Con la sfiducia dei suoi parlamentari al leader laburista lo sconquasso prodotto dal Brexit nella politica britannica si abbatte anche sull’opposizione. Jeremy Corbin difficilmente vedrà le prossime elezioni politiche, quelle che voleva vincere “a ogni costo”, dalla plancia di comando del suo partito. Le accuse di scarsa energia nella campagna referendaria per il remain si collegano ai malumori antieuropeisti che hanno fatto breccia nell’elettorato laburista. Del resto il profilo di Corbyn parla chiaro e non e’ quello di un europeista: come lui stesso ha ammesso, nel 1975 votò contro l’appartenenza della Gran Bretagna a quella che allora si chiamava CEE, ma anche in tempi molto più recenti la sua campagna contro la “brutale organizzazione” di Bruxelles ha assottigliato i confini tra la critica all’austerity e la voglia di andarsene. Altri tempi quelli in cui i Blair e i Brown attaccavano i conservatori accusandoli di assecondare umori secessionisti di tipo leghista e invitandoli a esercitare la funzione che tocca a una classe dirigente degna di un ruolo di governo.
Il futuro del laburismo britannico torna ora a presentare un grande interrogativo. La stagione del leader 67enne che aveva spostato verso posizioni più radicali il centro di gravità del partito, dopo i fratelli Milliband, il blairiano David e poi il più ortodosso socialdemocratico Ed, sembra chiudersi anzitempo in uno scenario confuso. La sua vittoria alle primarie era stata molto netta e aveva incontrato consensi tra i sostenitori più giovani e tra i più anziani, molto meno nelle fasce d’età intermedie. Il risultato sorprendente e paragonabile, per tante ragioni, a quello di Bernie Sanders (l’avversario della Clinton, che ora si è arreso) ha messo in luce la capacità di Corbyn, della sua immagine e dei suoi programmi per i diritti umani e la giustizia sociale, basati tra le altre cose, su nazionalizzazioni ed erogazioni monetarie dirette alle famiglie, di incontrare consensi entusiastici in fasce di elettori o sostenitori del suo partito. Non a caso nelle sue dichiarazioni di queste ore in cui rifiuta di dimettersi, Corbyn fa riferimento al 60% dei “Labour members e supporters” che gli hanno dato la vittoria nelle primarie dell’anno scorso. E in effetti il suo successo ha segnato il passaggio degli iscritti al patito da 180mila iscritti a 370mila, un livello che raggiunge la somma degli iscritti di tutti i partiti britannici, ed è arrivato dopo una sconfitta disastrosa dei laburisti, tra i quali molti lo hanno visto come una occasione unica per rivitalizzare una formazione esausta. (Blair ebbe comunque nel ’94 quasi un milione di votanti). Va detto che nelle primarie dell’anno scorso il Labour tentava per la prima volta di risalire la china con nuove regole, seguendo deliberatamente il modello americano e ispirandosi anche al Pd in Italia e al Ps in Francia. La novità ha avuto come conseguenza l’abbandono dei filtri tradizionalmente rappresentati da sindacati, parlamentari e strutture del partito e dalla ponderazione dei voti, per cui il voto dei vecchi membri pesavano molto più dei nuovi mentre ora i registered supporters potevano votare con il semplice versamento di 3 sterline e con reclutamento on line.
La riforma delle primarie che era un progetto da lungo desiderato dalla destra del partito, per aggirare le resistenze dei sindacati, ha finito per avere un esito di segno esattamente contrario, diversamente dai casi americano, italiano e francese. Per la serie degli “effetti inattesi” è accaduto qualcosa che non era mai accaduto prima: un esponente dell’ala sinistra radicale prendeva il controllo del partito. I conoscitori della storia del Labour sanno che non è vero che questo sia accaduto prima. Dagli anni trenta quest’ala non ha mai avuto il comando e quando si citano Harold Wilson o Neil Kinnock si dimentica che questi avevano guidato il partito verso il centro. E lo stesso Michael Foot, con cui spesso Corbyn viene paragonato, era una figura di “soft-left”, con alle spalle esperienza di governo. Come ricorda in modo pungente James Stafford, un giovane storico di Cambridge, Corbyn era un protégé di Tony Benn, e Foot fu eletto segretario proprio per sbarrare la strada a Benn, esponente una “far-left” capace di stare sulla scena per testimoniare ansie di giustizia e sentimenti di protesta, ma non di competere per il ruolo di uno dei due partiti concepibili come forze di governo.
Articolo pubblicato su La Repubblica il 29/06/2016