mondo arabo, si è accorta che poteva rischiare e poteva dire basta a più di quarant’anni di regime. Lì si è aperta la vera crepa; lì si è capito che quale che fosse stato il modo di condurlo, ormai lo scontro era inevitabile.

Uno dei modi per interpretare il conflitto siriano è la lotta tra sciiti e sunniti. Quanto c’è di vero in questa chiave di lettura?

In generale, leggere il confronto in Medio Oriente come scontro fra sunniti e sciiti è fuorviante. Sicuramente il fattore confessionale e comunitario è presente da decenni, da secoli. Il problema, come sempre avviene nella storia, è che questi aspetti confessionali, liturgici in certi casi o comunque ideologici, vengano poi sfruttati politicamente. Quindi, oggi, la questione sciiti-sunniti viene strumentalizzata a fini politici dai vari attori regionali che si credono o si presentano quali portatori di quella o di quell’altra ideologia. Ma se andiamo a guardare tutta l’area mediorientale, ben prima dell’epoca moderna vediamo che le tensioni fra questi due poli dell’Islam sono state molte acute. Ricordiamo che lo sciismo è una derivazione dei primi momenti politici dell’Islam e che quindi, fin dall’inizio, le questioni liturgiche e religiose sono diventate strumento di una lotta di potere. Detto questo, in Siria gli alauiti sono una comunità importante: la famiglia Assad e il loro clan sono alauiti, ma questo non vuol dire che il regime siriano sia dominato solo dagli alauiti. Ecco perché la questione sciita, e in particolare alauita, non basta per giustificare la situazione in atto, anche se non dobbiamo dimenticare che la questione comunitaria nel corso di questi due anni ha assunto una valenza molto forte. Le regioni che si sono rivoltate nel 2011, e che poi hanno preso le armi, sono in larga maggioranza regioni sunnite dimenticate dagli Assad che oggi, in questo clima di forte polarizzazione e violenza, usano l’appartenenza al sunnismo e al sunnismo radicale come elemento di legittimità della propria lotta. Una volta che si parla di religione e di Dio si ha più possibilità di mobilitare masse e far sopportare le fatiche. Ciò vale non soltanto nell’Islam.

A proposito di potere, nel suo libro si parla anche del clan sunnita che fa capo alla famiglia di Asma, la moglie di Bashar al Assad.

Ci sono numerosi esempi rintracciabili nel libro di come la questione non sia esclusivamente confessionale e comunitaria. Il vero discrimine è l’appartenenza a una rete di famiglie e di clan alleate. Un po’ come accade nei nostri regimi mafiosi che operano per legami familiari e di clan. Non basta essere siciliani per essere mafiosi, come non basta essere alauiti per essere al potere in Siria. Si accede al circolo più ristretto del potere se si fanno determinati patti e perché si condividono alcune scelte economiche e finanziare; perché si partecipa in qualche modo alla gestione del potere, come beneficiari, ma anche come finanziatori. E quindi, nel corso di questi anni, anche numerosi cristiani e sunniti hanno partecipato al dominio degli Assad.

Domenico Quirico, al termine della sua drammatica esperienza, ha parlato della Siria come di un Paese in cui il Male ha vinto. Cosa è rimasto degli ideali libertari e laici dei primi rivoluzionari?

Quirico ha rilasciato queste dichiarazioni dopo 150 giorni di prigionia e, quindi, avendo vissuto fuori dal mondo e anche fuori dalla Siria, almeno come percezione. Quirico era stato in Siria in precedenza, ma evidentemente non abbastanza per conoscere il contesto siriano, né conosce l’arabo. Questo a mio avviso è un handicap di cui un giornalista, per quanto affermato, dovrebbe essere consapevole. Quirico si è perso moltissimo degli ultimi mesi e non ha avuto modo, perché non gli è stato consentito, di conoscere le varie realtà della Siria in rivolta che continuano a operare in modo pacifico e con ideali di libertà e giustizia sociale. Una Siria non laica come potremmo pensarla noi, ma di un laicismo basato su un principio di cittadinanza. Questa lotta continua a essere combattuta ogni giorno da tantissimi attivisti non violenti di tutte le regioni siriane, sia quelli che si trovano sotto il tacco del regime, sia quelli che si trovano sotto il tacco delle varie formazioni jihadiste o bande criminali che tentano di imporre il loro potere sulla falsariga del regime. Moltissimi attivisti parlano ormai di una doppia rivoluzione: una contro gli Assad e una contro questi criminali jihadisti che non hanno nulla a che fare con la loro causa. Tutto questo Quirico non lo ha potuto vedere ed evidentemente si è convinto che la Siria sia il Paese del male. Un’annotazione, però: Quirico ha conosciuto molte altre situazioni drammatiche, perché dire che la Siria è il Paese dove il male ha vinto? Perché in quel caso gli è stata puntata una pistola alla tempia? Ecco forse c’è un eccesso di autocentrismo.

Da www.resetdoc.org

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